Tra presente e passato: alcune considerazioni sui ‘quadri d’argento’ di Giosetta Fioroni*

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Tra il 1960 e i primi anni Settanta Giosetta Fioroni, artista legata alla Scuola di Piazza del Popolo, sperimenta l’uso dello smalto industriale colore argento dapprima, per realizzare opere monocrome in cui le valenze esistenziali attribuite dall’arte informale alla stesura pittorica vengono raffreddate, poi, dal 1963, per dipingere quadri basati sulla proiezione di immagini fotografiche, appartenenti ad ambiti diversi: la réclame, la storia dell’arte, il vissuto personale e familiare, le fiabe di magia, la storia del fascismo e, infine, i paesaggi del Veneto. Si tratta di opere dotate di una temporalità complessa, in cui, grazie al carattere evocativo e allusivo del colore argento che richiama il baluginio delle lastre specchianti dei dagherrotipi, le immagini del presente vengono trasfigurate e riportate a una dimensione temporale altra. Il saggio si concentra su questa importante fase dell’opera di Fioroni al fine di porre in luce i tratti peculiari e i momenti di snodo della serie dei 'quadri d’argento', letta alla luce del contesto artistico romano degli anni Sessanta e in particolare delle coeve ricerche della Pop Art e della Scuola di Piazza del Popolo. Lo scritto analizza anche la varietà delle fonti visive dell’artista, che si riferiscono alla fotografia, al cinema, alla letteratura, alla storia, all’antropologia e al folclore. 

Between 1960 and the early 1970s Giosetta Fioroni, an artist linked to the Scuola di Piazza del Popolo, experiments with silver industrial enamel. At first she paints monochrome works in which the existential values that the informel attributes to the brushwork are almost obliterated; then, from 1963 onwards, she paints works based on photographs pertaining to very different fields: advertising, art history, personal and family experiences, magic tales, the history of fascism and, finally, the landscapes of the Veneto. These works have a complex temporality: thanks to the evocative and allusive character of silver, which recalls the glimmer of the mirror plates of daguerreotypes, contemporary images are transfigured and given another temporal dimension. This paper focuses on this important phase of the work of Fioroni: it analyzes the peculiar aspects and the most important episodes of the series of ‘silver paintings’, puts them into the context of the art of the Sixties in Rome and, especially, it compares the “silver paintings” with contemporary Pop Art and Scuola di Piazza del Popolo artworks. The paper analyzes also the coexistence of different sources in Fioroni’s works: photography, film, literature, history, anthropology and folklore.

La tua maniera di togliere invece di aggiungere, di dare importanza al vuoto invece che al pieno, di definire attraverso l’assenza invece che attraverso la presenza, ti introduce senza che tu te ne accorga nella compagnia dei pittori e dei poeti giapponesi, maestri nel farci vedere ciò che non c’è.[1]

Così Alberto Moravia commenta l’opera di Giosetta Fioroni Il ristorante Baffone (1970), esposta nella personale alla galleria Il Naviglio di Milano nel 1971, cogliendone il carattere rarefatto ed essenziale. L’opera appartiene al ciclo dei Paesaggi d’argento presentato l’anno precedente nella mostra Laguna, tenutasi nel novembre del 1970 alla galleria La Tartaruga di Roma, centro nevralgico della vicenda artistica della Scuola di Piazza del Popolo: la serie è costituita da un gruppo di disegni a matita su carta, lumeggiati con rapide pennellate di smalto colore argento, raffiguranti paesaggi, scorci e architetture di Venezia e della campagna veneta, luogo d’origine di Goffredo Parise, compagno dell’artista per oltre vent’anni. La resa topografica di queste opere, in cui è viva la memoria del vedutismo veneto del XVIII secolo (i precedenti della serie sono stati spesso indicati nei dipinti di Guardi e Bellotto), è trasfigurata dall’uso della vernice argentata, stesa con pochi e agili tocchi che illuminano i profili e l’ossatura degli edifici, rendendoli evanescenti e quasi spettrali. L’aspetto metafisico dei Paesaggi d’argento è accentuato dall’allestimento progettato per la mostra, dove i disegni – tutti della stessa dimensione (100x70 cm.) – sono appesi alla parete a distanza ravvicinata l’uno dall’altro, formando una sequenza ininterrotta, al culmine della quale è collocata l’opera da cui trae origine il titolo della mostra, Laguna: si tratta di un «quadro di luce»[2] realizzato proiettando su una tela dipinta di bianco la silhouette di una veduta di Venezia.

 Giosetta Fioroni, Laguna, 1970

In questo lavoro, parente prossimo delle lanterne magiche e dei diorami di una volta, il fascio luminoso ha una qualità impermanente che plasma le forme e nel contempo le smaterializza. Laguna e i Paesaggi d’argento sono l’ultimo episodio di un percorso avviato circa dieci anni prima, all’inizio dei Sessanta, quando l’artista inizia a ricoprire la superficie del quadro con lo smalto colore argento, proponendo opere monocrome il cui aspetto enigmatico e neometafisico sembra evocare reminiscenze del passato: su questa importante fase dell’opera di Fioroni si concentra il presente scritto, che intende analizzare i tratti peculiari e i momenti di snodo della serie dei cosiddetti ‘quadri d’argento’, letta alla luce del fervido ambiente artistico e culturale romano degli anni Sessanta.[3]

1. Oltre l’Informale

Le prime esperienze di Fioroni maturano nell’ambito dell’arte informale: l’artista ha sin dall’inizio il sostegno di Toti Scialoja, di cui dal 1953 segue i corsi all’Accademia di Belle Arti di Roma, e può contare sull’avallo di Emilio Vedova, che nel 1957 introduce la sua prima mostra personale alla galleria Montenapoleone di Milano. Intorno al 1960, come molti artisti della sua generazione, Fioroni s’interroga sulle strade da intraprendere per uscire dallo stallo in cui versano le ricerche pittoriche del decennio appena trascorso, caratterizzate da un eccesso di individualismo e di effusione interiore. In questo frangente l’artista realizza un piccolo gruppo di quadri monocromi dipinti con lo smalto all’alluminio, in cui è possibile scorgere l’influsso di Yves Klein, del quale Fioroni – a Parigi dal 1959 al 1963 – ha modo di conoscere e apprezzare il lavoro. Questi dipinti condividono la stessa sensibilità espressa dalle opere della nuova generazione di artisti romani, in particolare Mario Schifano, Tano Festa, Francesco Lo Savio, Giuseppe Uncini e Franco Angeli che, tra il 1959 e il 1960, si rifanno alla materia di Alberto Burri, raffreddandone tuttavia le valenze esistenziali e arrivando a proporre superfici monocrome, o quasi.

 Giosetta Fioroni, Senza titolo, 1961

Analogamente Fioroni, in opere come Il segreto in azione o Senza titolo (esposta nella doppia personale Bignardi Fioroni, tenutasi nel marzo del 1961 alla Tartaruga), propone quadri dipinti uniformemente con lo smalto colore argento, entro i quali l’artista traccia un rettangolo che ‘reinquadra’ l’opera, come duplicandola, con un effetto di mise en abîme non dissimile a quello dei primissimi Achrome di Piero Manzoni (ad esempio quello esposto alla Galleria Pater di Milano nel 1958) o di alcuni quadri monocromi realizzati all’inizio degli anni Sessanta da Schifano. L’uso della vernice argentata conferisce tuttavia a queste opere un carattere più nostalgico e allusivo: «La porporina», scrive l’artista nel 1961, «è una materia antica e umile e, per di più, riesce a dare quella luce desolata di cui avevo bisogno».[4] Vi sono, dunque, in queste opere una reminiscenza del passato e una qualità esistenziale che, per certi aspetti, ricordano l’uso dei pigmenti dorati sperimentato dallo stesso Burri (il quale, tra l’altro, nel 1963, insieme a Scialoja, aiuta Fioroni ad allestire la mostra personale alla Galerie Breteau di Parigi). Diversamente da Burri, tuttavia, Fioroni stende lo smalto argentato in modo da coprire la superficie per intero, simulando una lastra specchiante. Dello specchio, però, i monocromi di Fioroni non hanno la proprietà riflettente: essi infatti non inglobano la realtà esterna come i ‘quadri specchianti’ di Michelangelo Pistoletto, ma hanno un effetto coprente (benché vibrante) più vicino ad alcune opere di Tano Festa di poco successive, come ad esempio Lo specchio (1963)[5] o La sala degli specchi (1963).

Tra il 1961 e il 1963 sul fondo argentato (talvolta dorato) Fioroni introduce immagini di lampadine, cuori, labbra rosse, scritte e numeri stampigliati, giustapposti a graffi, macchie e colature di smalto: opere come Galeon o Interno familiare, la seconda esposta alla mostra 13 pittori a Roma, tenutasi nel febbraio del 1963 sempre alla galleria La Tartaruga, esprimono l’interesse dell’artista, da un lato, per l’opera di Gastone Novelli e Cy Twombly (stabilitosi a Roma dal 1957), dall’altro, per l’iconografia del quotidiano e dell’ordinario che caratterizza i lavori di Jasper Johns (esposti in Italia alla Biennale di Venezia del 1958 e l’anno successivo alla galleria Il Naviglio di Milano).

2. Visioni fotografiche

Il 1963 è per Fioroni un momento di svolta: lo smalto argento – fin qui concepito come schermo monocromo o campo su cui accumulare segni e immagini – viene ora usato per dipingere figure tratte da rotocalchi e pubblicità, che l’artista proietta sulla tela per poi tracciarne il profilo a matita. In queste opere Fioroni stabilisce un diverso legame con la realtà contemporanea, volto a esprimere i repentini mutamenti nella percezione del mondo introdotti dai nuovi strumenti ottici e tecnologici e dalla proliferazione di immagini mediatiche. La scelta di Fioroni di attingere all’iconografia della réclame e di ricorrere alla mediazione della fotografia si inserisce entro un più vasto orizzonte di ricerca che, con declinazioni differenti, coinvolge anche gli altri artisti della Scuola di Piazza del Popolo. Cesare Vivaldi è tra i primi a sottolineare tale aspetto: nello scritto ‘La giovane scuola di Roma’, pubblicato su Il Verri nel dicembre del 1963, il critico rileva come l’uso della fotografia sia il tratto distintivo e «il minimo comune denominatore»[6] dei giovani pittori romani. Secondo Vivaldi, infatti, artisti come Fioroni, Umberto Bignardi, Tano Festa, Jannis Kounellis, Sergio Lombardo, Mario Schifano, Cesare Tacchi e Franco Angeli[7] propongono un rapporto con la realtà diverso da quello delle generazioni precedenti e accomunato da una visione frammentaria del mondo, filtrata attraverso il medium fotografico:

Lo sguardo dei nuovi artisti è oggettivo e insieme antinaturalistico, spietato e nitido, senza espressionismo, senza soggettivismi e senza sbavature sentimentali […], “mediato” attraverso il più apparentemente freddo e impassibile degli strumenti ottici, l’obbiettivo fotografico […]. Vedere oggetti persone paesaggi per il tramite della fotografia, significa “ricostruire” mentalmente quei dati naturali che non è più possibile percepire a occhio nudo.[8]

I ‘quadri d’argento’ di Fioroni hanno un legame duplice con la fotografia: da un lato, lo si è appena detto, l’artista usa immagini fotografiche prelevate dall’universo mass-mediatico – dotate quindi di una storia e una circolazione pubbliche –, dall’altro, come ha rilevato all’epoca Alberto Boatto, lo smalto argentato allude alla superficie specchiante degli antichi dagherrotipi,[9] i quali, una volta impressionati dalla luce, custodiscono l’immagine del passato. I bagliori d’argento delle opere di Fioroni richiamano infatti il baluginio delle lastre di rame argentato usate agli albori della fotografia e, come queste ultime, sembrano avere il potere quasi magico di fare affiorare immagini e memorie appartenute a epoche lontane. In questo senso, dunque, le opere di Fioroni hanno una temporalità complessa: le icone della contemporaneità vengono trasfigurate e riportate a una dimensione temporale ‘altra’, come se le immagini del presente, rese impalpabili ed eteree dalla vernice argentata, trattenessero il ricordo di un’epoca remota: «L’argento», scrive l’artista, «è memoria, recupero e sospensione di tempi differenti».[10] Il rapporto con il passato e il ricordo, insieme alla «simpatia artigianale»[11] con cui Fioroni elabora le immagini belle e pronte prelevate dall’universo mediatico, segna un distacco profondo dalla pratica seriale e spersonalizzata di Andy Warhol, con cui pure l’artista all’epoca viene posta in relazione.

Warhol ‒ scrive Vittorio Rubiu nel 1966 ‒ fa uno uso specialistico, tecnico e al tempo stesso critico della fotografia […]; mentre la Fioroni vede la fotografia con l’occhio sensibile del pittore, e soffermandosi sugli spazi vuoti che le sue contro-immagini mentali lasciano dietro di sé, sembra volerli riempire con una sfumatura di sentimento.[12]

Dai ‘quadri d’argento’ emerge, infatti, una sensibilità pittorica raffinata, in cui il colore, prezioso e allusivo, è steso in modo tale che il tocco del pennello e spesso anche il disegno sottostante restino visibili. Benché attinga a un repertorio di immagini preesistenti, Fioroni non rinuncia a una presa soggettiva sulla realtà, stabilendo «un rapporto affettuoso col dipingere»,[13] attraverso il quale restituire una visione del mondo che esprima la dimensione dell’interiorità, della memoria e dell’emozione. Questo atteggiamento la avvicina alla sperimentazione pittorica di Schifano, per il quale l’uso di segni e simboli prelevati dall’universo pubblicitario e dalle immagini della metropoli contemporanea non comporta la rinuncia a uno sguardo personale sulle cose. Boatto è tra i primi, nel 1965, a individuare proprio nella natura soggettiva dell’arte Pop italiana e più in generale europea una differenza sostanziale rispetto alla corrente sviluppatasi negli Stati Uniti:

Nel caso del Pop americano si potrebbe dire che l’oggetto domini e che il soggetto sia trattato con sospetto. Nel caso del Pop europeo, tuttavia, è l’oggetto astratto dall’universo tecnologico che entra nel dominio del soggetto […]. Al posto del duro isolamento degli oggetti alla maniera degli americani, gli oggetti sono giustapposti, accostati, per cui si può sempre cogliere un commento, un significato personale esplicito.[14]

3. Immagini au ralenti

I ‘quadri d’argento’ vengono presentati in occasione della mostra collettiva Angeli, Bignardi, Festa, Fioroni, Kounellis, Lombardo, Mambor, Tacchi, tenutasi alla Tartaruga nel marzo del 1964: da alcune fotografie (inedite) dell’allestimento della mostra, sappiamo che l’artista presentò due opere, raffiguranti, l’una, una ragazza di profilo con le gambe nude, l’altra, un bambino ritratto di spalle; quest’ultimo soggetto, legato a memorie infantili, tornerà più volte nelle opere di Fioroni nel corso del decennio: si tratta di un bambino raffigurato da solo entro una grande superficie bianca. Benché ci volga le spalle, lo immaginiamo mentre guarda assorto lo spazio vuoto dinnanzi a lui, immerso nella dimensione mitica e fiabesca in cui l’adulto proietta i ricordi dell’infanzia.

Foto dell’allestimento della mostra Angeli, Bignardi, Festa, Fioroni, Kounellis, Lombardo, Mambor, Tacchi, Galleria La Tartaruga, Roma, marzo del 1964Foto dell’allestimento della mostra Angeli, Bignardi, Festa, Fioroni, Kounellis, Lombardo, Mambor, Tacchi, Galleria La Tartaruga, Roma, marzo del 1964

Alla nuova serie appartengono anche i lavori presentati nel giugno del 1964 alla XXXII Biennale di Venezia, insieme ai dipinti, tra gli altri, di Angeli, Schifano, Festa e Titina Maselli: Fioroni espone quattro opere (oggi distrutte) intitolate L’immagine del silenzio I, II, III e IV, in ognuna delle quali si ripete la stessa silhouette femminile dipinta con lo smalto argentato, ma con gradazioni e toni diversi, scelti affinché il contrasto tra figura e fondo si faccia via via più netto. In un’intervista con Maurizio Calvesi pubblicata nel settembre del 1964 su Marcatré Fioroni racconta di aver concepito l’opera come una narrazione cinematografica: «A me interessava una cosa molto semplice, una certa narrazione legata ad una immagine cinematografica, che si ripete».[15] Lo sviluppo ‘filmico’ che caratterizza la sequenza anima anche l’allestimento progettato in occasione della prima mostra personale dedicata ai ‘quadri d’argento’, inaugurata il 30 gennaio del 1965 alla Tartaruga: in questa occasione, infatti, l’artista appende sulla stessa parete, a distanza ravvicinata, tre opere dipinte con lo smalto all’alluminio, appartenenti al ciclo Ragazza TV (1964), raffiguranti il medesimo soggetto femminile; l’artista usa lo stesso criterio per allestire anche un’altra parete della galleria, dove espone in sequenza tre dipinti della serie Liberty (1964).

 Veduta della mostra Giosetta Fioroni, galleria La Tartaruga, Roma, gennaio 1965

Benché tra le opere in mostra vi siano alcune differenze relative alle dimensioni, all’impaginazione delle figure e, in un caso, anche al colore,[16] il modo in cui sono disposte nello spazio suggerisce una relazione di sequenzialità e continuità tra di esse. Una struttura fondata sulla sequenza è alla base anche di alcuni dipinti realizzati nello stesso 1964, ad esempio Particolare di un volto, esposto anch’esso nella personale alla Tartaruga: in questo caso, nella medesima opera, l’artista scandisce la superficie mediante sei riquadri distinti, creando una narrazione frammentaria, composta dall’alternanza di primi, primissimi piani e blow-up di un volto femminile tratti da foto pubblicitarie. Un aspetto siffatto chiede al pubblico uno sguardo mobile, pronto a spostarsi da un riquadro all’altro. Nel recensire la mostra alla Tartaruga, Rubiu sottolinea l’effetto straniante prodotto dalla modalità ‘cinematografica’ con cui Fioroni progetta le opere:

Ciò che soprattutto persuade nella pittura della Fioroni (Galleria La Tartaruga) per altri versi così esangue, anemica, è un certo modo di girare au ralenti le sue sequenze di istantanee, sino ad estraniarle in una sorta di distaccata presenza dall’evento in cui si rispecchiano.[17]

L’effetto ‘al rallentatore’ presente nelle opere esposte alla Tartaruga si accentua in modo considerevole nei disegni pubblicati nel marzo del 1965 sulla rivista diretta da Leonardo Sinisgalli La botte e il violino, insieme al testo Tutt’a un tratto una ragazza di Nanni Balestrini.[18]

 Tutt’a un tratto una ragazza, disegno di Giosetta Fioroni e testo di Nanni Balestrini, in La botte e il violino, marzo 1965

Quest’ultimo ‒ esponente di punta dei Novissimi e del Gruppo 63 ‒ aveva già collaborato con Fioroni in occasione della mostra personale alla Tartaruga, dedicandole il testo Una quartina per Giosetta.[19] Sulle pagine de La botte e il violino la collaborazione si fa più stretta: in questo caso, infatti, Balestrini e Fioroni realizzano un iconotesto, in cui la relazione tra immagini e scrittura è dialettica e si situa su un piano di reciprocità e interdipendenza. Al montaggio di brani estrapolati da romanzi di consumo, pratica che Balestrini sperimenterà in modo più esteso con Tristano[20] (la cui copertina, nel 1966, è illustrata proprio da un’opera di Fioroni), l’artista giustappone una serie di disegni a matita e smalto colore argento raffiguranti soggetti femminili. La prima delle tre pagine che compongono l’iconotesto è suddivisa in otto riquadri dagli angoli stondati: all’interno dei quattro quadrati collocati nella parte superiore del foglio compare l’immagine frammentaria di una Ragazza TV (serie già proposta alla Tartaruga), mentre in quelli situati in basso è inserito, specularmente, lo scritto di Balestrini. Nelle pagine seguenti la relazione tra testo e immagine segue un andamento meno regolare, ma ugualmente frammentario. Nei disegni di Fioroni, infatti, l’interesse per il particolare e l’ingrandimento fotografico è predominante: la stessa immagine di donna ritorna più volte ripresa da angolazioni diverse e inquadrata all’interno di frame, con un effetto che ricorda quello di una sequenza di fotogrammi. Nell’introduzione alla personale tenutasi presso la Galleria del Cavallino di Venezia (7-18 aprile 1965), Gillo Dorfles scrive:

Il ripetersi, talvolta insistente, d’una stessa figura, d’una silhouette, ora ingrandita ora rimpicciolita, ora sovrapposta, poi sfumante nel nulla come una dissolvenza cinematografica, ha davvero l’efficacia d’un’apparizione ectoplasmatica di cui percepiamo l’impalpabile presenza […] e questo procedimento permette a Giosetta di raggiungere (in alcune opere recenti) uno scardinamento e una dilatazione spaziale ben diversa da quelle ottenute attraverso effetti meccanici e tale da trasferire lo spettatore entro un’ambigua dimensione dove l’immagine ora si trasforma in arabesco, ora ridiventa vitale presenza e racconto.[21]

Secondo il critico, quindi, nelle opere esposte la reiterazione di una stessa immagine non suggerisce una scansione meccanica, ma, grazie all’uso dello smalto argentato, contribuisce a produrre un effetto di smaterializzazione.

In una foto che documenta l’allestimento della mostra al Cavallino,[22] l’artista è ritratta in piedi con le braccia incrociate vicino all’opera Fascino: si tratta di un quadro dipinto con gli smalti di colore bianco e argento, dove il volto di una donna ripresa di profilo è scomposto secondo una sequenza di linee verticali che spezzano l’unità della figura, frammentandola e conferendole il dinamismo innaturale tipico delle immagini prodotte meccanicamente.

 Giosetta Fioroni vicino all’opera Fascino durante l’allestimento della mostra personale alla Galleria del Cavallino, Venezia, aprile 1965

La struttura dell’opera ricorda infatti gli esperimenti cronofotografici e il precinema ottocenteschi, ma ha un modello più diretto in una réclame: Fioroni riprende l’immagine pubblicitaria realizzata all’inizio degli anni Sessanta dal talentuoso graphic designer Bert Steinhauser insieme al fotografo (poi anche regista) Jerry Schatzberg per la ditta statunitense Clairol Cosmetic.

 Pubblicità della Clairol Cosmetic, primi anni Sessanta

Questa immagine, all’epoca, è la fonte anche di un gruppo di dipinti di Umberto Bignardi, artista con cui Fioroni nel 1961 aveva esposto in coppia alla Tartaruga. Benché entrambi ripropongano la scomposizione della figura presente nella pubblicità, le differenze nella stesura pittorica e nella scelta cromatica sono considerevoli: in Clairol n. 3 Bignardi dipinge il volto della donna ritratto in sequenza con colori via via differenti, mettendo in risalto un particolare ogni volta diverso (la bocca, gli occhi, la mano); l’uso dello smalto colore argento nell’opera di Fioroni produce invece un effetto straniante ed enigmatico, che evidenzia un legame con la pittura metafisica (aspetto, quest’ultimo, più volte rilevato dalla critica e dall’artista stessa). Si definisce quindi una distanza rispetto alle tinte squillanti e ai contrasti accesi propri della grafica pubblicitaria e tipici di molte opere della Pop Art americana, a cui il dipinto di Bignardi è più vicino.

4. Il confronto con la tradizione

Insieme a Fascino nella mostra alla Galleria del Cavallino sono esposti alcuni dipinti in cui Fioroni si appropria di iconografie tratte dai capolavori della pittura rinascimentale, come la Nascita di Venere di Botticelli, che l’artista reinterpreta attraverso l’uso del colore argento, la scomposizione o la ripetizione delle figure. Opere come Da Botticelli, Nascita di una Venere Op, Le cortigiane di Carpaccio, Simonetta Vespucci, realizzate da Fioroni tra il 1965 e il 1966, sono indicative di una più vasta tendenza di ricerca caratteristica dell’ambiente romano e in particolare degli artisti della Scuola di Piazza del Popolo, per i quali il legame con la tradizione della storia dell’arte occidentale, dagli Antichi Maestri all’avanguardia, è nevralgico. Gli esempi che si potrebbero fare sono molteplici: dalla serie del Futurismo rivisitato di Schifano, alle numerose citazioni della Cappella Sistina di Michelangelo, del Ritratto dei coniugi Arnolfini di Jan Van Eyck e delle Odalische di Ingres presenti nei dipinti di Festa, dall’Uomo Vitruviano scolpito in legno da Mario Ceroli, alla Primavera di Botticelli realizzata da Cesare Tacchi con l’uso di stoffe floreali imbottite. In queste opere la storia dell’arte è concepita come un deposito di immagini belle e pronte, tratte spesso dalle grandi illustrazioni a colori riprodotte in collane editoriali ad alta tiratura come I maestri del colore dei Fratelli Fabbri.[23] Le figure dei quadri del passato sono rilette dagli artisti di Piazza del Popolo come se fossero «un fatto di cronaca»:[24] nei dipinti di Fioroni, in particolare, i personaggi femminili tratti dall’arte rinascimentale e assurti a emblemi universali di bellezza e grazia (come la Venere di Botticelli), non sono distanti dalle immagini di donne contemporanee protagoniste di film e pubblicità.

 Giosetta Fioroni, Nascita di una Venere Op, 1965

Tra i modelli di bellezza del passato e quelli del presente non c’è soluzione di continuità: Fioroni, infatti, li rende omogenei usando lo stesso procedimento pittorico, basato sulla stesura dello smalto argentato, e il medesimo gioco di ripetizioni, raddoppiamenti e ingrandimenti. La stratificazione di presente e passato e l’effetto straniante da essa scaturito sono al cuore di queste opere, come emerge anche dalle affermazioni espresse dall’artista nel 1966:

Simonetta Vespucci (di Piero di Cosimo) è una ragazza di profilo con un’immensa capigliatura. Nel mio quadro l’immagine si ripete più volte: i capelli di Simonetta diventano simili alle grosse parrucche di riccioli usate oggi dalle ragazze ai balli […]. “Dalla nascita di Venere” di Botticelli: il quadro che ne traggo è centrato sullo “svolazzio” dei capelli di Venere mossi dal vento, in un tremore ottico (Op) di linee e segmenti, fino a dissolversi completamente come in una sequenza cinematografica. E le mie Cortigiane di Carpaccio sono quattro, e tendono a ripetersi all’infinito, con tanti cani a righe, pallini, segmentati […]. I colori industriali riportano a un senso “magico” d’attesa che è anche in Carpaccio ma la cortigiana e gli oggetti moltiplicati, sembrano stupefatti aspettare Godot.[25]

Il rapporto con il passato è centrale anche nei ritratti di amiche e collezioniste che l’artista realizza in questi anni, ad esempio quelli eseguiti alla metà del decennio per Talitha Getty e Rossana Tofanelli (quest’ultimo esposto al Cavallino nel 1965),[26] dove i soggetti sono ritratti secondo le pose canoniche dei nudi femminili del Rinascimento. Anche in queste opere le figure dipinte con l’argento vengono ripetute più volte al fine di creare un articolato gioco di riflessioni e rifrazioni che accentua l’aspetto lineare e arabescato della composizione, evocando le atmosfere preziose e seducenti dei ritratti femminili di Gustav Klimt e della Secessione viennese.

5. Dalle icone contemporanee alle fiabe di magia

Gli anni tra il 1967 e il 1969 sono per Fioroni un periodo di grande sperimentazione e di apertura verso pratiche artistiche eterodosse e ambiti espressivi nuovi: l’artista disegna i costumi per la Carmen di Bizet diretta da Alberto Arbasino al Teatro Comunale di Bologna (1967); realizza una serie di brevi film con la partecipazione di amici e colleghi, tra cui Pino Pascali e Umberto Bignardi; partecipa alla rassegna Teatro delle Mostre (maggio 1968) con l’installazione-evento La spia ottica,[27] in cui gli spettatori sono sollecitati a guardare, uno per volta, attraverso uno spioncino l’attrice Giuliana Calandra che abita per un giorno la stanza da letto dell’artista, trasferita appositamente negli spazi della galleria; tiene la mostra Caduta della parete (dicembre del 1968), curata da Achille Bonito Oliva alla Galleria Modern Agency di Napoli, diretta da Lucio Amelio, dove i quadri sono collocati in terra invece che sulle pareti e sono visibili attraverso una lente; espone per la prima volta un Teatrino nella mostra Oh!! quante belle figlie madama doré alla galleria Il Naviglio di Milano (aprile 1969). In questo periodo l’artista esplora dunque modalità espositive alternative a quelle tradizionali, basate su soluzioni che pongono l’accento sugli aspetti voyeuristici connaturati alla fruizione dell’opera, e allarga il suo campo di azione originario a pratiche artistiche di carattere impermanente, legate all’esperienza in fieri. Parallelamente, tuttavia, l’artista continua a dipingere; e in effetti anche opere come La spia ottica, che eccedono i confini dei generi artistici canonici, mantengono forti legami con la tradizione pittorica, primo fra tutti l’adozione della visione monoculare tipica della prospettiva rinascimentale. Benché La spia ottica si fondi su gesti e azioni eseguite da un’attrice-performer, la modalità di fruizione pensata dall’artista fa sì che l’opera abbia una frontalità più vicina a quella di un tableau vivant, che non a una performance propriamente detta. Per comprendere la centralità della pittura nell’arte di Fioroni – aspetto, quest’ultimo, in controtendenza rispetto al fenomeno di smaterializzazione dell’opera e fuoriuscita dal quadro che domina la scena dell’arte mondiale nella seconda metà degli anni Sessanta (dall’Arte Povera, alla Conceptual Art alla Land Art) – è utile ricordare la risposta data dall’artista a Plinio De Martiis nel dialogo pubblicato nel dicembre del 1968 sul bollettino Made in in occasione della mostra Caduta della parete a Napoli, menzionata poc’anzi. Quando De Martiis le domanda in modo provocatorio come si possa continuare a dipingere, Fioroni replica:

Voglio risponderti che a me un quadro piace farlo anche se diventa un’azione sempre più privata, se sento che non è più possibile appenderlo alla parete, non si sa bene a cosa serve, ai critici non piace, la gente si circonda di carta, tu lo trovi “indisponente”... che vuol dire “irritante” […]. Lo vedo come documento individuale: non oggetto in un mondo dominato dagli oggetti. Come non-oggetto, in questo periodo, mi interessa anche molto una specie di “quadro visivo” qualcosa che ha il tempo variabile e incerto dell’apparizione.[28]

Benché dunque tra il 1967 e il 1969 Fioroni esplori strade diverse dalla pittura, l’artista continua a lavorare sui ‘quadri d’argento’, affrontando temi e soggetti nuovi: al 1969 risalgono infatti sia la serie sulla fiaba, esposta alla galleria Il Punto di Torino nel giugno del 1970, sia quella dedicata alle immagini del fascismo, presentata inizialmente alla Prima rassegna biennale delle gallerie di tendenza italiane a Modena nell’ottobre del 1969 e, subito dopo, nel marzo del 1970, alla galleria L’Indiano a Firenze. Come un Giano bifronte Fioroni in questo momento rivolge lo sguardo simultaneamente al presente e al passato, affiancando al prelievo delle icone della modernità, immagini tratte da fiabe, le cui origini si perdono nel tempo, o dalla storia del ventennio fascista. Nel gruppo di dipinti dedicato alle fiabe, di cui fanno parte opere come La guardiana d’oche, Rosaspina e Tremotino, Fioroni riprende le illustrazioni tratte da un’edizione degli anni Trenta del libro dei fratelli Grimm Cinquanta novelle per i bambini e le famiglie pubblicato da Ulrico Hoepli e illustrato con sedici tavole a colori. La serie è il punto d’avvio per le ricerche sul folklore e la magia che Fioroni svilupperà nei decenni successivi, sino a oggi, e si lega alle letture che in quel momento più la appassionano: al suo interesse per la fiaba contribuiscono infatti la conoscenza de il Il ramo d’oro. Studio sulla magia e la religione (1890) di James Frazer e, in misura anche maggiore, la lettura degli studi sulla fiaba di Vladimir Propp ed Eleazar M. Meletinskij.[29] In particolare la Morfologia della fiaba (1928) di Propp – in cui l’autore individua gli elementi costanti delle fiabe di magia – è un riferimento culturale importante per gli artisti e gli intellettuali italiani attivi negli anni Sessanta, interessati allo strutturalismo: il saggio viene tradotto in Italia da Einaudi nel 1966, a seguito del grande successo della prima traduzione inglese uscita nel 1958 e del forte interesse manifestato da studiosi illustri, in primis l’antropologo Claude Lévi-Strauss.

6. Di fronte alla storia

Il ventennio fascista è invece il soggetto di opere come Obbedienza, Contemplazione del “capo”, Atleti o Marcia su Roma (dipinte tutte nel 1969), in cui l’artista fa i conti con una fase drammatica del nostro Paese, adottando una visione soggettiva che muove dalla sua esperienza personale:

Questi quadri che espongo […] ‒ scrive Fioroni nella brochure della mostra alla galleria L’Indiano (marzo 1970) ‒ sorgono da un’idea non “neo figurativa”, bensì figurativa tout court di una visita da me compiuta non soltanto all’interno di me stessa, ma all’interno di me stessa dopo la giornaliera visita della società in cui vivo.[30]

Le immagini del fascismo vengono interpretate da Fioroni come metafora della storia contemporanea, della quale l’artista avverte i risvolti più cupi:

La partenza alla visita interiore sono state alcune immagini dei primi anni del fascismo. La coincidenza (figurativa) con la visita esterna nella nostra società, sono volti, vestiti e mode e soprattutto sentimenti che si aggirano, spesso fantasmi del consumo, del “remake” funebre intorno a noi[31].

La mostra alla galleria dell’Indiano (marzo 1970) si apre a pochi mesi di distanza dalla strage di Piazza Fontana a Milano (12 dicembre 1969), a cui seguono altri atti terroristici che insanguineranno l’Italia per più di un decennio. L’atteggiamento dell’artista di fronte alla situazione politica dell’epoca è lontano dall’euforia che caratterizzava, appena un anno prima, le serie Compagni compagni o Souvenir, realizzate da Schifano e Angeli, in cui un tripudio di bandiere rosse celebrava le spinte libertarie e contestatrici del ’68: i dipinti di Fioroni funzionano invece come un monito contro gli effetti generati dal «sonno della ragione».[32] Del resto, lo sguardo che Fioroni – unica donna legata alla Scuola di Piazza del Popolo – rivolge alla storia e alla politica diverge in modo considerevole da quello dei colleghi maschi. Se si confrontano, ad esempio, le sue opere con i Gesti tipici realizzati da Sergio Lombardo dal 1963 le differenze sono lampanti: benché, infatti, entrambi usino un procedimento basato sulla proiezione e il ricalco pittorico di immagini fotografiche, l’interesse di Lombardo è rivolto alla gestualità incombente e stereotipata degli uomini politici – J.F. Kennedy, Mao Tze Tung, Charles De Gaulle – e si traduce in un’indagine sull’iconografia del potere, all’epoca declinata tutta al maschile, e sulle forme di assuefazione che queste immagini producono sul riguardante. Diversamente Fioroni, anche quando rappresenta i segni del potere, privilegia scene e personaggi ai margini della storia ufficiale, come nei casi della donna che guarda con occhi adoranti Mussolini, raffigurata in Contemplazione del “capo”, o della figura femminile irrigidita nel saluto fascista ritratta in Obbedienza.

 Brochure della mostra Giosetta Fioroni, galleria L’Indiano, Firenze, marzo 1970

Il 1970 segna uno spartiacque nel lavoro di Fioroni: come si è visto in apertura, nelle opere esposte in occasione della mostra Laguna la figura umana perde la centralità avuta sin lì e la presenza dell’uomo viene appena suggerita ed evocata attraverso i segni e le tracce lasciati dal suo passaggio nel mondo. Dopo avere rappresentato per oltre un lustro le icone della comunicazione mass-mediatica e avere rivisitato i capolavori della tradizione pittorica occidentale alla luce dei cambiamenti introdotti dagli strumenti tecnologici della modernità (fotografia e cinema), Fioroni compie ora un viaggio sentimentale attraverso luoghi ed edifici di un Veneto incantato. Ancora una volta è la memoria il cuore pulsante di queste opere, perché, in fondo, come ha scritto Parise: «Giosetta Fioroni, cercando la sua infanzia perduta, dipinge sempre lo stesso quadro come si diceva del gran maître francese della recherche».[33]

 

*desidero ringraziare Giosetta Fioroni per il sostegno nella ricerca e Claudio Zambianchi per i consigli preziosi.


1 A. Moravia, ‘Il ristorante baffone dove si ode il canto dell’usignolo notturno’, catalogo della mostra galleria Il Naviglio, Milano 1971, ora in A. Boatto, A. Carancini, A. Sauzeau (a cura di), Giosetta Fioroni, Ravenna, Essegi, 1990, p. 142.

2 Fioroni usa l’espressione Quadri di luce come titolo di un disegno a china su carta in cui sono raffigurate le sagome metalliche usate per la proiezione di Laguna alla Tartaruga e alla galleria il Naviglio di Milano; il disegno è pubblicato in G. Celant, Giosetta Fioroni, Milano, Skira, 2009, p. 196.

3 Un arco cronologico quasi uguale, dal 1957 al 1971, è stato scelto per la mostra, ancora in corso, Giosetta Fioroni. Anni ’60, a cura di E. Bottazzi, P. Mascitti, M. Meneguzzo, Catanzaro, Museo Marca, 4 giugno-31 agosto 2016.

4 G. Fioroni, dichiarazione pubblicata nell’articolo ‘Perché la porporina’, L’Espresso, 19 marzo 1961, p. 21.

5 Per sottolineare questa vicinanza nella mostra Roma Pop City 1960-1967, inaugurata al Museo Macro di Roma il 12 luglio 2016, il monocromo di Fioroni Senza titolo è stato esposto accanto a Lo specchio di Festa.

6 C. Vivaldi, ‘La giovane scuola di Roma’, Dopo l’Informale, Il Verri, fascicolo speciale, 12, 1963, pp. 103-104.

7 Benché Angeli in questo periodo non usi la fotografia, Vivaldi sottolinea come l’artista senta il bisogno di «allontanare da sé l’immagine» attraverso l’impiego del velo, con un effetto di «fotografia leggermente sfuocata», ivi, p. 105.

8 Ivi, p. 104.

9 A. Boatto, ‘Dialogo con Alberto Boatto’, in A. Boatto, A. Carancini, A. Sauzeau (a cura di), Giosetta Fioroni, p. 11.

10 G. Fioroni, in M. Mussio (a cura di), Giosetta Fioroni, Macerata, La Nuova Foglio Editrice, 1976, p. 43.

11 Ibidem.

12 V. Rubiu, ‘Fioroni, Ceroli, Tacchi’, Marcatré, 19-22, aprile 1966, p. 315.

13 A. Boatto, ‘Dialogo con Alberto Boatto’, p. 15.

14 A. Boatto, ‘Manhattan Dada e Pop’, Marcatré, 11-13, febbraio 1965, ora in C. Gilman, ‘Giosetta Fioroni in mostra’, in G. Fioroni (a cura di), Giosetta Fioroni. My Story-La mia storia, Mantova, Corraini, 2013, p. 8.

15 G. Fioroni, ‘Intervista con i Pittori’, a cura di M. Calvesi, Marcatré, 8-10, luglio-settembre 1964, p. 235.

16 I quadri esposti alla Tartaruga sono tutti colore argento, tranne uno, appartenente alla serie Liberty, dipinto con lo smalto rosso-arancio.

17 V. Rubiu, ‘Giosetta Fioroni’, Il punto, 6 febbraio 1965, p. 19.

18 N. Balestrini, ‘Tutt’a un tratto una ragazza’, La botte e il violino, 2, marzo 1965, pp. 57-59.

19 N. Balestrini, ‘Una quartina per Giosetta’, Catalogo 2, Roma, Galleria La Tartaruga, 1965.

20 N. Balestrini, Tristano, Milano, Feltrinelli, 1966.

21 G. Dorfles, ‘Giosetta Fioroni’, in Catalogo della mostra Galleria Del Cavallino, Venezia, 7-16 luglio 1965.

22 La foto è pubblicata in E. Bottazzi, P. Mascitti, M. Meneguzzo (a cura di), Giosetta Fioroni. Anni ’60, p. 177.

23 Recensendo l’opera di Tacchi, Rubiu sostiene ad esempio che le immagini dei capolavori del passato della serie degli ‘imbottiti’ abbiano il carattere fittizio di riproduzioni tratte «dall’ultimo numero dei Fratelli Fabbri» (V. Rubiu, ‘La realtà imbalsamata di Cesare Tacchi’, Catalogo 3, Galleria La Tartaruga, Roma, giugno 1966, s.p.)

24 G. Fioroni, dichiarazione pubblicata in A. Arbasino, ‘L’aeroporto intercontinentale della pittura’, Il Giorno, 26 gennaio 1966, p. 7.

25 Ibidem.

26 Rossana Tofanelli sarà la protagonista del film La solitudine femminile girato da Fioroni nel 1967.

27 Per un’analisi dell’opera si rimanda al saggio di Cristina Casero pubblicato in questo numero di Arabeschi.

28 G. Fioroni, ‘Dialogo tra Plinio de Martiis e Giosetta Fioroni’, Made in, dicembre 1968.

29 Su quest’aspetto si veda F. Pirani, ‘“Al centro del mio cuore” tempo e spazio nel percorso artistico di Giosetta Fioroni’, in D. Lancioni, F. Pirani (a cura di), La beltà. Giosetta Fioroni Opere dal 1963 al 2003, Roma, Viviani Arte, 2003, pp. 19-25.

30 G. Fioroni, catalogo della mostra Giosetta Fioroni, Galleria L’Indiano, Firenze, 7 marzo 1970. Il testo è ripreso da una lettera a Lucio Amelio, datata 10 agosto 1969, pubblicata in Prima rassegna biennale delle gallerie di tendenza italiane, catalogo della mostra Galleria della Sala Comunale di Cultura, Modena, 4 ottobre-27 novembre 1969.

31 Ibidem.

32 Ibidem.

33 G. Parise, ‘Alla ricerca dell’infanzia perduta. La pittrice “rosa”’, Bolaffi Arte, 48, marzo-aprile 1975, p. 48.