O patria mia, vedo le mura e gli archi E le colonne e i simulacri e l’erme Torri degli avi nostri, Ma la gloria non vedo, Non vedo il lauro e il ferro ond’eran carchi I nostri padri antichi. Or fatta inerme, Nuda la fronte e nudo il petto mostri. Oimè quante ferite, Che lividor, che sangue! oh qual ti veggio, Formosissima donna! Io chiedo al cielo E al mondo: dite dite; Chi la ridusse a tale? E questo è peggio, Che di catene ha carche ambe le braccia; Sì che sparte le chiome e senza velo Siede in terra negletta e sconsolata, Nascondendo la faccia Tra le ginocchia, e piange. Piangi, che ben hai donde, Italia mia, Le genti a vincer nata E nella fausta sorte e nella ria.[1]
1. La prosopopea della patria nella canzone All’Italia di Giacomo Leopardi si staglia su un fondale intessuto di reminiscenze poetiche[2] ed elaborati riferimenti alla storia nazionale: quella remota della romanità (gli «archi» e le «colonne») e dell’età comunale (l’«erme torri»);[3] ma anche quella prossima e ancor pulsante dell’età napoleonica, solo che la visuale sia allargata (è la stessa storia redazionale a invitarvi)[4] alla gemella canzone Sopra il monumento di Dante che si preparava in Firenze.
Nella canzone su Dante Leopardi inscena un dramma della memoria culturale:[5] il trauma delle spoliazioni napoleoniche di opere d’arte[6] nell’«ultima sera» della patria («Beato te [Dante] che il fato / A viver non dannò fra tanto orrore; / Che non vedesti in braccio / L’itala moglie a barbaro soldato; / (...) / Non degl’itali ingegni / Tratte l’opre divine a miseranda / Schiavitude oltre l’alpe, e non de’ folti / Carri impedita la dolente via»),[7] felicemente risolto con la missione di Antonio Canova a Parigi (agosto/ottobre 1815) e la restituzione di parte delle opere trafugate; quindi l’accorato e ultimativo appello del poeta al «guasto legnaggio», al quale non sono più concesse scusanti: