Since the seminal works by De Sanctis and Carducci, the personification of homeland represents a keystone in the interpretation of Giacomo Leopardi’s poem All’Italia (1818). In this paper, the topic is related both to memory traumas in the Age of Napoleon and to the expectations of a cultural and political revival of Italy. The predominant role played in this context by visual arts (mostly by the outstanding personality of Antonio Canova) is considered, as well as the commitment of Pietro Giordani – Leopardi’s first mentor – as related to their spread and appreciation. The personification of Italy in Leopardi’s canzone is eventually connected to a nineteenth-century avatar of Raffaelo Sanzio’s Salita al Calvario, a central icon in neoclassical imagery. As a result, new light is shed on the young poet’s relations to visual arts – especially on his ambivalent attitude toward Neoclassicism – as well as on the political reuse of biblical themes during the Risorgimento.

O patria mia, vedo le mura e gli archi E le colonne e i simulacri e l’erme Torri degli avi nostri, Ma la gloria non vedo, Non vedo il lauro e il ferro ond’eran carchi I nostri padri antichi. Or fatta inerme, Nuda la fronte e nudo il petto mostri. Oimè quante ferite, Che lividor, che sangue! oh qual ti veggio, Formosissima donna! Io chiedo al cielo E al mondo: dite dite; Chi la ridusse a tale? E questo è peggio, Che di catene ha carche ambe le braccia; Sì che sparte le chiome e senza velo Siede in terra negletta e sconsolata, Nascondendo la faccia Tra le ginocchia, e piange. Piangi, che ben hai donde, Italia mia, Le genti a vincer nata E nella fausta sorte e nella ria.[1]

1. La prosopopea della patria nella canzone All’Italia di Giacomo Leopardi si staglia su un fondale intessuto di reminiscenze poetiche[2] ed elaborati riferimenti alla storia nazionale: quella remota della romanità (gli «archi» e le «colonne») e dell’età comunale (l’«erme torri»);[3] ma anche quella prossima e ancor pulsante dell’età napoleonica, solo che la visuale sia allargata (è la stessa storia redazionale a invitarvi)[4] alla gemella canzone Sopra il monumento di Dante che si preparava in Firenze.

Nella canzone su Dante Leopardi inscena un dramma della memoria culturale:[5] il trauma delle spoliazioni napoleoniche di opere d’arte[6] nell’«ultima sera» della patria («Beato te [Dante] che il fato / A viver non dannò fra tanto orrore; / Che non vedesti in braccio / L’itala moglie a barbaro soldato; / (...) / Non degl’itali ingegni / Tratte l’opre divine a miseranda / Schiavitude oltre l’alpe, e non de’ folti / Carri impedita la dolente via»),[7] felicemente risolto con la missione di Antonio Canova a Parigi (agosto/ottobre 1815) e la restituzione di parte delle opere trafugate; quindi l’accorato e ultimativo appello del poeta al «guasto legnaggio», al quale non sono più concesse scusanti:

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →