La pornocritica tra etica, teoria e comparazione

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This essay is aimed to demonstrate the need for an ethical and theoretical approach to contemporary pornography by analysing a group of essays that have been published in Italy since 2003. The first paragraph is a survey on the history of porn movies and the porno-critical debate; the second paragraph dwells on the theoretical consequences of the mixture of real and fictional in sex scenes; the third paragraph is devoted to the debate on the pornographic representation of women; the forth paragraph examines three possible methodological solutions for a relationship between porno-criticism and comparative literature: the pornographic topos as a thematic issue, the pornographic construction of plot as a narrative mode, the pornographic metaphor as a key to understand contemporary life

Eccoti poi otto sospiri ad un tratto, usciti dal fegato, dal polmone, dal core e dall'anima del reverendo e cetera, dalle suore e dai fraticelli, che ferno un vento sì grande che avrieno spenti otto torchi; e sospirando caddero per la stanchezza come gli imbriachi per il vino. E così io che era quasi incordata per il disconcio del mirare, mi ritirai destramente, e postami a sedere, diedi uno sguardo al cotale di vetro.

Pietro Aretino, Ragionamento della Nanna e della Antonia

Questo contributo prende origine dalla curiosità sorta di fronte al recente apparire di vari studi in lingua italiana dedicati alla pornografia: che cosa ci segnala questo fiorire di porn studies e connessi? E a proposito di che cosa: della nostra società, della nostra sessualità, della nostra facoltà immaginativa? E, dal punto di vista teorico, può la pornocritica stimolare una riflessione sui metodi e sugli obiettivi della letteratura comparata? A ben vedere, si tratta di questioni che già di per sé sono spia dell’orizzonte in cui dobbiamo muoverci per tentare di rispondere: nel passaggio da un settore specifico, sia esso letterario, figurativo o cinematografico, al mare magnum del culturale. Interrogare la pornocritica si inserisce infatti in quel confronto trasversale tra codici e linguaggi dell’immaginario tipico dei nostri anni, segnati da intrecci e contaminazioni di ambiti e livelli di fronte ai quali, tuttavia, non si dovrebbe rinunciare alla problematizzazione etica e al giudizio di valore estetico: in una parola, alla critica, per quanto curiosa e spregiudicata essa possa essere.

Viste la quantità degli interventi e le molteplici diramazioni presenti nel dibattito sulla pornografia, rispondere in maniera esaustiva alle domande poste appare pressoché impossibile nello spazio di un articolo; pertanto, lasciando sullo sfondo, come termine di paragone, gli studi sulla pornografia letteraria, farò principalmente riferimento ad alcuni saggi sul porno audiovisivo usciti negli ultimi dieci anni in Italia, dopo, cioè, la traduzione nel 2002 dell’emblematico Manifesto porno della giovane pornostar francese Ovidie Becht. L’obiettivo (metacritico) che mi pongo è di mettere a fuoco la necessità di un approccio al contempo etico e teorico per affrontare le problematiche della pornografia contemporanea e di mostrare alcune ragioni dell’utilità metodologica di tale composito approccio nell’ambito degli studi comparatistici.[1]

Dalla controcultura ai porn studies

In questa direzione, è necessario innanzitutto ripercorrere brevemente la storia di quello che lo storico Pietro Adamo definisce porno di massa, un «genere certamente tra i più diffusi e popolari in Occidente».[2] L’anno di nascita ufficiale si può stabilire nell’annéé érotique 1969,[3] quando in Danimarca la produzione e la diffusione della pornografia audiovisiva non sono più considerate reato e negli Stati Uniti una sentenza stabilisce la non punibilità della fruizione privata di materiale osé, al tempo consistente perlopiù in filmini in 16 mm con immagini di donne nude in posizioni ammiccanti (beaver film); di qui la trasformazione di Copenaghen in capitale europea dell’hard core, con conseguente irraggiamento del mercato nei Paesi contigui, e di San Francisco, già culla del movimento hippy, in centro americano del porno. Il passo successivo, con il passaggio al formato in 35 mm, è la rapida crescita di una vera e propria industria cinematografica di settore, inaugurata nel 1970 da Mona The Virgin Nymph di Michael Benveniste e Howard Ziehm e destinata a esplodere nel 1972 con lo straordinario successo di Gola profonda (Deep Throat) di Gerard Damiano e Dietro la porta verde (Behind the Green Door) dei fratelli Mitchell, addirittura proiettato a Cannes.

Locandina del film Behind the Green Door, 1972

Questi primi anni sono ricordati come la golden age del porno, che sfrutta, anche in altre nazioni come la Germania Occidentale e la Francia, un permissivismo legislativo in qualche modo ispirato ai movimenti di contestazione e liberazione sessuale del momento, di cui i film hard core sono visti come un’espressione particolarmente disinibita. Tipico di questa fase è il feature-lenght narrative pornographic film, riconoscibile da una sempre più codificata sequenza di atti sessuali, culminanti nella penetrazione e nel money shot – l’inquadratura dell’eiaculazione esterna –, e dal «tentativo di riprodurre i meccanismi narrativi ed estetici del cinema alto» che fa sì che, sulla scia dei sexploitation degli anni Sessanta, i film appaiano come «B-movies arricchiti dalla presenza dell’hard».[4] Le cose sono però presto mutate. Innanzitutto, la ‘pacchia’ legislativa non è durata a lungo: già verso il 1975 il vento è iniziato a mutare e pressoché ovunque si sono registrati provvedimenti miranti a controllare e delimitare la circolazione dei film pornografici, ma il decisivo cambiamento – evocato nella parte finale di Boogie Nights di Paul Thomas Anderson (1997)– si è avuto all’inizio degli anni Ottanta con l’avvento degli home video, che hanno cambiato radicalmente la struttura dei film. In generale si è assistito a una riduzione degli aspetti diegetici a favore del porno all sex, in cui le scene di sesso possono arrivare a coprire più dell’80% del tempo, specie nel gonzo, caratterizzato da una tecnica da docufilm in cui, oltre a essere aboliti trama e set elaborati, le riprese sono spesso in soggettiva. Di pari passo, gli attori hanno progressivamente lasciato il posto a performer ai quali si richiede in primo luogo un corpo tonico e resistente, quando non chirurgicamente modificato, in grado di sostenere le riprese ravvicinate di atti sessuali sempre più acrobatici ed estenuanti. Questa evoluzione ai limiti del post-umano è continuata sino alla fase digitale e telematica di oggi, che si contraddistingue, con scaltra strategia di marketing, per la proliferazione delle più varie specializzazioni:

Le pornografie videografiche (il plurale è ormai d’obbligo) nascono infatti dalla correlazione sistemica di diverse categorie: a) standard produttivo (high-end, low-budget, pro-am, amatoriale); b) orientamento sessuale (etero, gay, lesbo, bisessuale, transessuale); c) performance sessuale (straight sex, oral sex, anal sex, solo, threesome, ecc.); d) struttura testuale (plot-based, all-sex, casting, ecc.); e) struttura stilistica (glamorous, ‘artistica’, documentaria, iperrealistica, ecc.); f) body attributes, distinti in età (teen, milf, mature, ecc.), razza (latina, asian, ebony, ecc.), fisico (brunette, redhead, big breast, big ass, big cock, ecc.), professione/posizione sociale (studentessa, moglie, teacher, cheerleader, gangster, biker, ecc.); g) ‘perversione’ parafiliaca (BDSM, watersports, bestiality, scat, ecc.); h) matrice (sotto)culturale (yuppie, redneck, goth, skinhead, punk, ecc.).[5]

Due ulteriori fenomeni sono poi da considerare in uno sguardo d’insieme sul porno più recente. In primo luogo, esauritasi ormai la volgarità goliardica delle produzioni classiche, si è assistito in alcuni dei filoni citati a una progressiva estremizzazione dei contenuti e a un crescente «clima di violenza, di umiliazione e di reificazione»,[6] specie nei confronti del corpo femminile. Complementarmente, anche come forma di reazione a questa deriva dell’industria professionistica, si è sviluppato un filone di amateur porn in cui persone comuni si riprendono mentre hanno rapporti sessuali e, grazie alle possibilità di condivisione del Web 2.0, rendono pubblico il loro video.

Non è stato comunque necessario attendere le più recenti evoluzioni perché il dibattito pornocritico prendesse vita. Sin dal suo affermarsi il porno di massa è stato accompagnato dalle riflessioni di intellettuali e studiosi/e che, sospese tra liberazione e sopraffazione, hanno nell’insieme posto il problema di «quale, tra queste due versioni della natura del porno, sia quella più rispondente alla realtà culturale e materiale del fenomeno e dei suoi fruitori».[7] Se «la legittimazione culturale di cui l’hard core ha goduto negli anni Settanta, perlomeno in certi ambienti, è un fenomeno pressoché dimenticato»,[8] che nasceva dall’associazione con le istanze libertarie della rivoluzione sessuale da un lato, dall’attacco al moralismo e alla censura dall’altro, sul fronte opposto si è rimproverato al porno non solo di perpetuare le dinamiche di dominio della società capitalistica, ma anche, dietro la falsa apparenza della liberazione dei costumi, di saldare tali dinamiche a una riaffermazione del fallocentrismo patriarcale. È questo il senso dell’attacco femminista all’hard core, sin dal biennio 1969-70 con le posizioni etero-separatiste del gruppo Cell 16 di Boston e il seminale Sexual Politics di Kate Millet, sulla cui falsariga si muoveranno altre analisi radicalmente critiche come quella di Andrea Dworkin e della giurista Catharine MacKinnon.

Le posizioni delle femministe non sono state però così compattamente univoche. Già negli anni Settanta si sono alzate le voci di chi auspicava una rivoluzione sessuale che non si limitasse al libero amore di stampo etero-fallocentrico, ma andasse nella direzione di una più «naturale sessualità perverso-polimorfa»;[9] in seguito, un diverso approccio al desiderio e all’immaginario erotico femminile è stato messo in atto da una nuova generazione di studiose come Camille Paglia, Louise J. Kaplan e Judith Butler. Parallelamente ha preso corpo una forma di pornografia post-femminista di cui sono fautrici alcune fuoriuscite del porno come l’ecosessuale Annie Spinkle o la ‘vulvaluzionaria’ Dorrie Lane: sono i modelli del Manifesto porno di Ovidie Becht, tutte figure che, fiere del loro background pornografico, si sono evolute in pornoeducatrici e body-artists, impegnate, da una prospettiva in cui si è colta un’assonanza con gli imperativi neo-liberisti del successo individuale,[10] a insegnare alle donne il loro diritto al piacere con video didattici e istruttive performance.

La via per uscire dall’aut aut delle posizioni pro- e anti-porno l’ha indicata Michel Foucault nei suoi studi sulla sessualità della seconda metà degli anni Settanta, dedicati, com’è noto, a «decifrare i rapporti fra potere, sapere e sesso»[11] attraverso l’analisi delle forme discorsive con cui tali rapporti si irraggiano socialmente. È su questa strada metodologica che si sono infatti posti i porn studies, i quali, come si legge nell’Introduzione dei curatori Enrico Biasin, Giovanna Maina e Federico Zecca al volume Il porno espanso (2011), hanno elevato a oggetto «la pornografia audiovisiva come forma culturale»:[12] se fino a gran parte degli anni Novanta, a eccezione di Hard Core: Power, Pleasure and the “Frenzy of the Visibile” di Linda Williams (1989) e poco altro, sono prevalsi ancora gli interventi militanti pro o contro,

nel corso degli ultimi dieci, quindici anni, […] – in (non casuale) coincidenza con la ‘svolta’ digitale e telematica –, la considerazione (epistemica e sociologica) della pornografia ha subito una piccola rivoluzione cartesiana, conseguente al riconoscimento accademico (almeno in ambito anglosassone) dei cosiddetti porn studies. Come recentemente sottolineato da Feona Attwood, infatti, questi studi hanno radicalmente (ri)concettualizzato la pornografia, concependola – sulla scorta della prospettiva williamsiana – non più (solo) come un ‘problema sociale’ (da combattere) ma anche (e soprattutto) come una ‘pratica culturale’ (da comprendere).[13]

Vari sono stati i risultati di un simile approccio: il passaggio dall’idea di un’unica pornografia alla constatazione dell’esistenza di più pornografie e della necessità di definirne la plurale retorica, anche in direzione oppositiva ai sottogeneri audiovisivi dominanti; la messa a fuoco di una diversa triangolazione di pornografico, erotico e osceno, legata a una dialettica tra off/scene e on/scenity in cui anche la pornografia contribuisce a portare sulla scena pubblica contenuti ritenuti in precedenza non rappresentabili; la dimensione creativa che certi topoi pornografici possono assumere nelle dinamiche del desiderio; e la descrizione della sfaccettata espansione dell’immaginario porno nella produzione culturale contemporanea, come nel cosiddetto porno d’autore, frutto delle sperimentazioni di registi operanti nel circuito tradizionale del cinema, ad esempio Catherine Breillat con Romance (1999) e Pornocrazia (2004) e Michael Winterbottom con 9 Songs (2004).

Kieran O’ Brien e Margo Stilley in 9 Songs di M. Winterbottom, 2004

Tra etica e teoria

Nonostante la rivoluzione cartesiana in senso culturale e teorico dei porn studies, mi sembra che sia quanto mai opportuno continuare a interrogarsi sulle problematiche etiche, che possiedono poi anche un risvolto politico, legate alla pornografia audiovisiva: se i confini del lecito e dell’illecito sono sottoposti a mutamenti storici che possono svelare quanto ciò che era considerato naturale, con gli annessi concetti del normale e del contronatura, fosse dovuto a consuetudini socio-culturali, «la relatività dell’osceno è il completamento e la conferma della sua universalità, dal momento che non sono mai esistite culture del tutto prive di senso del pudore e conseguentemente non dotate del senso di ciò che è disdicevole rispetto ad esso».[14] Pertanto, non ‘nonostante’, ma ‘proprio perché’ i porn studies hanno ottenuto simili risultati, si tratta di trasformare le istanze sollevate dagli avversarsi e dalle avversarie del porno nella materia di un confronto critico propedeutico alla teorizzazione: se la pornografia, nelle parole degli stessi pornofili, è in grado di toccare i più scomodi e politicamente scorretti anfratti psicologici e sociali umani, tanto più è necessario problematizzare il disagio, se non proprio la ripugnanza, che essa può ispirare.

In particolar modo, appare opportuno mantenere il doppio passo teorico ed etico di fronte al successo del porno estremo contemporaneo: da una parte, ci si potrà porre la questione se lo sfruttamento commerciale del disgusto e del dolore tradisca o esacerbi la retorica della rappresentazione pornografica della golden age; dall’altra, non si vede perché non si debba stigmatizzare con una salutare dose di sdegno civile i sottogeneri che mirano a eccitare gli spettatori con immagini di violenza sessuale e altri tipi di umiliazione delle donne. Tenendo presente, comunque, che quella pornografica non è che una delle facce di un problema sociale assai più ampio, per cui, se non basta affermare che il filone dello stupro si pone rispetto alla pornografia come, nelle parole di Ovidie Becht, «i funghi velenosi stanno ai funghi»,[15] è altresì vero che, al di là delle censure che prendono di mira solo l’effetto, bisognerebbe interrogarsi sulle cause a monte del bisogno di vedere rappresentata una così efferata forma di sopraffazione maschile. Al riguardo, sono interessanti alcune osservazioni di David Foster Wallace che in un suo reportage sugli award statunitensi del porno del 1998, Il figlio grosso e rosso, apparso in Italia nel 2006, riconduce il fenomeno a una più generale deriva dell’intrattenimento – «non è certo una novità che nell’ultimo decennio anche la Tv e i film tradizionali sono diventati più violenti ed espliciti e crudi»,[16] – ma poi, più acutamente, riconosce come nella nuova rispettabilità, se non sociale, certo economica, dell’industria del porno, risieda un paradosso: «Più il porno diventa accettabile nella cultura moderna, più dovrà spingersi in là per preservare quel senso di inaccettabilità che è tanto essenziale al suo fascino».[17]

Tra le spinose questioni sollevate da un tale paradosso, come quella del rapporto tra pornografia e fruizione minorile, la quale a sua volta si porta dietro la complementare problematica della pedofilia, cercherò di fare qui alcune considerazioni relative agli intrecci tra due modi di affrontare la commistione, tipica del porno di massa, di realtà – gli atti sessuali – e finzione – gli ‘attanti’[18] come personaggi di una storia, per quanto elementare essa possa essere –: del fatto che l’industria cinematografica del porno deve la sua esistenza al consenso (retribuito) di donne e uomini ad ‘agire’ tale commistione. Non si tratta (per il momento) di riflettere sugli aspetti teorici di ciò, ma, molto prosaicamente, di tenere conto di come una simile disponibilità non sia così pacificamente comprensibile a tutti: se da un lato la proliferazione di video amatoriali suggerisce un diffuso desiderio di esibizione e uno scarso senso del pudore, dall’altro per un altrettanto consistente numero di persone un lavoro in cui si viene pagati per farsi riprendere, per quanto come personaggi di un film, durante una perfomance sessuale, costituisce ancora occasione, se non di condanna o biasimo, comunque di un certo interrogante stupore.

Una possibile risposta si trova nel Manifesto porno di Ovidie Becht che, sfidando «l’idea puritana del ‘dare se stessi’ attraverso l’attività sessuale»,[19] rivendica l’autonomia della scelta di svolgere quello che lei definisce un sex work, un lavoro in cui non vende il proprio corpo, ma con il proprio corpo offre un servizio, e non vede perché questo dovrebbe fare più scalpore di quanto ne faccia, mentre danza sul palcoscenico, il coinvolgimento fisico di una ballerina nella sua performance. Soprattutto, come afferma a chiare lettere, non vuole essere ‘salvata’ dalle femministe, che tratta – con rapidità argomentativa invero più da discussione al bar che non da pamphlet – come ipocrite agenti del consumismo, nient’altro che formidabili alleate del business del tempo libero e degli elettrodomestici. Tuttavia, non ci si può non chiedere se un simile pride sia davvero così universalmente rappresentativo, specie se si pensa agli estenuanti sforzi fisici richiesti dalle riprese: sia agli uomini costretti a mantenere un priapismo a oltranza, sia alle donne costrette a subire multiple e variegate penetrazioni nelle più acrobatiche posizioni.

A leggere alcune testimonianze maschili raccolte da Roberto Carvelli nella sua inchiesta sostanzialmente pornofila La comunità porno. La scena hard italiana in presa diretta (2004), si ha l’impressione di un disincantato e venale fatalismo con cui i pornoattori accettano un destino scandito dalle ‘scopate’ e dal «pisello importante»;[20] in particolare, essi spiegano la scelta di essersi dedicati al porno con la ragione che in tal modo sono stati messi nella condizione di poter soddisfare il loro insaziabile appetito sessuale – e per di più venendo pagati –, ma poi, come onestamente ammette Beppe, un ex-attore di cui non si sa che il nome, «bisogna avere il pelo sullo stomaco».[21] La sua intervista è interessante anche perché offre uno spaccato assai meno idilliaco della situazione delle attrici di quanto le pornofiere dichiarano. Se per Becht, «anche se può sembrare strano agli occhi di molti, le donne scelgono di fare questo lavoro. Ne hanno voglia»,[22] il ricordo di Beppe è che «le donne sul set fanno molto uso di coca perché è difficile per loro eccitarsi con un uomo che non è attraente»,[23] sebbene, forse, l’assunzione di stupefacenti sia dovuta al bisogno di sopportare non tanto la bruttezza dei partner quanto i corollari più sgradevoli, se non proprio disgustosi, di un’intimità fisica puramente professionale.

Su questa doppia chiave di accesso al set pornografico – del pride e dello «squallore di fondo»[24] – si può a questo punto innestare, nelle parole di Simone Regazzoni in Pornosofia (2010), la riflessione sullo «spazio del pop porno [come] spazio in cui si decostruisce la frontiera tra fiction e realtà»[25] e in cui, sulla falsariga di Linda Williams, l’aggettivo pop copre, oltre all’area della produzione audiovisiva che Adamo definisce di massa, anche i materiali disponibili su internet. Per Regazzoni, a sua volta filosofo pop, non solo «il pop porno è la fiction che incorpora il reale dell’atto sessuale»,[26] ma «il reale dell’atto sessuale si compie tra corpi di carne, nell’intreccio di corpi carnali»:[27]

Il corpo carnale non è solo un corpo che attraverso la carne sente, soffre, gode; è un corpo che, sotto la pressione della carne, perde la propria stabilità, la propria organizzazione, e si trasforma in un corpo disorganizzato composto di quasi-organi fluidi che si spostano e si sostituiscono l’uno all’altro: la bocca con l’ano, il pene con la lingua, la faccia con la vulva, l’ano con la vagina, la mano con il pene, la bocca con la vagina, ecc.[28]

La deflagrazione di un simile polimorfismo anatomico, che decostruisce la soggettività per fare emergere il grado zero dell’animalità umana, si sviluppa attraverso quella che, con un termine mutuato da Lévinas, Regazzoni chiama ‘sfigurazione’, l’emergere della faccia al di là del volto: «È nel godimento che si mostra il cuore della nudità assoluta come nudità della carne: perché è proprio con il mostrarsi del godimento, con il suo venire-alla-faccia come altra forma di incarnatio che viene meno la maschera del volto».[29] Di contro alla bassezza del porno, su cui insiste particolarmente Adamo come chiave che permette di «dispiegare modalità di espressione particolarmente significative»,[30] Regazzoni propone una sorta di sublime pornofilo in cui la disgregazione dei corpi negli intrecci degli orifizi e degli organi di penetrazione si trasforma in un’esperienza estetica di rivelazione dell’eros – o perlomeno di quello che lui considera l’eros. Si intuisce che di fronte a una simile «visione incarnata»[31] siamo al limite non solo dell’etica, ma anche di un imprevisto approccio mistico al porno:

Si può mostrare l’invisibile lasciando che qualche cosa di coperto o di nascosto resti sulla scena del visibile […]. È questo il modo in cui l’erotismo lavora con l’invisibile […]. Ma si può mostrare l’invisibile mostrandolo come invisibile, mostrando che c’è dell’invisibile al cuore della visibilità totale, quando non c’è più nessuna cosa nascosta, quando l’ultimo velo è caduto.[32]

Ora, senza dubbio la pornosofia appare una teoria brillante e ben argomentata, ma non ci si può non chiedere quanto essa sia, per così dire, ‘realistica’ e non si ponga, piuttosto, come una rimotivazione, sul piano della ricezione, del cosiddetto porno chic.[33] Nonostante il dichiarato pathos emotivo, quello di Regazzoni mi sembra infatti un approccio comunque intellettualistico, legato a una sensibilità filosofica molto distante dal ben più prosaico tipo di aspettative che in genere possiede un «consumatore di pornografia […] consapevole che trovare un “buon porno” – un porno capace di stimolare in modo soddisfacente la risposta corporea – è sorprendentemente difficile».[34] In altri termini, il «buon porno» pare più un’eccezione che non la norma o, per dirla con una frase di David Foster Wallace tratta dal Figlio grosso e rosso, solo «di quando in quando, in una scena hard-core capita che l’anima nascosta si “mostri” ed “è” un po’ il contrario della recitazione»: «la faccia dell’attore porno cambia» e si passa dall’asetticità professionale a «un’autentica gioia erotica».[35] È una frase citata anche da Regazzoni, che però non riporta un passo contiguo in cui la commistione di realtà e finzione sembra incrinare la pornosofia: la maggior parte delle volte, afferma Wallace, i volti degli attori non scompaiono, ma rimangono sulla scena come «[…] facce che di solito appaiono annoiate o assenti o competenti, ma in realtà sono semplicemente nascoste, l’anima chiusa a chiave ben oltre gli occhi. Senza dubbio nascondersi è il modo in cui un essere umano che sta dando via le parti in assoluto più private di sé preserva un senso di dignità e autonomia».[36]

Potrebbe sembrare di mettere a confronto due livelli filmici diversi, legati rispettivamente alla realtà del set e alla finzione del prodotto, ma proprio in ciò si rivelano le conseguenze più radicali della commistione di realtà e finzione tipica del porno audiovisivo di massa: che la teoria è in qualche modo risucchiata dall’etica nei residui di realtà visibili sulla scena dei corpi carnali.

La questione femminile

Con la pornosofia di Regazzoni siamo giunti a lambire l’argomento centrale del dibattito pornocritico: la rappresentazione pornografica della donna, riguardo alla quale sin dalla fine degli anni Sessanta si è discusso nei termini di reificazione del corpo femminile e di comportamento dominatore maschile. Da questo punto di vista è particolarmente significativa l’acuta Post/fazione. Le parole che mancano al libro di Carvelli scritta dalla storica della lingua Francesca Serafini:

Le donne sono quasi completamente afasiche, impegnate come sono a soddisfare le richieste maschili (che – come si può ben intuire – impediscono loro, logisticamente, di parlare, data la frequenza di rapporti orali). Il loro contributo pertiene all’ambito dell’onomatopea, se in questo vogliamo far rientrare sospiri e gridolini che si travasano verbalmente il più delle volte nell’unica significativa parola di senso compiuto che è sì. Il piccolo avverbio olofrastico è una specie di manifesto programmatico: le donne possono dire solo sì alle richieste dei partner […].[37]

Si può supporre che per Regazzoni una simile coazione all’obbedienza non costituisca una degradazione nel senso in cui l’hanno intesa le femministe, bensì un effetto collaterale di quel passaggio «da un grado superiore a un grado inferiore»[38] che, al di là del loro sesso, decostruisce i soggetti in corpi carnali; di ben altro parere è la filosofa Michela Marzano nella Fine del desiderio. Riflessioni sulla pornografia, uscito originariamente in Francia nel 2003 e tradotto in italiano solo quest’anno. Con un lessico che attinge, oltre che dai gender studies, dalla lezione di Bataille, Foucault, Levinas, Nancy – nomi a cui, peraltro, fa riferimento anche Regazzoni per sostenere opinioni opposte –, Marzano propone una versione aggiornata (culturale) del femminismo anti-porno, di cui riprende alcuni topoi riconducendoli a un più generale discorso sul desiderio: «Lo scopo di questo libro è mostrare quali sono le rappresentazioni della sessualità messe in scena dalla pornografia e in che modo le “condotte” pornografiche finiscano per occultare il corpo, privando l’individuo della propria soggettività».[39] In particolare, si tratta di «mostrare come l’invasione di rappresentazioni pornografiche abbia imposto una visione degradata dell’umanità e della sessualità»,[40] perché la degradazione della donna si accompagna a quella dell’uomo: se le donne sono ridotte a un oggetto smembrato nei dettagli anatomici, non migliore figura fanno gli uomini, ridotti a stantuffi orgasmici. Siamo di fronte, cioè, alla negazione che

[…] il nostro corpo, e quindi ognuno di noi, è sempre preso in un doppio movimento di apertura e di chiusura, al mondo e agli altri. Ma significa soprattutto non ammettere che noi siamo al tempo stesso «deboli» e «potenti», e che il nostro corpo è contemporaneamente una frattura che sconfigge l’onnipotenza e una «certezza» di esistenza.[41]

Una domanda sorge però di fronte alla ricca esposizione di Marzano, che molte pagine dedica a spiegare la bellezza di quel desiderio che la pornografia, a differenza dell’erotismo, nega: se il piacere dato da questa reciproca apertura delle soggettività nell’incontro è così appagante, perché allora esiste la pornografia? Se la sessualità è questa profusione dell’uno nell’altra – perché l’orizzonte di Marzano resta sostanzialmente eterosessuale –, perché la realtà è fatta non solo di pornografia audiovisiva, ma di tutto un sottobosco di sex work e sex cruising? Detto altrimenti, che bisogno ci sarebbe di cercare altro quando la felicità erotica tra due persone è così potente e bastante a se stessa? In definitiva, dalla lettura della Fine del desiderio si ricava l’impressione che Marzano non stia descrivendo l’essere reale del desiderio, ma una sorta di suo dover essere ideale, di perfetto innamoramento che non molto può dirci sull’eziologia psico-sociale della pornografia.

Più in profondità, il saggio sembra soffrire di un’asimmetria teorica. Di fatto, Marzano contrappone un’esperienza del vissuto – la sessualità – a quanto è variamente definibile come un genere del discorso, una modalità rappresentativa, una forma culturale – la pornografia –, che non ha lo scopo di negare la sessualità ideale che lei ha in mente, ma – ci piaccia o meno – di rappresentare atti sessuali che, proprio perché «l’uomo e la donna diventano semplici ‘marionette’, le cui pose replicano standard codificati»,[42] possono stimolare il desiderio all’interno di un’esperienza reale di sessualità e, in quanto tale, esposta a comportamenti non sempre riconducibili alla coscienza e agli imperativi morali. Si potrà discutere se questo effetto, erogeno più che erotico, sia prettamente maschile o possa, e in quale misura, coinvolgere le donne, ma che esso sia la prerogativa della cruda retorica pornografica già ben lo sapeva Aretino nel secolo XVI quando ha messo in scena l’autodeflorazione della Nanna eccitata dalla visione dell’orgia in corso nella cella accanto alla sua. Certo, il desiderio non è ‘solo’ questo, ma può essere ‘anche’ questo, può essere anche – per utilizzare un’espressione di Dante già ripresa da Guido Almansi alla fine della sua Estetica dell’osceno – una «bassa voglia»;[43] il problema si pone, casomai, quando il desiderio è ridotto solo a questo, come si vede in Shame di Steve McQueen (2011) in cui il protagonista è un erotomane pornodipendente: la sua tragica addiction risponde perfettamente all’idea espressa dallo scrittore David Mura che «al cuore della pornografia c’è l’immagine della carne usata come droga, come un modo per anestetizzare il dolore psichico»[44].

S. McQueen, Shame, 2011

Se in questa declinazione del desiderio si può leggere la reazione del pensiero femminista di Marzano alla visione degradata della donna espressa dalla pornografia audiovisiva, la questione del femminile è invece affrontata di petto nel Dominio pornografico della giurista Alessandra Verza (2007), che veementemente e coraggiosamente si ispira alle posizioni radicali di Catharine MacKinnon. Con una serrata e articolata argomentazione la studiosa non solo smonta i falsi miti della liberazione sessuale che sarebbe attuata dalla pornografia, ma anche fornisce una prospettiva imperniata sul concetto giuridico di danno, già alla base delle ordinanze predisposte da MacKinnon insieme a Dworkin nei primi anni Ottanta a compimento del loro attivismo militante:

Tali normative, pur essendo motivate dalla consapevolezza che la pornografia mette a rischio i diritti civili delle donne, non imponevano limiti preventivi alla circolazione dei materiali pornografici, bensì, in linea con quattordicesimo emendamento sull’uguaglianza e senza ledere il primo emendamento, che tutela in USA la libertà di espressione, rendevano esperibile un’azione civile di risarcimento danni per le vittime danneggiate (con costrizione, molestia, diffamazione o stupro) in maniera comprovabile, attraverso la pornografia, definita come materiale sessualmente esplicito rappresentante le donne come oggetti sessuali, umiliate e sottomesse agli uomini, secondo una tipologia più dettagliata formulata dalle due studiose.[45]

Il presupposto, infatti, è che «il rapporto tra pornografia e danno riveste […] un’importanza decisiva nella valutazione etica e normativa del fenomeno»[46] e questo fa l’originalità, nel dibattito nostrano, dell’approccio di Verza, che nell’ultima parte del libro espone in dettaglio un’operativa proposta giuridica. Per la studiosa, però, non si tratta di imporre, attraverso il diritto, «un cambiamento autoritativo dei comportamenti e delle percezioni dei fenomeni sociali»,[47] ma di stimolare, anche con la prospettiva del diritto, il dibattito.[48]

Tuttavia, il recupero di un approccio alla questione così contrappositivo come quello del femminismo radicale degli anni Settanta e Ottanta rischia di riportare indietro la discussione, il che di per sé non sarebbe un problema se l’operazione servisse a riprendere il filo di un discorso avvitatosi nell’inconcludenza e non fosse, invece, che il ritorno a una fase preculturale del dibattito non paga nella descrizione degli intrecci e delle contaminazioni dell’immaginario contemporaneo. Ciò non significa che in nome di Foucault si debba giustificare tutto, ma che, una volta appurato che la critica delle rappresentazioni degradanti e degradate della donna come oggetto sessuale è il punto di partenza etico – e politico – del discorso pornocritico, vari sono i possibili percorsi che si aprono, tra cui anche un’indagine più ravvicinata, come quella svolta dai porn studies, che permette di verificare se è possibile, all’interno del discorso pornografico, rovesciare una simile visione del femminile: se, detto altrimenti, le donne possono appropriarsi – o si sono già appropriate, magari in settori di nicchia – del codice pornografico per rappresentare il loro diritto a una soggettività sessuale liberata sia dalle costrizioni fallocentriche che dagli stereotipi, anch’essi figli del patriarcalismo, dell’edulcorazione del sesso. Un esempio al riguardo può essere fornito dai siti di alt porn, nei quali l’appartenenza a subculture come «il “movimento” gotico, il mondo dei raver e le varie incarnazioni del punk» contestualizza le immagini delle modelle che, oltre a detenere «un ampio potere decisionale riguardo il proprio portfolio fotografico e le scene che interpreta[no]», spesso tengono un blog «in cui descrivono la loro vita quotidiana, esprimono opinioni, pensieri, gusti e così via».[49]

Non sarà un caso, allora, che Verza, insieme a Marzano, compaia nel saggio di Regazzoni come la principale avversaria anti-porno: perché da entrambi i lati c’è una passione militante, solo che per quanto riguarda Verza la si potrebbe definire una ‘misopornia’ che, in nome di una dichiarata sensibilità di parte,[50] le fa considerare la pornografia, non senza il rischio di un lessico scivoloso, una «forma degenerata»[51] del sesso che mette in scena un «innaturale dar spettacolo»[52] e, in quanto tale, umilia le donne. Di qui, la rimozione di possibili complicazioni concettuali come quelle dovute all’esistenza di una pornografia puramente gay:

Allora, come possiamo definire e comprovare questa nostra sensazione che, nonostante ciò [i porno gay maschili], siano essenzialmente le donne il fuoco dell’attenzione, e che sia la loro esibizione e la loro spoliazione, e non tanto quella maschile, l’elemento chiave della rappresentazione? Questa conclusione è indicata, più che da elementi descrittivamente spessi (come la presenza di persone di entrambi i sessi nella rappresentazione), dalla presenza di elementi sottili, legati ad un tipo di immaginario sessuale e volti a compiacere un occhio (e una costituzione sessuale) chiaramente maschile nella sua essenza.[53]

Colpisce che l’argomentazione non sia guidata da uno sforzo di esplorazione spregiudicata di un corpus di materiali, ma da una procedura di verifica di quello che si pre-sente; così, dato che, in questo circolo emozionale ancora prima che ermeneutico, il porno gay non fa parte del pre-sentimento della ricerca, ecco che lo si esclude dalla discussione con sottigliezze anziché con argomenti di spessore – per riprendere la contrapposizione del passo – e subito dopo ci si appella all’autorità al riguardo di MacKinnon e alla celebre frase del giudice Potter Stewart che affermò, in un processo del 1964, che non era in grado di definire la pornografia, ma riusciva comunque a «riconoscerla quando la vedeva».[54] Invece, proprio la rimozione della cinematografia gay, per non parlare di quella in cui sono presenti transessuali, e le correlate considerazioni sul pudore femminile e sull’innaturalità degenerata di certe situazioni convocano sulla scena la necessità di un’ulteriore inquadratura, una sorta di controcampo a quanto sostenuto da Marzano e Verza, che, al di là delle differenti metodologie, condividono comunque l’espunzione delle problematiche LGBT dal loro discorso.

L’omosessualità, in particolar modo quella femminile con l’intrinseco transgenderismo del suo desiderio, può mettere in crisi molte delle conclusioni da loro tratte sia nei termini di approccio al desiderio sessuale che nei termini della fruizione della pornografia. Da questo punto di vista, è estremamente istruttiva la scena del pur non riuscitissimo I ragazzi stanno bene (The Kids Are Alright) di Lisa Cholodenko (2010) in cui le due protagoniste, conviventi da molti anni e madri ciascuna di un/una figlio/a generato con l’inseminazione artificiale, guardano un film pornografico gay maschile mentre hanno un rapporto sessuale – o, meglio, tentano di averlo perché poi sono costrette a interrompersi; in seguito, richieste dal figlio che ha scoperto il dvd, sul perché guardino porno di uomini, una delle due spiega che, essendo «la risposta sessuale interiorizzata, a volte è eccitante vedere esternata la reattività con un pene». Di fronte a un simile episodio, diventa difficile accettare, perlomeno in toto, che le donne che sono interessate alla pornografia siano esclusivamente riconducibili alla tipologia di chi ha «interiorizzato la stessa concezione erotica, la stessa assegnazione di ruoli»[55] previsti dal dominio maschile; anzi, si potrebbe ritenere, al contrario, che sia questo interesse ad alimentare l’esigenza di un porno audiovisivo alternativo, declinato maggiormente al femminile.

D’altro canto, recuperando alcune perplessità di Verza, viene da domandarsi se sia in effetti opportuno continuare a chiamare pornografiche tutte le varianti della commistione di finzione cinematografica e atti sessuali reali messe in luce dai porn studies. Ha senso, ad esempio, continuare a parlare di pornografia riguardo alla rinuncia alla «costante retorica»[56] per eccellenza del money shot messa in atto dal Manifesto del Puzzy Power[57] o dai film post-femministi di Becht, ma anche proposta da un porn scholar di primo piano come Peter Lehman che mira a ‘depenizzare’ il porno di massa?[58] Di fronte a queste diverse istanze, che possono essere anche lette come un invito a una rappresentazione più realistica,[59] ci si può chiedere – volgendo la domanda ai porn scholar – se non sarebbe il caso di parlare di una più generica sessografia, restringendo l’uso di pornografia alle produzioni costruite secondo i codificati topoi del porno di massa fallocentrico, in cui «l’orgasmo […] è insomma verificabile solamente se maschile»[60] e la rappresentazione della donna rimane nell’ambito di una funzione degradata.

La pornocritica espansa

Volutamente, nei paragrafi precedenti, ho evitato di predisporre una definizione propedeutica della pornografia e del porno di massa perché quello che metodologicamente mi interessava mettere a fuoco era la convocazione induttiva della teoria dall’orizzonte dell’etica, e viceversa: come dall’interno stesso delle questioni sollevate emergesse l’esigenza di un approccio culturale alla comunicazione pornografica, articolato in una teorizzazione che copra le varie aree della produzione, della ricezione, del codice e così via, senza rinunciare ad affrontare le problematiche morali e politiche. Si tratta di vedere, adesso, se questa duplice movenza della pornocritica può avere una qualche funzione di modello metodologico nell’ambito della letteratura comparata.

Un primo ambito di comunicazione è costituito dalla critica tematica, di cui forniscono più di una prova brillante vari saggi contenuti in alcune miscellanee dedicate prevalentemente alla pornografia letteraria uscite negli ultimi anni: Esibire il nascosto. Testi e immagini dell’osceno, numero monografico dell’«Immagine riflessa» (2005), Pornografia. Contro il potere della morte a cura di Fabio Bazzani (2007) e soprattutto Carne tremula. Letteratura, erotismo, pornografia a cura di Nicola Catelli, Giulio Iacoli e Paolo Rinoldi (2010), nella quale è più evidente quella che si potrebbe definire la soglia pornocritica. Al di là delle varie sezioni sottotematiche, si avverte infatti che mentre alcuni saggi rimangono al di qua di tale soglia affrontando l’argomento con un’ottica puramente letteraria, altri si spingono oltre i confini della disciplina per abbracciare una prospettiva in cui più stringentemente la tematica e l’approccio culturale procedono di pari passo. È il caso, ad esempio, di Gian Maria Annovi che studia le mitografie falliche di alcuni autori novecenteschi, di Marco Bazzocchi che si occupa di Pasolini con un taglio interdisciplinare o di Giulio Iacoli che pone le basi per un’indagine sul romanzo di formazione gay a partire dal topos del cinema a luci rosse. A questi studi si può affiancare anche il recentissimo lavoro di Massimo Fusillo Feticci. Letteratura, cinema, arti visive (2012) nel quale programmatico è il proposito di studiare, attraverso un approccio culturale, il feticismo non come una perversione messa in scena dalla letteratura e dall’arte, ma come un aspetto creativo dell’immaginario che può riusare topoi dell’erotismo e anche della pornografia.

Un secondo ambito potrebbe essere un’indagine sull’appartenenza del porno di massa al carnevalesco, inteso nel senso di modo di organizzazione dell’immaginario, come suggerirebbero il rovesciamento gola-vagina di Gola profonda e, nel filone più giocoso, alcuni titoli evidentemente parodistici, come quelli nominati da Francesca Serafini – Arma rettale, Il portiere di gnocche, T’ano da morire solo per citarne alcuni –, ma come soprattutto spingerebbe a fare il codificato protagonismo degli organi genitali rispetto al volto, per quanto siano poi da valutare i limiti di una volgarità il più delle volte meramente goliardica e pruriginosa. Maggiormente fertile di conseguenze mi sembra, però, una terza possibilità, sintomatica delle più impreviste contaminazioni del nostro presente e legata a quella metafora pornografica che costituisce un’ulteriore forma del porno espanso:

È dunque lo spettacolo della realtà, dei «teatri privati» militari così come civili, catturata in modo istituzionale (con telecamere, siano queste aperte, a circuito chiuso o a infrarossi) oppure surrettizio, quasi in forma di peep-show, a inquadrare la nostra mediasfera come un palinsesto dell’osceno, d’esposizione compulsiva di quanto il buon gusto vorrebbe rilegato al privato, al pudore, al silenzio.[61]

Nel saggio da cui è tratta questa citazione, contenuto nel citato Carne tremula, l’anglista Fabio Cleto prende in esame gli usi e abusi della metafora pornografica a proposito delle immagini di devastazioni belliche, morte e sevizie da cui siamo bombardati dall’inizio del conflitto mediorientale successivo all’attacco alle Twin Towers, tra le quali spiccano le foto delle torture da parte dei soldati e soldatesse americani nella prigione di Abu Ghirab nel 2004. Al di là però delle sue singole applicazioni, come quella, assai frequente, riguardo all’uso sfacciatamente ipersessuale del corpo femminile nei mass media, la metafora fornisce una complessiva indicazione metodologica per la relazione tra pornocritica e studi letterari nel momento in cui invita alla necessità di uno sguardo interdisciplinare e comparativo:

Il tema della pornografia, da noi [in Italia] tanto pavidamente evitato, costituisce, infatti, un eccezionale banco di prova pratico e concreto per la solidità di molte impalcature teorico-sociali: dalla politica del riconoscimento alle affermative actions, dalla questione dei contorni del principio di uguaglianza a quelli della libertà di espressione, dal principio del danno di Mill alle interpretazioni liberistiche della open society di Popper, ed oltre. Il necessario incrocio del tema della pornografia con tutte queste tematiche rivela, infatti, la sua preziosa qualità di concetto connettivo nel quale si riflette tutta la sua rilevanza etica, morale e politica.[62]

Si potrebbero aggiungere anche altre branche del sapere come, in primis, la filosofia del linguaggio a proposito degli atti del discorso di Austen e, in particolare, degli atti performativi, per non parlare della psicologia, della sociologia o dell’economia. Quello che è però importante rimarcare è che promuovere un approccio interdisciplinare non significa che non si possa parlare di pornografia se non ci si immerge nella contemporaneità, ma che coglierne in una dimensione culturale il connettivismo può suggerire, più in generale, una possibile via di rivitalizzazione degli studi letterari. Quando sul risvolto di copertina di Pornosofia si legge «Che ci fanno Emmanuel Lévinas e Slavoj Žižek, maestri del pensiero contemporaneo, accanto a Rocco Siffredi e Moana Pozzi, protagonisti di ben altre imprese?»,[63] si tratta senz’altro di un messaggio ammiccante che vuole invitare l’hesitating purchaser del caso ad acquistare il volume; tuttavia, esso ci segnala anche un’altra cosa: una sfida ermeneutica in cui la commistione di alto e basso assume un valore persino carnevalesco nell’indicare la necessità di un’apertura reale sul mondo da parte della critica, che non si limiti a una militanza inter nos fatta di dibattiti destinati a non fuoriuscire dalla cerchia e dagli argomenti dei soliti noti. Un’apertura reale è tale, infatti, nella misura in cui, interrogandoli e criticandoli, si fa carico anche degli aspetti meno nobili e legittimati dell’immaginario e, in ciò, esercita le sue motivazioni etico-politiche, di serio confronto con le modalità discorsive e rappresentative di una società. La si può descrivere anche come una tensione a rimotivare quanto nel 1974 Calvino scriveva in calce all’Estetica dell’osceno di Almansi:

Ora, mettere l’osceno al centro d’una meditazione estetica dovrebbe equivalere – dico io – a cambiare il rapporto dell’osceno con tutto il resto, a dissolvere l’aura di indecenza e complicità che l’ipocrisia gli ha accumulato intorno, insomma a negarlo come osceno e ridargli piena cittadinanza nel mondo dell’esprimibile, con la dignità che gli spetta per diritto di natura e che è ben altra.[64]

A mio avviso, questo invito va letto non nel senso di una legittimazione dell’osceno solo perché se ne parla, oppure di una rapida messa in parallelo della funzione della pornografia con l’idea che, per la sua qualità di generare un caos emotivo con la rappresentazione del male, «forse l’arte è un’attività squisitamente masturbatoria»,[65] come afferma Almansi al termine del suo volume con un entusiasmo senz’altro figlio della golden age dello sperimentalismo critico, oltre che letterario, degli anni Sessanta e Settanta. Piuttosto, in un permanente stato di allerta nei confronti delle generalizzazioni troppo a portata di mano, si tratta di volgere le parole di Calvino a una contrattazione, oltre che estetica, etica: se ci si limita a confinare – rimuovere – la pornografia – sia nel suo valore letterale di forma culturale che in quello traslato di metafora della contemporaneità – nei territori dell’indecente, non si fa che mantenere un atteggiamento di capziosa complicità travestito da etica. Per mettere invece in atto un significativo tentativo etico di rivitalizzazione degli studi letterari – perché poi di questo si tratta, di una militanza che serva a far sopravvivere una disciplina di cui la stragrande maggioranza delle persone, comprese quelle che leggono, semplicemente ignora l’esistenza –, si deve fare uno sforzo di comprensione di ciò che sta out there per intervenire con contromisure non tanto censorie quanto culturali.


1 Ringrazio Giovanna Maina per la sua gentilissima disponibilità e Linda Colasanto per alcuni preziosi suggerimenti.

2P. Adamo, Il porno di massa. Percorsi dell’hard contemporaneo, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2004, pp. XI-XII.

3 Dall’omonimo duetto di Serge Gainsbourg e Jane Birkin.

4P. Adamo, Il porno di massa, cit., p. 7.

5 F. Zecca, Per una storia della pornografia americana, in E. Biasin, G. Maina, F. Zecca (a cura di), Il porno espanso. Dal cinema ai nuovi media, Milano-Udine, Mimesis, 2011, p. 54.

6 P. Adamo, Il porno di massa, cit., p. 19.

7 Ivi, p. 9.

8 Ivi, p. 38.

9 Così la femminista canadese Shulamith Firestone, citata in P. Adamo, Il porno di massa, cit., p. 188.

10 «[…] l’emancipazione femminile diviene un mero portato della cultura consumista piuttosto che uno strumento di redistribuzione del potere tra i sessi» (S. Maddison, Le mitologie pornografiche e i limiti del piacere. Max Hardcore e il porno estremo, in E. Biasin, G. Maina, F. Zecca (a cura di), Il porno espanso, cit., pp. 115-116).

11 M. Foucault, La volontà di sapere [1976], trad. it. di Franco Ferrucci, Milano, Feltrinelli, 1997, p. 8.

12 E. Biasin, G. Maina, F. Zecca, Introduzione, in E. Biasin, G. Maina, F. Zecca (a cura di), Il porno espanso, cit., p. 9.

13 Ivi, pp. 9-10.

14 D. Scarfoglio, Le forme lacerate. Fenomenologia e semantica dell’osceno, in Esibire il nascosto. Testi e immagini dell’osceno, «L’immagine riflessa», n. s., XIV, 1-2, gennaio-dicembre, 2005, p. 8.

15 O. Becht, Porno manifesto. Storia di una passione proibita [2002], trad. it. di L. Paoli, Milano, Dalai, 2003, p. 43.

16 D.F. Wallace, Il figlio grosso e rosso [1998], in Id. Considera l’aragosta, trad. it. di A. Cioni, M. Colombo, Torino, Einaudi, 2006, p. 30.

17 Ibidem.

18 Utilizzo qui il termine di Greimas in un senso volutamente ironico.

19 O. Becht, Porno manifesto, cit., p. 52.

20 R. Carvelli, La comunità porno. La scena hard italiana in presa diretta, Roma, Coniglio Editore, 2004, p. 85.

21 Ivi, p. 84.

22 O. Becht, Porno manifesto, cit., p. 34.

23 R. Carvelli, La comunità porno, cit., p. 84.

24P. Adamo, Il porno di massa, cit., p. XIV.

25 S. Regazzoni, Pornosofia. Filosofia del pop porno, Milano, Ponte alle Grazie, 2010, p. 103.

26 Ivi, p. 146.

27 Ibidem.

28 Ivi, p. 148.

29 Ivi, pp. 134-137.

30 P. Adamo, Il porno di massa, cit., p. XIV.

31 S. Regazzoni, Pornosofia, cit., p. 124.

32 Ivi, p. 118.

33 Il termine indicava negli anni Settanta il supporto intellettuale alla prima ondata di film porno; più recentemente è stato utilizzato per indicare il processo di penetrazione della pornografia nel mainstream culturale, ad esempio dal ricercatore inglese Brian Mac Nair nel suo saggio Porno? Chic! (2002).

34 S. Maddison, Le mitologie pornografiche, cit., p. 123.

35 D.F. Wallace, Il figlio grosso e rosso, cit., p. 18.

36 Ibidem.

37 F. Serafini, Post/fazione. Le parole che mancano, in R. Carvelli, La comunità porno, cit., p. 219. Zecca ricorda come a metà degli anni Ottanta, con la vittoria del videotape, è praticamente scomparsa la figura dello sceneggiatore (p. 55).

38 S. Regazzoni, Pornosofia, cit., p. 144.

39 M. Marzano, La fine del desiderio. Riflessioni sulla pornografia [2003], Milano, Mondadori, 2012, p. 3.

40 Ivi, p. 9.

41 Ivi, p. 170.

42 Ivi, p. 23.

43 «E fa ragion ch’io ti sia sempre allato, / se più avvien che fortuna t’accoglia / dove sien genti in simigliante piato: / ché voler ciò udire è bassa voglia» (Inferno, XXX, vv. 144-148).

44 Citato in D.F. Wallace, Il figlio grosso e rosso, cit., p. 20.

45 A. Verza, Il dominio pornografico, Napoli, Liguori, 2006, pp. 100-101.

46 Ivi, p. 106.

47 Ivi, p. 4.

48 Ivi, p. 5.

49 G. Maina, Piaceri identitari e (porno)subculture, in E. Biasin, G. Maina, F. Zecca (a cura di), Il porno espanso, cit., p. 207.

50 Essendo «necessariamente elemento centrale nello studio di materiale volto a colpire la sensibilità, non avrebbe alcun senso escluderlo dall’analisi di un tipo di materiale che è studiato e costruito proprio per creare cortocircuiti emozionali: l’analisi pacata porterebbe, infatti, alla perdita di un cospicuo residuo di senso» (A. Verza, Il dominio pornografico, cit., p. 15).

51 Ivi, p. 44.

52 Ivi, p. 49.

53 Ivi, p. 16.

54 Ivi, p. 17.

55 Ivi, p. 28.

56 E Biasin, G. Maina, F. Zecca, Introduzione, in E. Biasin, G. Maina, F. Zecca (a cura di), Il porno espanso, cit., p. 15.

57 Puzzy Power è stata una casa cinematografica, costola della Zentropa di Lars Von Trier, nata negli anni Novanta con l’obiettivo di produrre film pornografici per donne secondo il programma dello Statement on women and sensuality.

58 Cfr. P. Lehman, Postfazione, in E. Biasin, G. Maina, F. Zecca (a cura di), Il porno espanso, cit., pp. 461-474.

59 «E soprattutto, la cosa migliore, l’eiaculazione avviene all’interno! Che progresso nel mondo del porno! Come nella vita privata i personaggi si lasciano andare al piacere del coito» (O. Becht, Porno manifesto, cit., p. 88).

60 R. Menarini, Sex d’essai. Fenomenologia della trasgressione nelle sequenze pornografiche del cinema d’autore, in E. Biasin, G. Maina, F. Zecca (a cura di), Il porno espanso, cit., p. 316.

61 F. Cleto, Private, Inc. Spettri dell’osceno, in N. Catelli, G. Iacoli, P. Rinoldi (a cura di), Verba tremula. Letteratura, erotismo, pornografia, Bologna, Bononia University Press, 2010, p. 240.

62 A. Verza, Il dominio pornografico, cit., p. 3.

63 S. Regazzoni, Pornosofia, cit., risvolto di copertina.

64 Italo Calvino in calce a G. Almansi, L’estetica dell’osceno, Torino, Einaudi, 1974, pp. 219-220.

65 Ivi, p. 211.