Per la prosopopea dell’Italia di Giacomo Leopardi

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Since the seminal works by De Sanctis and Carducci, the personification of homeland represents a keystone in the interpretation of Giacomo Leopardi’s poem All’Italia (1818). In this paper, the topic is related both to memory traumas in the Age of Napoleon and to the expectations of a cultural and political revival of Italy. The predominant role played in this context by visual arts (mostly by the outstanding personality of Antonio Canova) is considered, as well as the commitment of Pietro Giordani – Leopardi’s first mentor – as related to their spread and appreciation. The personification of Italy in Leopardi’s canzone is eventually connected to a nineteenth-century avatar of Raffaelo Sanzio’s Salita al Calvario, a central icon in neoclassical imagery. As a result, new light is shed on the young poet’s relations to visual arts – especially on his ambivalent attitude toward Neoclassicism – as well as on the political reuse of biblical themes during the Risorgimento.

O patria mia, vedo le mura e gli archi
E le colonne e i simulacri e l’erme
Torri degli avi nostri,
Ma la gloria non vedo,
Non vedo il lauro e il ferro ond’eran carchi
I nostri padri antichi. Or fatta inerme,
Nuda la fronte e nudo il petto mostri.
Oimè quante ferite,
Che lividor, che sangue! oh qual ti veggio,
Formosissima donna! Io chiedo al cielo
E al mondo: dite dite;
Chi la ridusse a tale? E questo è peggio,
Che di catene ha carche ambe le braccia;
Sì che sparte le chiome e senza velo
Siede in terra negletta e sconsolata,
Nascondendo la faccia
Tra le ginocchia, e piange.
Piangi, che ben hai donde, Italia mia,
Le genti a vincer nata
E nella fausta sorte e nella ria.[1]

1. La prosopopea della patria nella canzone All’Italia di Giacomo Leopardi si staglia su un fondale intessuto di reminiscenze poetiche[2] ed elaborati riferimenti alla storia nazionale: quella remota della romanità (gli «archi» e le «colonne») e dell’età comunale (l’«erme torri»);[3] ma anche quella prossima e ancor pulsante dell’età napoleonica, solo che la visuale sia allargata (è la stessa storia redazionale a invitarvi)[4] alla gemella canzone Sopra il monumento di Dante che si preparava in Firenze.

Nella canzone su Dante Leopardi inscena un dramma della memoria culturale:[5] il trauma delle spoliazioni napoleoniche di opere d’arte[6] nell’«ultima sera» della patria («Beato te [Dante] che il fato / A viver non dannò fra tanto orrore; / Che non vedesti in braccio / L’itala moglie a barbaro soldato; / (...) / Non degl’itali ingegni / Tratte l’opre divine a miseranda / Schiavitude oltre l’alpe, e non de’ folti / Carri impedita la dolente via»),[7] felicemente risolto con la missione di Antonio Canova a Parigi (agosto/ottobre 1815) e la restituzione di parte delle opere trafugate; quindi l’accorato e ultimativo appello del poeta al «guasto legnaggio», al quale non sono più concesse scusanti:

Mira queste ruine
E le carte e le tele e i marmi e i templi;
Pensa qual terra premi; e se destarti
Non può la luce di cotanti esempli,
Che stai? levati e parti.
Non si conviene a sì corrotta usanza
Questa d’animi eccelsi altrice e scola:
Se di codardi è stanza,
Meglio l’è rimaner vedova e sola».[8]

Ai monumenti del passato recuperati e presenti (e a quello di Dante erigendo in Firenze, al quale il poeta affida identico monito)[9] Leopardi oppone nelle due canzoni il monumento assente: la tomba dei soldati italiani dispersi durante la campagna napoleonica di Russia («E i negletti cadaveri all’aperto / Su per quello di neve orrido mare»).[10]

Il poeta pone qui il lettore di fronte a un secondo trauma della memoria.[11] Anche in questo caso l’infelicità del presente si staglia sullo sfondo della felicità degli antichi, quegli eroi delle Termopili il cui sepolcro è perpetua memoria del loro valore («La vostra tomba è un’ara»):[12] «Prima divelte, in mar precipitando, / Spente nell’imo strideran le stelle, / Che la memoria e il vostro / Amor trascorra o scemi»;[13] insepolti sono invece destinati a rimanere i cadaveri dei soldati italiani costretti a combattere per lo straniero: «[...] Anime care, / Bench’infinita sia vostra sciagura, / Datevi pace; e questo vi conforti / Che conforto nessuno / Avrete in questa o nell’età futura».[14]

2. Per il dramma dei caduti italiani nelle campagne napoleoniche Leopardi poteva trarre ispirazione dalla letteratura artistica, in particolare dalla Storia della scultura di Leopoldo Cicognara, opera che culmina con la figura di Canova quale restauratore della grandezza della scultura. Nella ricostruzione di Cicognara, l’età zenitale delle arti in Italia coincide con il momento della massima infelicità della patria:

Fu l’Italia infelicissima, ma non furon codardi i suoi figli; se non che venner sospinti fin nell’estrema Iberia e nel gelato settentrione a militare per estranei interessi; e coperti di gloria lunge dal patrio suolo, lasciando le vedove spose e le madri desolate, non ebbero mano amica e ospitale che tergesse i sudori delle lor fronti, o medicasse le lor ferite, come accadeva nelle antiche guerre d’Italia, nelle quali si combatteva per la patria fortuna. E questa fu massima fra le sventure; poiché per lo meno nel giro di pochi anni perirono cento mila giovani valorosi, senza spargere una stilla di sangue per la indipendenza della loro terra.[15]

Anche per l’iconografia dell’Italia, pur senza aderire ai suoi dettami (almeno non integralmente),[16] Leopardi dovette ispirarsi all’immaginario neoclassico, soprattutto nella versione datane dal suo primo mentore, Pietro Giordani, gran sacerdote del culto canoviano,[17] che tra le altre cose gli raccomandò la lettura proprio del libro di Cicognara.[18]

L’Italia piangente sui figli caduti è una costante dell’iconografia risorgimentale.[19] La versione datane nella prima canzone leopardiana è stata oggetto di giudizi critici contrastanti e al loro stesso interno contrastati, a cominciare da quello di Francesco De Sanctis, il quale, pur non nascondendo la propria ammirazione per la «statua perfetta» forgiata da Leopardi, ne biasimava l’eccessiva politezza, il suo essere opera (si direbbe ricorrendo alle categorie fondamentali dell’estetica desanctisiana) più di artista che di poeta: «Qui si vede il giovane tutto intento a formare una statua, non fantastica, come pur si dovrebbe, ma reale e compita, con gli ultimi tocchi e le ultime carezze, che raddolciscano l’impressione di quelle ferite e di quelle catene». Non che il pensiero sia assente, o i sentimenti posticci; a peccare di artificiosità è piuttosto «la messa in iscena, il procedimento meccanico col quale sono presentati»: «La cornice è di un oro sospetto e di cattivo gusto, ma il quadro è di Raffaello», come rivelano i non pochi versi di «squisita semplicità» di cui la canzone è punteggiata; «e che grazia» riconosce il critico «in quei due ultimi versetti: “Nascondendo la faccia / Tra le ginocchia, e piange!”».[20] Lapidario in proposito il giudizio di Carducci, che pure rivalutò la capacità delle prime liriche leopardiane di muovere al gesto eroico per la patria: «Le statue non si fanno di frasi, come né le donne di cenci».[21]

Più di recente è giunta, da parte di Luigi Blasucci, la riconsiderazione del «sentimento» non puramente retorico, ma intriso di vero «calore» e «intensità», dell’ipotiposi della patria, nella quale Leopardi supererebbe i pur presenti modelli (il Fulvio Testi di una canzone al Duca di Savoia), sino a «infondere nella statua tradizionale tanta vita affettiva da farla diventare una creatura del suo sentimento»: non tanto «una finzione allegorica», quanto piuttosto «una creatura infelice da compiangere e da confortare», sul modello delle canzoni civili petrarchesche.[22]

Altri prima di Blasucci avevano individuato precedenti nella poesia italiana tra Sei e Settecento;[23] e viene preziosa l’indicazione che rinvia al secondo libro dell’Eneide tradotto da Leopardi nel 1816: «Era, sparte le chiome, e invano al cielo / gli ardenti lumi sollevando, i lumi / ché non potea, da vincoli distrette, le delicate mani» (vv. 403-406).[24] Ma più di tutte pare da seguire la proposta di Francesca Fedi che, dietro la «statua» figurata con parole da Leopardi, invita a riconoscere precisi referenti nel campo delle arti visive.[25]

Il ruolo maieutico svolto da Pietro Giordani nella genesi delle prime canzoni leopardiane è un dato critico acquisito.[26] Resta, è vero, il vuoto di testimonianze relativo ai cinque giorni, senz’altro decisivi, nei quali Giordani soggiornò a Recanati, immediatamente dopo i quali si colloca la stesura delle canzoni All’Italia e, subito a ruota, Sopra il monumento di Dante; la corrispondenza di Leopardi consente tuttavia di seguire da presso il dialogo tra i due (che, per inciso, Giordani intesse sin da principio con paragoni presi a prestito dall’ambito delle arti visive).[27]

Il 12 marzo 1817 Giordani invia a Leopardi, in contraccambio di una copia della citata versione del secondo libro dell’Eneide, un suo volumetto dal titolo Alcune prose (Milano, Silvestri, 1817), comprendente, tra le altre, una Lettera al celebratissimo Antonio Canova. Nella risposta (datata 30 maggio 1817) Leopardi si sofferma con giudizi elogiativi su un altro componimento della raccolta, un discorso pronunciato nel 1811 dal titolo Sopra un dipinto del Cav. Landi e uno del Cav. Camuccini. Di questa prosa Leopardi apprezza da un lato «la leggiadria e morbidezza straordinaria», dall’altro la «proprietà e forza» dell’ipotiposi, «tanto necessarissima e difficilissima per descrivere e mettere innanzi agli occhi un quadro»: «Cimento proprio terribile» conclude, «e da spaventare ogni men prode e potente di Lei, mettere così apertamente alle prese l’arte di scrivere colla pittura».[28] L’ammirazione non esclude tuttavia il dissenso rispetto a un principio estetico formulato da Giordani, secondo il quale «senza stringente necessità della storia (e anche allora con buon giudizio e garbo) non si dee mai figurare il brutto»: precetto che Leopardi non può sottoscrivere, data la sua fedeltà a quello alternativo per il quale «ufficio delle belle arti» è «imitare la natura nel verisimile», senza dunque escludere il brutto, purché credibile.[29]

Nel Discorso sopra un dipinto del Cav. Landi e uno del Cav. Camuccini Giordani confronta le tele di due pittori italiani suoi contemporanei, da pochi anni collocate (dopo il vernissage d’uso a Roma, trionfale per entrambe) nella Chiesa di San Giovanni in Canale a Piacenza. La prima opera, di Vincenzo Camuccini, rappresenta la Presentazione di Gesù al tempio. La seconda, del piacentino Gaspare Landi, che succedette a Canova nella Presidenza dell’Accademia di San Luca e realizzò un celebre ritratto dello scultore, rappresenta la Salita al Calvario, tema reso celebre dal dipinto di Raffaello noto come lo Spasimo di Sicilia .

Nonostante sia Camuccini che Landi realizzino a parere di Giordani l’ideale moderna arte italiana di cui egli fu infaticabile propugnatore,[30] nel suo discorso egli non fa mistero della propria preferenza per il secondo, rimproverando all’altro, in accordo con i principi estetici sopra ricordati, di aver violato il decoro nella rappresentazione del «sozzo» e «tetro aspetto» di un personaggio secondario. Perfettissima è invece la Salita al Calvario e addirittura, per certi aspetti, preferibile al dipinto di Raffaello:

Tale soggetto fu trattato da Raffaello; in quella tavola, alla cui famosa bellezza anche il mare e le tempeste e i naufragi miracolosamente perdonarono; la quale destinata alla Sicilia, e di là recata a Madrid, è da noi conosciuta per due stampe mediocri e per la buona descrizione del Mengs. Ma il concetto del Sanzi è tutt’altro che quello del Landi: né di questa diversità viene al Landi altro che lode. Conciossiaché Raffaele rappresentò Gesù per tanti crudeli strazi affievolito e caduto sotto il carico del patibolo; affannata la madre, e implorante da que’ manigoldi compassione al suo povero figliuolo: soggetto veramente di molta pietà, e da Raffaello nobilmente mostrato. Il quale però non trasse dalla evangelica istoria quella caduta, avvegnaché ragionevolmente la imaginasse. Abbonda di pietà anche il concetto del Landi; e si aggiunge grandezza profetica. Poiché mentre la croce dai sacrati omeri di Gesù a quelli del contadino Simone si tramuta, Cristo in piedi ritto, con quella sua mansuetudine e autorità divina, alla moltitudine che piangendo e lamentando lo seguitava dice, che non di lui, ma di sé stessi e de’ figliuoli, per lo soprastante eccidio alla patria sfortunata, debbano piangere. Così Cristo nella pittura dell’Urbinate ha persona e funzione pur di paziente; in quella del Piacentino tuttavia esercita il ministero di profeta.[31]
Gaspare Landi, Salita al Calvario, 1808Raffaello Sanzio, Salita al Calvario o Spasimo di Sicilia, 1517

Tema di entrambi i dipinti è la profezia rivolta da Cristo, sulla via del Calvario, alle figlie di Gerusalemme, profezia della prossima rovina della città: «Filiæ Ierusalem, nolite flere super me, sed super vos ipsas flete, et super filios vestros, quoniam ecce venient dies, in quibus dicent: “Beatae steriles et ventres, qui non genuerunt, et ubera, quae non lactaverunt!”».[32] Giordani illustra per sommi capi le avventurose vicende del quadro di Raffaello, dipinto su commissione del monastero olivetano di Santa Maria dello Spasimo in Palermo, poi trasferito a Madrid nel 1622 (la storia delle trasmigrazioni dei quadri di Raffaello, ha scritto Quatremère de Quincy, è essa stessa «une espèce de science»).[33] Cita dunque la «buona descrizione» dello Spasimo data da Anton Raphael Mengs nel 1776, cui è opportuno fare riferimento per comprendere la vena sottilmente polemica che attraversa questo passo del discorso di Giordani.

Nella prospettiva critica di Mengs la Salita al Calvario è «unica per la sua gran bellezza» tra le opere di Raffaello, che egli considera «senza contrasto il maggior pittore fra tutti quelli, de’ quali si sono conservate opere fino alla nostra età».[34] Ciò vale in particolare per la figura di Cristo rappresentata nel dipinto, sulla quale (insieme a quella della Vergine, in vesti azzurre alla sua destra) la descrizione di Mengs maggiormente si sofferma. Oltre che «d’una eccellenza, e bellezza quasi incomprensibile», l’immagine di Cristo dipinta da Raffaello si mostra infatti compiutamente rispondente all’idea della divinità del personaggio, nello «spirito profetico» di cui essa appare accesa:

Gesù Cristo si vede caduto, non debole però, né abbattuto, anzi in atto di minacciare colle sue parole, come riferisce il Vangelo; e il suo aspetto oltre di essere in questo quadro d’una eccellenza, e bellezza quasi incomprensibile, si manifesta acceso di spirito profetico; il che corrisponde esattamente alla divina persona, che rappresenta, la quale era sempre Dio benché in passione.[35]

Raffaello attribuì il vaticinio sopra la rovina di Gerusalemme a un Cristo caduto sotto il peso della croce. Di questa caduta, per quanto utile a spiegare l’arruolamento del Cireneo, la Scrittura non fa menzione. Ma non è l’infedeltà al testo evangelico (che è, al contrario, fedeltà alla pietà popolare della via crucis) che Giordani rimprovera a Raffaello, bensì l’aver mancato nel rappresentare il «ministero di profeta» esercitato da Cristo in questo frangente. L’errore sta, con tutta evidenza, nell’aver dipinto Cristo caduto in terra, «soggetto di molta pietà», ma a scapito della «grandezza profetica», che, contrariamente a Mengs, Giordani nega a questa figura. Il Cristo di Landi è invece «in piedi ritto», sola posa adeguata al «ministero di profeta».

Del dipinto di Landi Giordani ammira anche la minuziosa descrizione di alcune figure secondarie, in particolare il gruppo delle «figlie di Gerusalemme» a lato del Cristo:

Gittata a’ suoi piedi la bella Maddalena lagrimosa; coi dorati capegli sparsi, colle braccia e le mani spante; mostra che più si dolga per tanto patire del suo amato maestro, che per li minacciati guai della città. Di questo terrore ben è compresa colei che le sta presso, e guarda tremante nel Mandato di Dio, mentreché a un suo fanciulletto fa riverenti e supplichevoli verso lui le mani e le ginocchia. Un’altra piange seduta e spaventata, rimovendo il velo dalla faccia, e stringendosi (come nelle grandi passioni) al seno un pargoletto.[36]

La descrizione delle formule patetiche attribuite alle «filiæ Ierusalem» pare echeggiare nei versi 14-17 della personificazione leopardiana di All’Italia attraverso studiate riprese lessicali:

Sì che sparte le chiome
e senza velo
Siede in terra negletta e sconsolata
Nascondendo la faccia
Tra le ginocchia, e piange.


coi [...] capegli sparsi
rimovendo il velo dalla faccia
[...] seduta e spaventata
piange [...]

Il riferimento alla scena evangelica illustrata nei dipinti di Raffaello e Landi fornisce altresì la chiave per l’interpretazione della postura che, apparsa così graziosa a De Sanctis, fu unanimemente censurata dai critici posteriori[37] («Nascondendo la faccia / Tra le ginocchia»): valga per tutti il giudizio di Francesca Fedi, che parla di «intensificazione iperbolica del gesto», da non intendersi dunque alla lettera, «a meno di attribuire alla figura un espressionismo quasi ‘ginnico’».[38] Se invece, come suggerisce Ernesto De Martino, nella lamentazione delle figlie di Gerusalemme si riconosce una manifestazione del pianto rituale antico,[39] il gesto e la postura dell’Italia piangente sui figli dispersi possono essere interpretati alla lettera. L’atto di abbracciare le ginocchia costituisce infatti uno schema ricorrente della lamentazione funebre, attestato da fonti iconografiche e scritte, nella letteratura sia classica che cristiana antica e nel folklore;[40] lo stesso vale per altre formule patetiche che dalla descrizione di Giordani passano nei versi di Leopardi, come le chiome sciolte, le palme delle mani rovesciate con «valenza di separazione e di allontanamento», i seni scoperti, che nel caso della madre in lutto per il figlio «assurgono a simbolo del latte dato e perduto e al tempo stesso a scongiurante invito al ritorno».[41]

3. Il riuso di icone e simboli appartenenti alla sfera della religione, principalmente quella cristiana, costituisce uno dei tratti fondamentali dell’immaginario risorgimentale.[42] Il pianto di Cristo su Gerusalemme, in particolare, diviene nell’Ottocento un vero e proprio luogo comune a proposito dei rapporti tra Cristianesimo e politica, a partire almeno dal Génie du Christianisme (1803) di Chateaubriand, secondo il quale, a riprova delle proprie tesi conciliazionistiche, in questa pericope Cristo si rivela un modello di «amour de la patrie».[43]

La questione trova particolare sviluppo in una prosa in forma di lettera redatta da Pietro Giordani nel 1833, dunque a oltre vent’anni di distanza dal discorso su Camuccini e Landi, intitolata Del quadro di Rafaello detto lo Spasimo. L’occasione fu data dalla pubblicazione di un’incisione di Paolo Toschi, artista con il quale Giordani collaborò lungamente, tratta dal dipinto di Raffaello.

Il saggio rimase incompiuto proprio nella parte in cui lo scrittore si proponeva di descrivere il quadro di Raffaello, ma ne rimangono alcuni materiali preparatori di notevole interesse. Si comincia con un paragone, all’epoca ormai canonico, tra Raffaello e Canova.[44] Ma ciò che più attrae l’attenzione è l’esposizione che fa Giordani delle «profonde intenzioni del filosofo pittore», che nella Salita al Calvario «mostrò la condizione del popolo giudaico sotto il dominio romano»:

Qui entro a discorrere di Rafaello, paragonandolo nelle sue differenze e nelle somiglianze al Canova: poi trapasso a ragionare dello Spasimo; lasciando da parte la esecuzione, della quale ha detto abbastanza e da maestro il Mengs: tratto della invenzione, della composizione, della dimostrazione degli affetti; e delle profonde intenzioni del filosofo pittore; che in quella istoria corse [sic] tutta la bontà e la tristizia umana; e mostrò la condizione del popolo giudaico sotto il dominio romano.[45]

In un altro appunto, la situazione del «popolo giudaico» è esplicitamente proiettata su quella italiana; il dipinto assume così, agli occhi di Giordani, il valore di profezia di una servitù che Raffaello non vide, ma che egli previde «nelle istorie passate e nella natura umana»:

Ha voluto [scil.: Raffaello] di quell’avvenimento farci conoscere le circostanze, e le cagioni; e le condizioni del paese nel quale successe. Era il paese dominato dallo straniero. Non vide Rafaello questa servitù d’Italia: che se la natura gli concedeva i 40 anni di vita che gli tolse, avrebbe veduto sotto due Carli e tre Filippi sottoposta l’Italia alla Spagna ec. Ma la vide nelle istorie passate e nella natura umana.[46]

Altre osservazioni accomunano, in questa lettura politica del dipinto di Raffaello, il passato e il presente «de’ paesi dominati dallo straniero»:

Descriver la condizione de’ paesi dominati dallo straniero. Quando una nazione è dominata dallo straniero quello è il suo tempo più infelice; perché allora ella soffre i vizi dello straniero, e poi (che peggio è) gli adotta; e i suoi propri vizi son messi in ebulizione, e si accrescono, o fomentati sieno o contrastati dal dominante.[47]

Di minore ampiezza, ma di interesse anche maggiore, sono le note dedicate da Leopardi al pianto di Cristo sopra Gerusalemme, le quali consentono, tra l’altro, di seguire l’evoluzione della sua riflessione politica in rapporto agli ideali risorgimentali. Si tratta di una parabola la cui traiettoria dall’entusiasmo alla disillusione è nota, ma che acquista particolare risalto proprio in relazione a questo topos di derivazione biblica.

La prima occorrenza[48] si manifesta nell’abbozzo di un Inno al Redentore, risalente, come tutto il progetto degli Inni cristiani, all’estate/autunno 1819:

E già fosti veduto piangere sopra Gerusalemme. Era in piedi questa tua patria (giacché tu pure volesti avere una patria in terra) e doveva esser distrutta desolata ec. ec. Così tutti siam fatti per infelicitarci e distruggerci scambievolmente, e l’impero romano fu distrutto, e Roma pure saccheggiata ec. ed ora la nostra misera patria ec. ec. ec.[49]

L’immagine ritorna in un passo dello Zibaldone posteriore di circa un anno, ove tuttavia l’enfasi su Cristo come modello di amor di patria appare assai attenuata. All’interno di un’articolata riflessione sulla decadenza dello «spirito di corpo» nelle società moderne, Leopardi osserva come anche il Cristianesimo ebbe e ha a soffrirne, in quanto «religione [...] che (senza però condannare l’amor della patria, dimostrato dallo stesso Cristo piangente sopra Gerusalemme) tuttavia ha per uno de’ fondamenti l’amore universale verso tutti gli uomini»: proprio l’universalità del messaggio cristiano – conclude Leopardi – ha finito per far illanguidire lo «zelo» e l’«ardore» apologetico dei suoi seguaci, indebolendo la Chiesa al pari di quanto andava al tempo accadendo alle istituzioni laiche.[50] Importa qui soffermarsi sull’inciso presente nel passo («senza però condannare l’amor della patria»), ove appare evidente che ciò che nell’abbozzo dell’Inno al Redentore si configurava come positiva promozione del sentimento nazionale da parte del Cristianesimo, in questo passo dello Zibaldone è ormai prudente riconoscimento di una non necessaria conflittualità tra le due istanze.

Pochi mesi ancora e, in un’altra nota dello Zibaldone, la speranza di «rimettere in piedi l’Italia» è ormai svanita. Leopardi vi medita con mestizia sui «disordini» della lingua letteraria italiana del suo tempo, osservando che, quand’anche gl’italiani suoi contemporanei si mettessero d’impegno per rimediare a quei guasti, non farebbero in tempo – tanto i «disordini» sono radicati, e ben più nel profondo che nella lingua – a vederli riparati:

Giacchè per rimetter davvero in piedi la lingua italiana, bisognerebbe prima in somma rimettere in piedi l’Italia, e gl’italiani, e rifare le teste e gl’ingegni loro, come lo stesso bisognerebbe per la letteratura, e per tutti gli altri pregi e parti di una buona e brava e valorosa nazione; che con questi ingegni, con queste razze di giudizi e di critica, faremo altro che ristaurare la lingua.[51]
Manifesto per le elezioni politiche del 2008

4. La «politique des survivances», ha osservato Georges Didi-Huberman, va di pari passo con la «politique des images»[52] e con l’estrinsecazione del politico tout court. Lo si potrebbe constatare a proposito dello Spasimo di Sicilia di Raffaello, immagine riaffiorante nei più drammatici e controversi tornanti della storia italiana,[53] o dell’iconografia dell’Italia in ginocchio, di recente riproposta sulla ribalta elettorale; ma anche a proposito del frontespizio di un’edizione delle Poesie di G. Leopardi pubblicata nel 1862.

Frontespizio delle Poesie di Giacomo Leopardi, 1862Rappresentazione dell’Italia in Cesare Ripa, Iconologia, 1603 La personificazione della patria è qui rappresentata con i tratti salienti della descriptio leopardiana: le chiome sciolte, gli occhi in pianto («Piangi, che ben hai donde, Italia mia», recita l’iscrizione in calce), il seno denudato, le braccia in catene: in quel 1862 Roma e Venezia, rispettivamente raffigurate nella Lupa capitolina e nel Leone di san Marco, sono ancora irredente. Ma è nel contempo una patria finalmente unificata (la proclamazione del Regno d’Italia risale all’anno precedente), cui non manca molto a che il sogno risorgimentale giunga al coronamento al quale allude il gesto del putto in alto a sinistra nell’immagine. Anche la posa della donna è mutata: ora è assisa in trono sul modello fornito dall’Iconologia di Cesare Ripa.

L’immagine sopravvive a patto di soggiacere alla metamorfosi. Altre e più gloriose saranno le icone dominanti nei primi decenni del Regno, e a esse l’Italia di Leopardi dovrà fare luogo.[54] Ma ogniqualvolta la storia italiana sprofonda nel buio di un’«ultima notte», sono spettri di donne giacenti a riaffiorare, da Pasolini («Nelle chiuse palpebre d’Ilaria trema / l’infetta membrana delle notti / italiane...»)[55] alla Bella addormentata di Bellocchio.[56]


1 G. Leopardi, All’Italia, vv. 1-20, in Id., Poesie e prose, a cura di M.A. Rigoni, con un saggio di C. Galimberti, Milano, Mondadori (I Meridiani), I, 19988, p. 5.

2 Cfr. L. Blasucci, Sulle due prime canzoni leopardiane, «Giornale storico della letteratura italiana», 138, 1961, p. 63, ove si rinvia al sonetto Al Conte G.B. Ronchi di Fulvio Testi.

3 Cfr. G. Leopardi, Canti scelti. Batracomiomachia ed estratto dai Paralipomeni, con commenti del Prof. R. Fornaciari, Firenze, G. Barbèra, 18953, cui rinvia G. Carducci, Le tre canzoni patriotiche di Giacomo Leopardi, 1898, in Edizione nazionale delle opere, volume ventesimo: Leopardi e Manzoni, Bologna, Zanichelli, 1943, p. 117.

4 L’Argomento di una canzone sullo stato presente dell’Italia, in G. Leopardi, Poesie, cit., pp. 620-622, nucleo generativo della prima e della seconda canzone patriottica: «due sorelle nate ad un parto, e similissime di fisionomia» (F. de Sanctis, La prima canzone di Giacomo Leopardi, 1869, in Id., Saggi critici, a cura di L. Russo, Bari, Laterza,1952, II, pp. 343-344).

5 Sul tema della memoria culturale cfr. il fondamentale A. Assmann, Ricordare. Forme e mutamenti della memoria culturale, trad. it. di S. Paparelli, Bologna, il Mulino, 2002. Cfr. inoltre: A. Assmann, La memoria culturale. Scrittura, ricordo e identità politica nelle grandi civiltà antiche, trad. it. di F. de Angelis, Torino, Einaudi, 1997; P. Ricoeur, La memoria, la storia, l’oblio, ed. it. a cura di D. Iannotta, Milano, Raffaello Cortina, 2003.

6 Sulle spoliazioni napoleoniche di opere d’arte cfr. P. Wescher, I furti d’arte. Napoleone e la nascita del Louvre, trad. it. di F. Cuniberto, Torino, Einaudi, 1988; B. Savoy, Patrimoine annexé. Les biens culturels saisis par la France en Allemagne autour de 1800, Paris, Éditions de la Maison des Sciences de l’Homme, 2003; E. Steinmann, Der Kunstraub Napoleons, a cura di Y. Dohna, Roma, Bibliotheca Hertziana-Max-Planck-Institut für Kunstgeschichte, 2007, http://edoc.biblhertz.it/editionen/steinmann/kunstraub/.

7 G. Leopardi, Sopra il monumento di Dante che si preparava in Firenze, vv. 109-112, in Id., Poesie, cit., p. 13, corsivi nostri. La condanna delle spoliazioni napoleoniche è già veemente nel discorso Agl’Italiani (maggio 1815) e, giusto a ridosso della composizione delle canzoni patriottiche, nel Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica (gennaio/agosto 1818).

8 Ivi, vv. 192-200, corsivo mio.

9 «Perchè le nostre genti / Pace sotto le bianche ali raccolga, / Non fien da’ lacci sciolte / Dell’antico sopor l’itale menti / S’ai patrii esempi della prisca etade / Questa terra fatal non si rivolga» (G. Leopardi, Sopra il monumento di Dante, cit., vv. 1-6).

10 Ivi, vv. 157-158 (il tema è sviluppato ai vv. 137-170, ma com’è noto appare già nella canzone All’Italia, vv. 41-60).

11 «La memoria culturale ha il suo nocciolo antropologico nella commemorazione dei defunti» (A. Assmann, Ricordare, cit., p. 35).

12 G. Leopardi, All’Italia, cit., v. 125, calco di un frammento superstite della perduta canzone di Simonide sugli eroi delle Termopili. Si ricorderà anche il mito di Simonide padre della mnemotecnica (cfr. A. Assmann, Ricordare, cit., pp. 37-38).

13 G. Leopardi, All’Italia, cit., vv. 121-124.

14 G. Leopardi, Sopra il monumento di Dante, cit., vv. 162-166.

15 L. Cicognara, Storia della scultura dal suo risorgimento in Italia fino al secolo di Canova ... per servire di continuazione all’opere di Winckelmann e di D’Agincourt, 1813-1818, Prato, ristampa anastatica dell’edizione Fratelli Giachetti, 1824, a cura di F. Leone et al., Bassano del Grappa, Istituto di ricerca per gli studi su Canova e il neoclassicismo, 2007, VII, p. 8.

16 Cfr. F. Fedi, Mausolei di sabbia. Sulla cultura figurativa di Leopardi, Lucca, Pacini Fazzi, 1997, da integrare con le opportune rettifiche e precisazioni di M.A. Rigoni, Il fantoccio e la statua. Leopardi, Canova e il neoclassicismo, in Leopardi e l’età romantica, a cura di M.A. Rigoni, Venezia, Marsilio, 1999, pp. 131-147.

17 P. Giordani, Il Panegirico ad Antonio Canova. Dedicandosi il suo busto nell’Accademia di Belle Arti di Bologna (28 giugno 1810), in Id., Scritti editi e postumi, a cura di A. Gussalli, Milano, Borroni e Scotti, 1856, II, pp. 16-81; e inoltre Id., Lettera al celebratissimo Antonio Canova per l’arrivo suo sperato in Bologna (10 novembre 1809), ivi, pp. 337-343.

18 Cfr. Pietro Giordani a Giacomo Leopardi, in G. Leopardi, Epistolario, a cura di F. Brioschi, P. Landi, Torino, Bollati Boringhieri, I, 1998, ep. 56 (15 aprile 1817), p. 84. Leopardi lesse la Storia del Cicognara (cui Giordani, dopo averne seguita passo a passo la stesura, dedicò un’ampia recensione: cfr. P. Giordani, Scritti editi e postumi, 3, cit., pp. 115-123) o almeno ne conobbe «l’idea informatrice» (M.A. Rigoni, Il fantoccio e la statua, cit., p. 143, nota 38).

19 Cfr. M.A. Banti, La nazione del Risorgimento. Parentela, santità e onore alle origini dell’Italia unita, Torino, Einadi, 2000, pp. 67-69; Id., Sublime madre nostra. La nazione italiana dal Risorgimento al fascismo, Roma-Bari, Laterza, 2011, pp. 97-102 in particolare; N. Bazzano, Donna Italia. Storia di un’allegoria dall’antichità ai giorni nostri, Vicenza, Angelo Colla Editore, 2011, pp. 143-169. Sulla Grande Madre come archetipo fondante della psicologia collettiva italiana si veda E. Bernhard, Il complesso della Grande Madre, Milano, doppiozero, 2012. Da notare anche la connotazione materna della personificazione della patria nella parafrasi di Leopardi ai vv. 4-6 della canzone petrarchesca Italia mia: «piacemi almeno di far quello che la patria ragionevolmente si aspetta da un buono e pietoso figlio, che è di sospirare e rammaricarmi dei suoi mali» (F. Petrarca, Canzoniere, CXXVIII, introd. di U. Foscolo, note di G. Leopardi, a cura di U. Dotti, Milano, Feltrinelli, 1979, p. 162). Sull’allegoria dell’Italia in generale si rimanda a: I. Porciani, Stato e nazione: l’immagine debole dell’Italia, in S. Soldani, G. Turi (a cura di), Fare gli italiani. Scuola e cultura nell’Italia contemporanea, 1, Bologna, il Mulino, 1993, pp. 385-428; F. Mazzocca, L’iconografia della patria tra l’età delle riforme e l’Unità, in A.M. Banti, R. Bizzocchi (a cura di), Immagini della nazione nell’Italia del Risorgimento, Roma, Carocci, 2002, pp. 89-111; M. Ridolfi, S. Mattarelli, Almanacco della Repubblica: storia d’Italia attraverso le tradizioni, le istituzioni e le simbologie repubblicane, Milano, Bruno Mondadori, 2003; C. Brice, Italia: una allegoria debole? Sistema iconografico e identità nazionale nell’Italia della fine del XIX secolo, «Memoria e Ricerca», 25, 2007, pp. 171-186.

20 F. de Sanctis, La prima canzone, cit. (le citazioni dalle pp. 349-352); cfr. anche Id., Giacomo Leopardi, in W. Binni (a cura di), La letteratura italiana nel secolo XIX, Bari, Laterza, 1953, III, pp. 71-81.

21 G. Carducci, Le tre canzoni, cit., p. 118.

22 L. Blasucci, Sulle due prime canzoni, cit., pp. 61-62.

23 Cfr. G.A. Cesareo, L’Italia nel canto di G. Leopardi e ne’ canti de’ poeti anteriori, «Nuova Antologia», a. III, vol. 32 (CVI della raccolta), fasc. XV, 1889, pp. 454-455 (segnala il sonetto a Sionne di G. Cavazzoni Gianotti e quello per la nascita del principe di Piemonte di Eustachio Manfredi); N. Costa-Zalessow, Italy as a Victim: A Historical Appraisal of a Literary Theme, «Italica», 45, febbraio 1968, pp. 236-237 (pur scettica nei confronti della critica degli influssi e delle influenze, alle pp. 221-224 individua in Fulvio Testi la svolta in cui prende forma l’iconologia risorgimentale della patria; cfr. anche Ead., The Personification of Italy from Dante through the Trecento, «Italica», 68, marzo1991, pp. 316-331).

24 Cfr. V. Airaldi, Eroismo epico ed elegiaca pietà nell’ultima notte della patria: formule e motivi archetipici del titanismo patriottico e della compassione in Giacomo Leopardi (inedito).

25 La studiosa segnala, in via d’«ipotesi», l’iconografia della provincia capta, forse desunta dai Dialogues upon the Usefulness of Ancient Medals di Joseph Addison (cfr. F. Fedi, Mausolei di sabbia, cit., pp. 226-229; e inoltre, pp. 16-18 per un precedente nella puerile Descrizione di un incendio). La bibliografia sui rapporti di Leopardi con le arti visive è in costante crescita; tra i contributi di carattere generale: cfr. A. Frattini, Leopardi e le arti figurative, in A. Franceschetti (a cura di), Letteratura italiana e arti figurative, Firenze, Olschki, 1988, II, pp. 783-796; P. Pelosi, Leopardi e la pittura, ivi, pp. 797-804; G. Savarese, Il figurativo e Leopardi, «La rassegna della letteratura italiana», 2, 2002, pp. 411-418.

26 «[...] un poeta potrebbe imaginare che la madre Italia fosse di celato entrata a questi giorni nel palazzo di Recanati e abbracciato il povero gobbino e baciatolo in fronte gli avesse detto: Sii grande nel mio nome e nel mio amore. Non l’Italia, ma qualcuno era stato a quei giorni in casa Leopardi: un brav’uomo, e dotto ed eloquente, se anche non piace più a taluni dell’oggi; un po’ esaltato, un po’ enfatico; ma grande amatore dell’onore italiano e grandissimo amico, e di molta autorità allora su’ giovani, come scrittore: Pietro Giordani. Sì: il Giordani fu più giorni a Recanati in casa Leopardi nella prima quindicina del settembre 1818. Ecco: io non dico che suggerisse egli o ispirasse la canzone all’Italia: dico che quella canzone fu composta dopo subito partito il Giordani» (G. Carducci, Le tre canzoni, cit., pp. 107-108; la visita di Giordani a Recanati si svolse in realtà nella seconda metà del mese, tra il 16 e il 21 settembre).

27 «Vede VS. i pittori, come siano impossessati de’ principii, darsi a copiare le tavole de’ maestri più eccellenti; per imparare in qual modo la natura meglio s’imiti e si esprima. Così agli scrittori bisogna» (Pietro Giordani a Giacomo Leopardi, in G. Leopardi, Epistolario, 1, cit., ep. 47 (12 marzo 1817), p. 67). «Io poi vorrei pregarla a leggere e tradurre de’ prosatori greci più antichi [...] e per aver colori da imitare quella loro pittura, leggere i trecentisti» (Pietro Giordani a Giacomo Leopardi, Milano, 15 aprile 1817, ivi, ep. 56, pp. 81-82). Sull’importanza della mediazione di Giordani per i rapporti di Leopardi con le arti visive cfr. S. Grandesso, Pietro Giordani a Bologna protagonista del dibattito artistico italiano. Il suo ruolo nell’incontro di Giacomo Leopardi con le arti figurative, in M.A. Bazzocchi (a cura di), Leopardi e Bologna, Atti del Convegno di Studi per il Secondo Centenario Leopardiano (Bologna, 18-19 maggio 1998), Firenze, Olschki, 1999, pp. 19-55.

28 G. Leopardi, Giacomo Leopardi a Pietro Giordani, in Id., Epistolario, cit., ep. 66 (30 maggio 1817), I, pp. 106-112.

29 Ivi, p. 110. Precetti analoghi al principio dello Zibaldone: «Non il Bello ma il Vero o sia l’imitazione della Natura qualunque, si è l’oggetto delle Belle arti» (G. Leopardi, Zibaldone, a cura di R. Damiani, I, Milano, Mondadori (I Meridiani), 1997, p. 4).

30 «[...] voi gloriosamente provate che la nostra età può ancora in Italia produrre pitture eccellenti, pitture non degeneranti dalla dignità antica, e schiettamente Italiane» (P. Giordani, Sopra un dipinto del Cav. Landi e uno del Cav. Camuccini. Discorso all’Accademia di Belle Arti in Bologna, 24 luglio 1811, in Id., Alcune prose, Milano, Giovanni Silvestri, 1817, p. 103; si preferisce citare da questa edizione, piuttosto che dagli Scritti editi e postumi di Giordani, poiché fu quella che ebbe in mano Leopardi).

31 Ivi, pp. 92-93. Sulla pittura di Raffaello tra gli incunaboli non solo del Neoclassicismo ma della cultura visuale dell’intero Occidente, cfr. M. Cometa, La scrittura delle immagini. Letteratura e cultura visuale, Milano, Raffaello Cortina, 2012, pp. 239-262.

32 Lc., 23, 28-29. Da notare come anche in questo episodio sia in atto un dramma della memoria culturale, culminato con la distruzione del Tempio di Gerusalemme nel 70 d. C.

33 A. Chrysostome, (detto Quatremère de Quincy), Lettres au Général Miranda sur le préjudice qu’occasionnens aux arts et à la science le déplacement des monumens de l’art de l’Italie, le démembrement de ses écoles, et la spoliation de ses collections, galéries, musées, etc. [1796], in Id., Considérations morales sur la destination des ouvrages de l’art, Paris, Fayard, 1989, p. 228. All’epoca in cui Giordani pronunciò il discorso su Camuccini e Landi non si era ancora compiuta l’ultima rivoluzione nel fato della celebre tavola di Raffaello, ovvero il trasferimento a Parigi ad opera di Giuseppe Bonaparte in fuga dalla Spagna (1813). Trasposta su tela durante il soggiorno francese, fu riportata a Madrid nel 1822.

34 Si cita da R.A. Mengs, Descrizione de’ principali quadri del Palazzo Reale di Madrid [1776], in Id., Opere, pubblicate da D. Giuseppe Niccola d’Azara, Parma, Stamperia Reale, 1880, p. 75 (sul dipinto di Raffaello le pp. 74-83).

35 Ivi, p. 77.

36 P. Giordani, Sopra un dipinto, cit., pp. 93-94, corsivo mio. La pericope evangelica illustrata nel quadro di Landi non fa riferimento alla Maddalena, che pare invece evocata dai «dorati capegli sparsi» dipinti dal pittore e sulla quale Giordani ritorna con ammirazione più avanti nel discorso (ivi, pp. 95-96). Qui importa ricordare il frequente riuso in chiave politica del personaggio, portato di recente alla ribalta con la doppia versione scolpita da Antonio Canova (se ne veda l’entusiastica descrizione in P. Giordani, Panegirico ad Antonio Canova, cit., pp. 28-29): nel Pietro Rossi di Francesco Hayez (1820), ove proprio la postura delle Maddalene canoviane è evocata da un personaggio femminile sulla sinistra del dipinto (un’altra donna, sul lato opposto, evoca invece l’Italia turrita del monumento ad Alfieri in Santa Croce) e nelle allegorie della patria di Lorenzo Bartolini (L’Inconsolabile, 1840), Vincenzo Vela (La Desolazione, 1851) e soprattutto ancora Hayez (La Meditazione o L’Italia nel 1848, 1850 e 1851): cfr. F. Mazzocca, L’iconografia della patria, cit.; Id., Canova e la svolta romantica. Appunti sulla Maddalena penitente, «800 italiano», 5, 1992, pp. 4-10; Id., La delusione e il consenso nella pittura risorgimentale, «Il Risorgimento», (Il mito del Risorgimento nell’Italia unita. Atti del Convegno, Milano, 9-12 novembre 1993), 1-2, 1995, pp.. 72-73; Id., La fortuna universale di Canova e dei “classici moderni”. Bartolini e Tenerani, in S. Androsov, F. Mazzocca (a cura di), Canova alla corte degli zar. Capolavori dall’Ermitage di San Pietroburgo, Catalogo della mostra, Milano, Palazzo Reale, 23 febbraio-2 giugno 2008, Milano, Federico Motta Editore, 2008, pp. 40-49.

37 «Del resto io abbandono a chi vuole l’ammirazione della grazia che il De Sanctis trova in que’ due versi Nascondendo la faccia Tra le ginocchia e piange. Non ci è ancora il leone [ nota il critico napoletano] ma si vedono le unghie. Oh, i leoni si riconoscono ad altro» (G. Carducci, Le tre canzoni, cit., p. 117). Ma già Cesareo: «[...] l’Italia che nasconde la faccia tra le ginocchia, se bene Francesco De Sanctis vi trovasse della grazia, non fa certo prova di dignità; e il Leopardi, artista greco, vale a dire, composto sempre e sempre squisito, non credo che l’avrebbe così atteggiata più tardi» (G.A. Cesareo, L’Italia, cit., p. 454). L’immagine si trova comunque anche presso i Greci (Teocrito, Idilli, XVI, v. 11): cfr. M. Gigante, Leopardi, “All’Italia”, v. 16 s., «Giornale storico della letteratura italiana», 2000, p. 594.

38 F. Fedi, Mausolei di sabbia, cit., p. 229.

39 Ne rappresenterebbe l’ultima manifestazione, prima della rivoluzione nell’economia della morte e del lutto portata dal Cristianesimo: «Con queste parole [le parole di Cristo sul Calvario alle ‘Filiæ Ierusalem’, Lc., 23, 27-29] il cordoglio si sposta dalla morte fisica dell’uomo a quella morte morale che è il peccato: al centro della storia sta ora la morte esemplare dell’Uomo-Dio, una morte che vince la morte e che per questa vittoria è “primizia dei dormienti”, onde poi anche i dormienti risorgeranno con corpi incorrotti al suono dell’ultima tromba, come dirà Paolo. Da ora in poi, nella nuova coscienza religiosa e culturale, il morire naturale non dovrà più apparire nella sua scandalosa forza autonoma, ma sarà ricondotto a quella vera forza annientatrice che è il peccato come ‘pungiglione della morte’. Con ciò appare decisa la sorte dell’antica lamentazione funeraria, e chiusa per sempre la sua epoca storica» (E. De Martino, Morte e pianto rituale. Dal lamento funebre al pianto di Maria [1958], Torino, Bollati Boringhieri, 1975, p. 324). A proposito di All’Italia, una premonizione in De Sanctis: «Precedono due strofe [le prima e la seconda della canzone], quasi funebre preludio» (F. De Sanctis, La prima canzone, cit., p. 347).

40 Cfr. E. De Martino, Morte e pianto rituale, cit., pp. 379-80, che, tra gli altri, riporta un passo delle Confessioni di sant’Agostino nell’episodio della conversione: «Si vulsi capillum, si percussi frontem, si consertis digitis amplexatus sum genu» (Confess., VIII, 20); ma vedi inoltre l’Atlante figurato in appendice all’opera di De Martino, ill. 17-20, 28, 31, 62b. Nella medesima posa si rifugia, sopraffatta dal dolore, Maria Bergamas, la madre di un caduto della Prima guerra mondiale cui venne affidata la scelta della salma del Milite Ignoto: «Ma oltrepassata la prima [bara], ella cadde in ginocchio dando il senso che la pena fisica l’avesse affranta» (O. Cavara, L’apoteosi del Milite Ignoto ad Aquileja, «L’Illustrazione italiana», 6 novembre 1921, p. 532, cit. in M.A. Banti, Sublime madre nostra, cit., p. 141).

41 E. De Martino, Morte e pianto rituale, cit., rispettivamente le pp. 95-96, 216, 225.

42 Cfr. M.A. Banti, Sublime madre nostra, cit.; M. Viroli, Come se Dio ci fosse, Torino, Einaudi, 2009 (su Leopardi le pp. 173-175).

43 «L’amour de la patrie trouva chez lui un modèle: “Jérusalem, Jérusalem, s’écrioit-il, en pensant au jugement qui menaçoit cette cité coupable, j’ai voulu rassembler tes enfans, comme la poule rassemble ses poussins sous ses ailes; mais tu ne l’a pas voulu!”. Du haut d’une colline, jetant ses tristes yeux sur cette ville condamnée pour ses crimes à une horrible destruction, il ne put retenir ses larmes: Il vit la cité, dit l’apôtre, et il pleura!» (F.R. de Chateaubriand, Génie du Christianisme, ou Beautés de la religion chrétienne, Paris, Migneret, 1803, p. 120; cita i vaticinî di Cristo su Gerusalemme precedenti a quello sul Calvario: cfr. Lc., 13, 34; 19,41).

44 Proprio l’anno precedente (1832) Leopardi aveva contribuito alla consacrazione del parallelo, dettando l’epigrafe per un busto di Raffaello che faceva da pendant, nella villa suburbana di Scornio del pistoiese Niccolò Puccini, a un busto di Canova accompagnato da un’epigrafe di Giordani (cfr. G. Leopardi, Iscrizione sotto il busto di Raffaello, in Id., Poesie e prose, cit., p. 1016).

45 P. Giordani, Del quadro di Rafaello detto Lo Spasimo e dell’intaglio in rame fattone dal Cavalier Toschi, in Id., Scritti editi e postumi, cit., p. 263.

46 Ivi, p. 264 (l’evocazione della natura contiene un accenno al celebre epitaffio del pittore dettato da Pietro Bembo: «Ille hic est Raphael timuit quo sospite vinci, rerum magna parens et moriente mori»).

47 Ibidem.

48 Sul tema cfr. G. Leopardi, Condanna e viaggio del Redentore al Calvario, Discorsi sacri (1809-1814), in Id., Prose, cit., pp. 560-566.

49 G. Leopardi, Inni cristiani (abbozzo), in Id., Poesie, cit., p. 639 (sul progetto nel suo insieme cfr. G. Getto, Gli inni cristiani, in Id., Saggi leopardiani, Firenze, Vallecchi, 1966, pp. 239-272). Per l’immagine di altre patrie giacenti vedi B. Lawal, After an imaginary slumber: visual and verbal imagery of ‘awakening’ Africa, «Word & Image», 26, aprile 2010, pp. 413-428. Per opposizione, sulla «verticalità» con «figura e funzione profetica» degli alter ego leopardiani cfr. E.N. Girardi, La componente biblica nei “Canti” e nelle “Operette morali”, «Testo», 20, 1999, pp. 15-16.

50 G. Leopardi, Zibaldone, cit., 150 (4 luglio 1820), p. 180.

51 Ivi, 798-799 (16 marzo 1821), p. 588.

52 G. Didi-Huberman, Survivance des lucioles, Paris, Minuit, 2009, pp. 92-93.

53 «Lo colpì nel quadro una scura banda, una luce di cenere che nel centro l’attraversa, annera la testa d’un cavallo, pietrifica volti, movimenti» (V. Consolo, Lo Spasimo di Palermo, Milano, Mondadori, 1998, p. 112). Per lo scrittore siciliano, come per Pietro Giordani, Raffaello «vide nelle istorie passate e nella natura umana» il futuro dell’Italia: in questo romanzo, le stragi di mafia del 1992 (cui seguirono, l’anno successivo, gli attentati al patrimonio storico-culturale, da via dei Georgofili a San Giovanni in Laterano).

54 L’intero saggio di Giovanni Alfredo Cesareo testimonia dell’impazienza e fin dell’irritazione postunitarî per l’iconografia della patria dolente rappresentata nella canzone All’Italia, componimento che il critico infine definisce «il primo documento elegiaco dell’infermità morale che doveva tormentarlo [scil.: Leopardi] fino alla morte» (G.A. Cesareo, L’Italia, cit., p. 481). Sulla curvatura «doloristica» assunta dall’immaginario della patria a partire dal secondo dopoguerra cfr., per contrasto, G. De Luna, La repubblica del dolore, Milano, Feltrinelli, 2011.

55 P.P. Pasolini, L’Appennino, 4, in Id., Tutte le poesie, a cura di W. Siti, Milano, Mondadori (I Meridiani), 2003, I, p. 778 (Ilaria/Italia riposa nella celebre tomba di Jacopo della Quercia a Lucca).

56 Questo articolo è una versione riveduta e accresciuta della lezione tenuta nell’ambito dell’Accademia di civic education svoltasi sull’Isola di Ventotene dal 7 al 10 ottobre 2010. Sono grato a Maurizio Viroli, promotore e anima dell’iniziativa, per l’invito e per gli spunti di ricerca. Una precedente versione era stata presentata il 18 giugno 2008 come ‘lezione di prova’ all’Università della Svizzera italiana di Lugano. Ringrazio Laura Barile, Walter Geerts, Carlo Ossola, Stefano Prandi ed Eddo Rigotti per le osservazioni e i suggerimenti forniti in quella sede; e inoltre Christoph Frank e Carla Mazzarelli per le indicazioni bibliografiche sul tema delle spoliazioni napoleoniche. Per la versione definitiva di questo articolo mi sono avvantaggiato degli spunti di lettura dei due anonimi referee della Rivista, che qui ugualmente ringrazio.