Trans, ovvero come lo spazio identitario diventa paesaggio. Analisi transmediale di Princesa

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L’opera, ascrivibile al fenomeno della letteratura della migrazione in lingua italiana nata negli anni Novanta, è una storia di migrazione e di identità sessuale al confine, ed è genesi transmediale di ulteriori produzioni artistiche. Porre in evidenza la struttura narrativa del romanzo, la presenza di un narratore ibrido, nascosto dietro l'alternanza della prima e della terza persona, la coloritura della lingua ‘abitata’ che segue il generarsi di una scissione identitaria, la presenza di personaggi appartenenti ad abbozzate microtrame che disegnano una mappa del dolore di corpi non più costretti a silenziare identità, tutto ciò serve da una parte a ricollocare il romanzo alla giusta distanza dalle opere che ha generato, dall’altra – e soprattutto – a rintracciare il filo narrativo che disegna la sovraesposizione dell’accettazione identitaria alla luce abbagliante di un corpo transgender. L’opera, ascrivibile al fenomeno della letteratura della migrazione in lingua italiana nata negli anni Novanta, è una storia di migrazione e di identità sessuale al confine, ed è genesi transmediale di ulteriori produzioni artistiche. Porre in evidenza la struttura narrativa del romanzo, la presenza di un narratore ibrido, nascosto dietro l'alternanza della prima e della terza persona, la coloritura della lingua ‘abitata’ che segue il generarsi di una scissione identitaria, la presenza di personaggi appartenenti ad abbozzate microtrame che disegnano una mappa del dolore di corpi non più costretti a silenziare identità, tutto ciò serve da una parte a ricollocare il romanzo alla giusta distanza dalle opere che ha generato, dall’altra – e soprattutto – a rintracciare il filo narrativo che disegna la sovraesposizione dell’accettazione identitaria alla luce abbagliante di un corpo transgender. 

The essay focuses on the need to measure the boundary between documentary autobiography and autobiographical fiction in the novel Princesa (1994), starting from the analysis of its complex genesis, which sees the author Fernanda Farias de Albuquerque in connection with the journalist Maurizio Iannelli, through the mediation of correspondence books with a third figure. The work, ascribable to the phenomenon of Migration Italian Literature in the nineties, is a story of migration and sexual identity on the border, and is the transmedia genesis of further artistic productions. To highlight the narrative structure of the novel, the presence of a hybrid narrator hidden behind the alternation of the first and third person, the coloring of the ‘inhabited’ language that follows the generation of an identity split, the presence of characters belonging to sketched little plots that draw a map of the pain of bodies no longer forced to silence identity, all this serves on one hand to relocate the novel to the right equidistance from the works it generated, on the other – and above all – to trace the narrative thread that draws the overexposure of identity acceptance to the dazzling light of a transgender body.

 

 

1. Premessa

Si prenda in prestito dalla tecnica fotografica il meccanismo della sovraesposizione della pellicola. Com’è noto, quando in fotografia si sovraespone, le tendine dell’otturatore scorrono più lentamente facendo arrivare più luce sulla pellicola per ottenere maggiori dettagli nelle ombre e colori più densi. Ma se si è avventati e imprecisi, la sovraesposizione ha l’effetto rischioso di ‘bruciare’ la foto rendendo vano il tentativo di fermare un’immagine e consegnarla a chi la guarda. Ecco, sembra che della vita e della scrittura di Fernanda Farias de Albuquerque si sia fatto questo: una sovraesposizione per arricchire dettagli e colori che ha rischiato – rischia – di bruciare la consistenza della sua figura. Rischio che forse corrono Maurizio Jannelli, co-autore (?) del romanzo Princesa insieme alla protagonista Fernanda (Sensibili alle foglie, 1994), Stefano Consiglio, autore del documentario Le strade di Princesa (1997), Henrique Goldman, regista del film Princesa (2001) e, in parte, Fabrizio De Andrè che a due anni dalla pubblicazione del romanzo compone la canzone Prinçesa (contenuta nell’album Anime salve, 1996).[1] È importante capire però i motivi che orientano il giudizio critico verso l’uso di una sovraesposizione non pienamente consapevole.

La fotografia di Fernando/Fernanda/Princesa, per rimanere nella nostra metafora, è bruciata non per gli occhi di chi vuole leggere la storia della vita dell’autrice-protagonista e della sua triplice identità soltanto come un’opera di autofiction, Fernando/Fernanda/Princesa, perché il lettore viene messo nella condizione di sapere che si trova dentro un processo di finzionalità, sia nel romanzo, sia nelle altre derivazioni artistiche che da quello hanno preso le mosse, a costruire concrezioni di significato; lo scatto è bruciato agli occhi di chi percepisce che la storia di Princesa ci introduce a uno spazio culturale che, così come ci viene consegnato, rischia di essere refrattario alla possibilità di una lettura non asfittica della trans e del personaggio Princesa. Questa al contrario, anzi, può essere considerata e letta secondo una prospettiva queer se debitamente spogliata dagli agglutinamenti delle produzioni artistiche.

Fernanda Farias de Albuquerque

Andiamo con ordine e partiamo dall’inizio. Anche se l’ipotesi che qui si prova a dimostrare è resa possibile partendo cronologicamente dalla fine, grazie al fatto che vent’anni dopo la pubblicazione di Princesa è stato realizzato, ad opera dei due studiosi Ugo Fracassa e Anna Proto Pisani, Princesa20, ovvero un’edizione digitale del romanzo in cui è possibile accedere alla riproduzione anastatica di una parte dei manoscritti di Fernanda Farias e che si propone l’arduo obiettivo di «contribuire a ‘canonizzare’ all’interno della cultura italiana un’opera nata dall’oralità restituendola ad un contesto comunicativo non circoscritto nei confini tipografici, ma aperto su un orizzonte transmediale».[2] E i manoscritti che danno vita al romanzo suffragano la nostra ipotesi, essendo come la realtà prima di essere trasferita in immagine su una pellicola.

 

2. Un soggetto fluido ingabbiato

Il romanzo Princesa è stato sin da subito recepito come un’opera basculante tra l’autobiografia documentaria e la fiction autobiografica, generata da una relazione di coautorialità tra Fernanda Farias de Albuquerque e il giornalista ex-brigatista Maurizio Jannelli e costruita attraverso la mediazione di una terza figura, il pastore sardo Giovanni Tamponi che ha fisicamente trasportato la corrispondenza fatta di diari e fogli tra i due autori e compiuto una prima traduzione dell’italiano sfumato di portoghese di Fernanda nel suo italiano sfumato di sardo.

Copertina della prima edizione del romanzo

Sarà lo stesso Jannelli a riorganizzare i fogli e i diari di Fernanda e le trascrizioni di Tamponi dapprima nel dattiloscritto intitolato Princesa. Sono venuta di molto lontano,[3] che verrà poi elaborato, arricchitosi della sua personale corrispondenza con Fernanda, nella stesura definitiva del romanzo. Come un gioco di scatole cinesi ogni scrittura produce altra scrittura,[4] in cui è possibile riconoscere per la presenza del linguaggio ibrido tra italiano, portoghese e sardo dei due la coloritura di una lingua ‘abitata’, in quanto creazione di una personale semantica translinguistica.[5] Ad unire i tre singolari rabdomanti di storie è la detenzione inflitta per ragioni diverse che per Fernanda, transgender migrante di origine brasiliana, rappresenta un doppio sistema coercitivo: perché nel carcere di Rebibbia lei, transatlantica venuta in Italia per cercare lavoro, viene rinchiusa in una sezione speciale per trans nel carcere maschile, isolata dal resto del reparto e chiamata Fernando, lei transgender con un corpo costruito per assomigliare a quello di una donna. Determinata ad essere artefice della costruzione della sua identità geografica, linguistica e sessuale, Fernanda si ritrova al contrario scaraventata all'indietro, privata della libertà e non riconosciuta nella propria identità. Ma il romanzo non parla di questo, anzi, di quel carcere decide proprio di non parlare secondo un’esplicita volontà che pronuncia l’io narrativo nel finale:

Senza sforzo, nelle braccia del demonio, in Europa, ci si arriva a bassa voce, silenziosamente. Qui da voi, non si muore fragorosamente. Sparati o di coltello, tra urla e sforbiciate. Qui si sparisce zitti zitti in sottovoce. Silenziosamente. Sole e disperate. Di aids e di eroina. Oppure dentro una cella, impiccate a un lavandino. Come Celma, che vorrei ricordare. Dormiva nella cella a fianco, dentro quest'altro inferno dove ora vivo e che ho deciso di non raccontare.[6]

In questo finale sono racchiusi due elementi di lettura significativi del romanzo. Anzitutto, l’espressione deittica «qui da voi» è sintomatica per poter ascrivere il romanzo al fenomeno della letteratura della migrazione in lingua italiana nata negli anni Novanta, di cui Princesa viene considerata a buon diritto una delle prime opere. Rientra, in particolare, nella prima fase del fenomeno secondo la nota suddivisione fatta dal comparatista Gnisci, caratterizzata dalla produzione di testi scritti a quattro mani da autori migranti e scrittori o giornalisti italiani, relativi a resoconti di vita e a testimonianze improntati al racconto autobiografico e alla denuncia civile ma non sempre di grande pregio letterario.[7] Jannelli decide di mettere per iscritto la storia di Fernanda consapevole di rientrare appieno dentro il fenomeno; dopo il 1989, anno in cui l’assassinio di Jerry Masslo, immigrato clandestino sudafricano arriva alla ribalta mediatica, sono tante le opere simili a Princesa in cui la coautorialità diventa il principio organizzatore della materia letteraria: viene pubblicato nel 1990 Immigrato di Salah Methnani e Mario Fortunato e nel 1991 La promessa di Hamadi di Saidou Moussa Ba e Alessandro Micheletti, ma sono da considerare, per quanto i co-autori compaiano in copertina in veste di curatori, anche Io venditore di elefanti di Pap Khouma e Oreste Pivetta nel 1990, Dove lo stato non c’è. Racconti italiani di Tahar Ben Jelloun e Egi Volterrani nel 1991, Volevo diventare bianca di Nassera Chohra e Alessandra Atti di Sarro nel 1993 e altri ancora. In seguito, la produzione letteraria della migrazione in lingua italiana assumerà un riflesso diverso con produzioni autonome e un conseguente dibattito teorico alimentato anzitutto dagli stessi scrittori-migranti che tendono a prendere le distanze dai migranti-scrittori, secondo una distinzione teorizzata da Julio Monteiro Martins.[8]

L’operazione di Jannelli, nel suo standardizzare l'italiano di Fernanda dandogli una veste di racconto letterario, è dunque una costruzione babelica frutto di processi di mediazione linguistica e culturale, che è già di per sé una rappresentazione di secondo grado. Questo tratto implica un problema non solo di carattere linguistico ma anche di ricostruzione dell’esperienza ancor prima della sua rappresentazione. La vita di Fernanda, così come la leggiamo dai suoi manoscritti, assurge infatti al prototipo del soggetto nomade teorizzato dalla Braidotti:[9] Fernanda è un soggetto fluido, in divenire e in transito che cammina coi tacchi a spillo senza inciampare su crinali di spazi geografici, culturali e di identità sessuali. Jannelli invece la intrappola in un processo lineare che, come dimostra Anna Proto Pisani, mentre crea «lo spazio di una delle prime rappresentazioni di un soggetto trans» tratteggia, suo malgrado, «lo spazio della sua repressione, perché ha ridotto al silenzio alcuni tratti caratteristici della sua autorappresentazione».[10] Il dispositivo diegetico che utilizza Jannelli dà a Princesa valore letterario come raramente accade all’interno dello scenario della prima fase della letteratura della migrazione, perché media il mondo esperito attraverso la rappresentazione letteraria, filtrando e arricchendo peraltro la lettura della società e della cultura italiana agli occhi dei lettori italiani che di quella società e di quella cultura hanno un’esperienza diversa. Il racconto, invece, presenta la storia e il tragitto della vita di Fernanda come un movimento rettilineo che la porta dalla negazione del corpo maschile alla costruzione di un corpo femminile e da lì alla necessità di prostituirsi per guadagnare e poi alla decisione di migrare. Seppur lascia intravvedere al lettore la condizione di sospensione della figura, l’in-between space delineato da Homi Bhabha,[11] ne tradisce la capacità di sopraelevarsi su tale sospensione per abitarne tutti i movimenti. Quello che per Jannelli è motore letterario, per Fernanda è puro movimento.[12] Emblematica in tal senso è l’alternanza della prima e della terza persona che Jannelli adopera per rendere la complessità identitaria di Fernanda, soprattutto nei momenti di passaggio e trasformazione del suo corpo, assegnando l’‘io’ a Fernando e una allotria terza persona alla Fernanda che Fernando vede nascere ad ogni ormone preso, ad ogni iniezione di silicone; e poi al contrario la prima persona a Fernanda che si legge esteticamente donna e la terza persona al Fernando che resiste alla trasformazione, quasi a voler sottolineare una scissione dell’io, a tratti anche con una funzione morale che, come sempre dimostra la Proto Pisani, nei manoscritti non esiste, in Fernanda non esiste. L’io in quanto soggetto autobiografico è l'unica persona utilizzata nei diari, prima al maschile e poi al femminile quando il corpo è trasformato senza accennare mai alla scissione sofferta di cui ci racconta Jannelli, per rappresentare la quale, non è un caso, si serve ripetutamente dell'immagine dello specchio, topos letterario che rimanda al tema del doppio.[13] Per cui, ancora una volta, se il gioco del superamento occasionale dell’uso dell’io – che è invece una costante nella prima fase della letteratura della migrazione necessaria in quanto espressione di un soggetto, il migrante, in via di identificazione storica e dunque immesso nello stato di sospensione – consente di elevare la materia letteraria di Princesa permettendo uno sviluppo più chiaroscurato della fotografia, a uscirne bruciata è l’identità queer di Fernanda perché risulta legata a un'immagine di confusione identitaria di genere che non le appartiene, mentre per lei come per il soggetto migrante è necessaria al contrario la presenza dell'io che scrive in quanto soggetto in via di identificazione non solo storica e geografica ma anche sessuale. Ancora, sono invenzioni necessarie a Jannelli ma estranee a Fernanda la presenza martellante dell'appellativo «uomodonna» come espressione di insulto nei confronti di Fernanda durante la sua infanzia (presente anche una volta nella variante «maschio-e-femmina»); e poi il corpo e la sessualità narrate con una franchezza immaginifica lontana dal pudore reticente che attraversa invece le pagine manoscritte di Fernanda; lo sguardo secco, erotico e a tratti violento che attraversa ad apertura del romanzo i giochi di scoperta del sesso nell'infanzia, in cui Fernanda imita gli animali, che viene reso da Jannelli mediante la sostituzione lessicale significativa dell'originario verbo ‘fare finta’ col verbo ‘essere’: «ero la vacca» sostituisce l'ingenuo «facevo finta che ero la vacca» («fascevanos fitta chi eramos il gado, touro, vitello»; «fascendo la vaca»), che diventa ancora più assertivo nel testo della canzone di De Andrè in cui il tempo imperfetto si trasforma nel presente «sono la vacca» che crea una perdurante eco in tutte le successive fasi di vita del personaggio.

Si pensi anche, ad esempio, alla sostituzione di uno smalto indossato da bambino a scuola e ricordato da Fernanda «di colore della pelle» che diventa nel romanzo «rosa brillante» o alla raffigurazione del travestimento durante il Carnevale che assume sfumature culturali differenti narrate da un italiano anziché da una brasiliana. Chiaro che qui non si vuole contestare la singola scelta stilistica o lessicale della composizione del romanzo. Non si tratta di passare al vaglio le singole scelte di riscrittura o le ascendenze letterarie dello scrittore spesso dichiarate (molteplici sono i contesti in cui si può rinvenire l’influenza che il romanzo Grande Sertão: Veredas del brasiliano João Guimarães Rosa, tradotto in Italia nel 1970, ha avuto nell’elaborazione di Princesa); o ancora l’immagine ricorrente del diavolo disseminata tra le pagine del romanzo sotto forma di detti popolari, figure retoriche e metafore, creata ad arte come rivela nell’intervista a Carlo Conversi lo stesso Jannelli a partire dalla suggestione leggendaria della mancanza di natiche del demonio, ragione che spiegherebbe perché queste rappresentano una tentazione per l’essere umano. Nulla di tutto questo risulta sgradevole per il lettore, né tantomeno si teme che la verosimiglianza della materia venga inficiata dalla letteratura. Nemmeno quando Jannelli nel finale fa dire a Fernanda di aver deciso di non raccontare la sua vita in carcere, sebbene i diari di Fernanda comprendessero anche quel racconto e si protraessero oltre la chiusura stabilita da Jannelli e in fondo dichiarata rendendo esplicito che l'io che pronuncia le ultime parole del romanzo, «quest’altro inferno dove ora vivo e che ho deciso di non raccontare», è l’io di Jannelli e non di Princesa.[14] La questione è forse più culturale che letteraria: che figura crea – e dunque tramanda, come solo la letteratura sa fare – Jannelli? Quanto è frustrante il confinamento della dirompenza di un soggetto in grado di liberarsi dalle definizioni e di poter fluire dentro una libertà identitaria assoluta, quale è Fernanda? Quanto è depistante far dire a Fernanda, allorché gli uomini italiani la desiderano anche in quanto uomo, «lungo i marciapiedi di via Melchiorre Gioia, vicino alla stazione di corso Garibaldi, io non seppi più se ero maschio o femmina, donna o uomo. Furono loro, i milanesi della prima notte, a precipitarmi nella confusione»,[15] visto che Fernanda sa al contempo cosa volere, cosa desiderare e cosa fare senza avere l’esigenza di far coincidere sempre queste cose, anzi riconoscendo che non per forza sesso, genere, desiderio e pratica sessuale devono coincidere? Jannelli ingabbia Fernanda in Princesa (persino il nome Princesa dichiara Fernanda a un certo punto di non voler più utilizzare), perché non è la prospettiva transgender che interessa allo scrittore ma forse – senza voler entrare in un altro spazio culturale, che pure meriterebbe di essere fotografato – è piuttosto la violenza che vuole narrare Jannelli,[16] quella della polizia in primis, quella del mondo della droga e anche quella del rifiuto e del disprezzo nei confronti di un’immagine dei e delle trans che viene letta ambigua, senza rendersi conto però di non riuscire fino in fondo a svelarla quella ambiguità. L’unico modo possibile per raccontarla poteva essere quello suggerito dalla stessa Fernanda come disattesa in cui ogni scenario proprio per la sua ambiguità esplicita una possibilità dell’essere e proprio per questo una materia vera.

Per questo non riteniamo sia possibile, seguendo un certo filone critico, accettare la lettura secondo cui Princesa è un romanzo queer soltanto perché è un genere ibrido che annulla «l’identità monolitica autoriale della scrittura autobiografica»,[17] divenendo intersoggettivo in quanto sintesi di tre voci, o perché la figura di Fernanda è di per sé un soggetto plurimo perché in cerca di un’identità migrante e di genere o perché la lingua, seppur standardizzata, conserva traccia della primigenia commistione di idiomi. Tutto questo a nostro avviso non è sufficiente poiché è andata persa la potenza autobiografica della parola di Fernanda, il risultato che ne deriva è l’affresco di un panorama mentre Fernanda rappresenta con le sue scelte di vita un paesaggio, che a differenza del primo non è quello che si vede da un certo punto di vista ma è la costruzione di un luogo culturale a partire dalla relazione di più componenti: naturali, umane, identitarie.

In questo senso, l’unico momento in cui il romanzo Princesa diventa paesaggio nella sua complessità di interazioni è quando, in linea con l’obiettivo di Jannelli sopra enunciato, nel flusso del racconto vengono inseriti brevi frammenti che narrano momenti di vita e di morte soprattutto di altri e altre trans, quasi delle abbozzate microtrame che disegnano una mappa del dolore di corpi non più costretti a silenziare identità. Queste storie nel romanzo traggono origine dai dettagliati racconti presenti nella corrispondenza tra Fernanda e Jannelli. L’interruzione sincopata della narrazione del racconto cronologico, scrutando dimensioni e dinamiche che vanno oltre la vita di Fernanda, riesce qui a tracciare reti tra luoghi e sviluppo di identità che delineano l'abbozzo di un romanzo corale ancora da scrivere. Sono immagini violente e poetiche, per quanto confinate nella narrazione di vittime anziché di soggetti in libera costruzione, ma che restituiscono identità, nome e nuova soggettività.

 

3. La libertà del «passeggiare recidivo»

Il tentativo di rimpicciolire il paesaggio identitario di Fernanda emerge con ancora più forza nel film Princesa del brasiliano Goldman, costruito per ammissione dello stesso autore a partire dal romanzo e da una lunga frequentazione con Fernanda oltre che da una ricerca durata cinque anni con interviste a più di millecinquecento trans. E ciononostante il risultato è «una specie di Pretty woman col pisello», secondo la definizione datane dal regista.[18]

Si tratta ancora una volta di un semplice panorama con l’aggravante che la storia di finzione che ruota intorno alla vita di Princesa è rappresentata attraverso una performance eteronormata: Princesa, innamorata di un uomo, decide di non prostituirsi più e comincia a ‘fare’ la donna che ha desiderato essere, ovvero secondo il ruolo che l’eteronormatività ha attribuito al genere femminile attraverso un modello di ripetizione condivisa che il tempo rende invisibile e che modifica anche il nostro rapportarci con ciò verso cui tendiamo, così come ci ha dimostrato Butler.[19]

Locandina del film di Goldman

Il paesaggio originario di Fernanda nel film si spopola, si priva di ogni relazione che intercorre tra la costruzione di sé, gli altri e lo spazio. E non è possibile dire se la scena finale del film – dopo il tentato suicidio per l’impossibilità di essere come la donna incinta dell’ormai ex compagno che ha lasciato – riscatti la figura di Princesa che torna a prostituirsi e a girare per le strade di Milano con un cliente mentre guarda dal finestrino e ride sulle note del riarrangiamento di una malinconica Estate di Bruno Martino, in cui si racconta di un amore da cancellare. La stessa scena però potrebbe solo lasciar intravedere la possibilità di compiere un altro sogno da ‘Pretty woman’ sperando che stavolta funzioni. E a niente vale, a nostro avviso, affastellare nel film soggettive sui corpi (corpi in divisa, manichini nelle vetrine, corpi nascosti in costumi di animali, corpi in pose erotiche, corpo del Cristo affrescato, corpi mascherati) se poi alla performatività di Princesa non viene concessa via d’uscita oltre il binarismo eteronormato e le si chiede lo sforzo di attribuire un nome riconoscibile alle sue metamorfosi identitarie. Anche in questo caso avvertiamo il tradimento della figura di Fernanda, il cui cambio di genere ha rappresentato un mezzo di sovversione e non di adeguamento al ruolo.[20] Anche qui la sovraesposizione è troppo alta.

Non resta allora che chiudere con l’ultima fotografia: quella scattata da Fabrizio De Andrè. Del testo della sua canzone abbiamo la fortuna di conservare non soltanto i testi che presentano le varianti delle varie stesure ma anche un’intervista in cui l’autore ci racconta la genesi della sua opera. Scrive De Andrè:

quello che mi ha sorpreso del romanzo Princesa, la sua peculiarità, sta nel fatto che è la storia non solo di una, ma di molte metamorfosi e così ho stretto il testo della canzone intorno alle tappe fondamentali di queste mutazioni: quando lui si accorge fin da bambino di essere una lei; quando già adolescente decide di farsi cambiare il corpo; quando diventato finalmente donna adopera il suo desiderio ormai realizzato per prostituirlo a motivo di sopravvivenza; e poi, ultima metamorfosi, quando sul palcoscenico della strada incontra l’uomo della sua vita, un professionista che si innamora di lei elevandola, diciamo così, nella scala sociale. Forse era proprio questo il nocciolo del racconto: una sequenza di metamorfosi di un essere umano.[21]

Seguendo la distinzione che opera Elisa Arfini all’interno della rappresentazione del transgenderismo tra il fenomeno del ‘passing’ e quello del ‘crossing’, intendendo col primo un passaggio definito da un genere all'altro e col secondo la possibilità di attraversare, sostare e contenere – verrebbe quasi da dire in una sorta di superamento hegeliano – tutti gli stadi metamorfici,[22] anche qui De Andrè sembra tratteggiare una Fernanda che compie un percorso di ‘passing’ anziché di ‘crossing’ in una posizione statica e inevitabilmente binaria.[23] Dal modello, il romanzo Princesa, trae in particolare due elementi che vanno in questa direzione. Il primo ricorda la già citata scissione dell’io che diventa ancor più netta attraverso l’uso della terza persona sia per Fernando che per Fernanda: «perché Fernanda è proprio una figlia / come una figlia vuol far l’amore / ma Fernandino resiste e vomita / e si contorce dal dolore» e poi ancora «che Fernandino mi è morto in grembo / Fernanda è una bambola di seta» anche se riconosce entrambi come «le braci di un’unica stella / che squilla di luce di nome Princesa». L’altro elemento che deriva da Jannelli è il ricorrere all’immagine del ‘palcoscenico’ nel testo della canzone richiamato anche dalla figura della ‘stella’ («quando le macchine puntano i fari / sul palcoscenico della mia vita»), che da Jannelli è rafforzato dall’introduzione della parola ‘spettacolo’: termini che rimandano ad una esibizione del corpo motivata da De Andrè nell’intervista dal fatto che all’interno delle metamorfosi compiute da Fernanda «il pudore si trasforma in consapevolezza, la consapevolezza in orgoglio, l’orgoglio in spettacolo».[24] Questa dimensione emotiva e corporea è assente in Fernanda e non vi è traccia nei manoscritti, per quanto la ritroviamo in parte concretizzata nel documentario di Stefano Consiglio, Le strade di Princesa, dove Fernanda viene diretta non soltanto per esibire il suo corpo, cosa che probabilmente la gratifica, ma anche per parlare di sé recitando brani di un romanzo che Jannelli ha forgiato su di lei, un po’ come la bombadeira Severina aveva fatto col silicone sui suoi fianchi, traducendo se stessa come uno spettacolo intermediale e incarnando in prima persona la propria rappresentazione in un gioco di continui allontanamenti dalla sua complessa verità identitaria. Anche qui la foto sembra definitivamente bruciata, il soggetto queer liquefatto. Eppure, De Andrè compie due operazioni che sembrano essere in controtendenza.

La prima è quando nell’ultima quartina racconta dell'incontro con l’avvocato come l’ultimo stadio della storia di Fernanda (tenendo fuori quindi non soltanto il carcere ma anche la vicenda del tentato omicidio); nel tentativo di isolare questo frammento della storia come se fosse definitivo, mentre nella vita di Fernanda rappresenta solo una delle sue tante storie, De Andrè comprende un passaggio significativo che esplicita lavorando sul testo. La prima stesura della quartina, infatti, riporta: «a un avvocato di Milano / ora Princesa regala il cuore / e non è colpa di Princesa / se gli altri vendono il culo a ore», immaginando dunque che la metamorfosi finale di Fernanda sia una tappa statica che la riporta lontano dalla strada, ma già nella seconda stesura compaiono delle varianti per gli ultimi due versi: «a un avvocato di Milano / ora Princesa regala il cuore / e (con) una quieta (segreta) nostalgia / (quella di) vendere il culo a ore», come se il cantautore cominciasse a intravvedere la complessità delle scelte che Fernanda può compiere; infine, nella versione definitiva la quartina diventa: «a un avvocato di Milano / ora Princesa regala il cuore / e un passeggiare recidivo / nella penombra di un balcone», soluzione che permette a Fernanda di rimanere se stessa senza rientrare in una casella normata. Lei stessa dichiara: «A me succede sempre così, ogni volta lascio tutto e torno in strada».

In questo modo, la storia di Fernanda iniziata in un controverso ‘chiaroscuro’ si chiude in un’affine ‘penombra’ e alle sue molteplici identità, metamorfosi, culture, desideri, De Andrè – è questa la seconda operazione di rispettosa lettura di una identità – rende onore elencando nella lingua madre di Fernanda più di trenta parole riferite a oggetti o persone che appartengono a una delle dimensioni o identità o esperienze da lei vissute, tracciando così un paesaggio che trae origine dall'insieme delle costruzioni identitarie messe in relazione tra loro. «Quelle parole – dice De Andrè – vogliono rappresentare semplicemente i segni sulla pelle che porta un comune mortale dalla vita particolarmente difficile».

Lavorazione Princesa, Fondazione Fabrizio De Andrè

Questi due elementi ci sembrano rendere umani i tempi della sovraesposizione della fotografia scattata da De Andrè a Princesa ma soprattutto rendono umana Fernanda in quanto possibile, in quanto queer, fuori da ogni prigione e quindi proprio per questo in grado di modificare la percezione culturale dei suoi lettori.


1 Lasciamo fuori volutamente da questo elenco Carlo Conversi e il suo documentario Princesa. Incontri irregolari (1994), prodotto per la serie televisiva Storie Vere della Rai, per il suo carattere d'inchiesta volto a ricostruire l’origine del romanzo a partire dagli incontri tra Farias, Jannelli e Tamponi. Cfr. http://www.princesa20.it/conversi/ [accessed 26 gennaio 2020].

2 Cfr. <http://www.princesa20.it/progetto20/> [accessed 26 gennaio 2020].

3 Il dattiloscritto Princesa. Sono venuta di molto lontano è stato pubblicato per la prima volta in allegato alla tesi dottorale: A. Proto Pisani, Dans une autre langue. Écrire l’altérité: femmes, migrations et littérature en Italie (1994 – 2010), Doctorat d’Aix-Marseille Université, 2013.

4 Cfr. M. Jannelli, Brevi note di contesto, in F. Farias de Albuquerque, M. Jannelli, Princesa, Roma, Sensibili alle foglie, 1994, p. 7: «La sua scrittura produsse altra scrittura, la mia».

5 «Quando si crea un linguaggio secondo me si crea un mondo» ebbe a dire Jannelli a commento del linguaggio translinguistico di Tamponi e Farias nell'intervista Princesa. Incontri irregolari (vedi n.1). L’idea della lingua intesa come un luogo da abitare risale ad Heidegger, il quale sosteneva che «il linguaggio è la casa dell’essere. Nella sua dimora abita l’uomo» (M. Heidegger, Lettera sull’‘umanismo’ [1946], a cura di F. Volpi, Milano, Adelphi, 1995, p. 31), il che, come spiega Zagrebelsky, permette di dire che se «noi siamo nella casa, la lingua è ciò che ci consente gli scambi da dentro a fuori. Per intendere la lingua non dobbiamo solo ascoltare come risuonano gli scambi fuori, poiché mentre esce di casa essa porta con sé ciò che sta dentro» (G. Zagrebelsky, Sulla lingua del tempo presente, Torino, Einaudi, 2010, p. 17).

6 F. Farias de Albuquerque, M. Jannelli, Princesa, Milano, Marco Tropea Editore, 1997, p. 103.

7 Cfr. in particolare A. Gnisci, La Letteratura Italiana della Migrazione, Roma, Lilith, 1998; Id., Creoli meticci migranti clandestini e ribelli, Roma, Meltemi Editore, 1998 e Id., Nuovo Planetario Italiano, Troina, Città aperta, 2006.

8 Cfr. J. Monteiro Martins, Letteratura migrante/letteratura mondiale in L. Barile, D. Feroldi, A. Prete (a cura di), Scrittura e migrazione. Una sfida per la lingua italiana, Siena, Edizioni dell’Università di Siena, 2006, p. 41.

9 Cfr. R. Braidotti, Soggetto nomade. Femminismo e crisi della modernità, Roma, Donzelli, 1995.

10 A. Proto Pisani, Io sono un’altra: proposta e silenziamento della voce queer di Princesa, <http://www.princesa20.it/io-sono-unaltra-proposta-e-silenziamento-della-voce-queer-di-princesa/> [accessed 26 gennaio 2020].

11 Cfr. H. Bhabha, The Location of Culture, London, Routledge, 1994.

12 Si veda quanto sostiene P. Marcasciano, Trans, donne e femministe, coscienze divergenti e/o sincroniche, in T. Bertilotti (a cura di), Altri femminismi. Corpi Culture Lavoro, Roma, manifestolibri, 2006, p. 53.: «Un importante insegnamento dell’esperienza trans è proprio nel percorso, in quel passaggio che genera movimento e movimento nel movimento, nello sfalsamento di prospettiva che offre nuovi punti di vista, nell’esodo da un sesso all’altro, da un genere all’altro, in quel nomadismo che ci stacca dalle certezze e ci spinge a ricercare un nuovo punto, un nuovo mondo».

13 Uno dei rari brani in cui Farias parla di se stessa in terza persona è quando prende la decisione di diventare una prostituta: «Lo specchio svolge una funzione importante nel romanzo, sia in senso proprio che metaforico: è l’oggetto che rivela il soggetto a se stesso, sia all’inizio che nel seguito della narrazione, così come le immagini della scena e dello spettacolo lo rendono visibile agli altri. Lo specchio diventa anche la figura stessa del libro rispetto al manoscritto: la scrittura del romanzo come uno specchio riflette e rende manifesta quella del manoscritto, ma come uno specchio deformante si sovrappone a essa, cambiando la rappresentazione della soggettività transgender» (A. Proto Pisani, Io sono un’altra: proposta e silenziamento della voce queer di Princesa).

14 Cfr. U. Fracassa, “Le braci di un’unica stella”. Per l’edizione digitale di Princesa, <http://www.princesa20.it/la-fortuna-di-migrare-il-viaggio-transtestuale-di-princesa/> [accessed 26 gennaio 2020].

15 F. Farias de Albuquerque, M. Jannelli, Princesa, p. 84.

16 Forse per questo Faria parlando di Princesa dirà in un’intervista: «Come che è una scrittura bella, chi lo leggerà troverà un po’ di sentimento perché è una storia di realtà, una storia di vita transessuale ma anche di vita con tutta l’esperienza al mondo maschile, il fatto di come vive un transessuale in mezzo alla società, per affrontare le varie conseguenze che esistono […] con il problema che accade ai confronti di queste persone che sarebbe le persone del terzo sesso, o persone del terzo, diciamo, mondo» (F. Farias de Albuquerque, M. Jannelli, ‘La figura di una donna’, Caffè. Per una letteratura multiculturale, 1, settembre 1994, p. 4).

17 S. Campagnola, ‘«La disfatta dei generi»: Princesa, una contromemoria nomade e queer’, <http://rivisteclueb.it/riviste/index.php/scritture_migranti/article/view/27> [accessed 26 gennaio 2020].

18 A. Vlahou, ‘Henrique Goldman: Princesa, il sogno di una vita normale’, La Repubblica, 18 gennaio 2001, <http://trovacinema.repubblica.it/news/dettaglio/henrique-goldman-princesa-il-sogno-di-una-vita-normale/191105/> [accessed 26 gennaio 2020].

19 Cfr. S. Ahmed, ‘Interview with Judith Butler’, Sexualities, 19, 4, pp. 482-492, https://journals.sagepub.com/doi/10.1177/1363460716629607 [accessed 26 gennaio 2020].

20 Cfr. J. Butler, Corpi che contano. I limiti discorsivi del “Sesso”, Milano, Feltrinelli, 1993.

21 L’intervista è contenuta nel saggio di S. Moscadelli, ‘Prinçesa di Fabrizio De Andrè’, <http://www.princesa20.it/wp-content/uploads/2015/02/princesa-Moscadelli.pdf> [accessed 26 gennaio 2020].

22 Cfr. E. Arfini, Everybody's passing. Passing, Crossing e narrazioni trans in M. Inghilleri, E. Ruspini (a cura di), Transessualità e scienze sociali. Identità di genere nella postmodernità, Napoli, Liguori, 2007.

23 Cfr. ibidem.

24 Ibidem.