Umori dalla Biennale 2013. Ibsen con la camicia rossa e Shakespeare in déshabillé

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Ritornare a Venezia ogni anno sotto il sole inclemente di agosto è l’ultimo atto d’amore verso il teatro, alla fine di un lungo inverno a rincorrere festival, rassegne e cartelloni di tutta Italia.

La laguna, nonostante l’umido e il caldo, conserva intatto quel fascino da saudade, per trasformarsi, all’ora del tramonto, nello schizzo ad acquerello di un’antica fiaba. Le calli ad agosto sono dei turisti, ma qualcuno in questa folla di corpi si fa strada tra la massa, sgattaiolando tra un vicolo e l’altro, tra un isolotto e la terra ferma, orologio al polso, per non perdere nemmeno un appuntamento di questa Biennale teatro 2013.

Dopo una settimana da leoni, tra l’oro di Romeo Castellucci e l’argento ad Angélica Liddell, e i laboratori di corpo e di scrittura, il weekend conclusivo porta il nome di William Shakespeare.

Domenica 11 gli amanti del teatro l’hanno trascorsa, immersi nella quiete della Giudecca, a inseguire i cinque esiti dei laboratori che i maestri internazionali hanno dedicato al poeta elisabettiano. Tempi tanto serrati per spazi non molto vicini tra loro, che qualcuno, in fila nell’ora della siesta, pensava di gareggiare per giochi senza frontiere. Ma per Shakespeare vale sempre la pena resistere, e se poi di mezzo ci sono i nomi di Jan Lauwers, Gabriela Carrizo, Claudio Tolcachir, Krystian Lupa, Angélica Liddell e quelli di più di cinquanta giovani attori da tutto il mondo, l’appuntamento diventa imperdibile.

Il cantore del verso teatrale più grande di tutti i tempi, lo scopritore di parole del ‘500, nel 2013 perde braghe e pudori rinascimentali e negli spazi della Biennale diventa corpo puro, come se i suoi testi non avessero più bisogno di essere parlati ma scarnificati fino al limite estremo. Angélica Liddell con i suoi dodici perfomer, rigorosamente uomini, interpreta la tragedia dello stupro di una donna, la Lucrezia di tutti i tempi, ahinoi, dei nostri più che mai. Gli attori che parlano attraverso spasimi e gemiti di dolore misto a piacere, vittime e carnefici al tempo stesso, fanno Shakespeare senza vestiti, nudi nel corpo e nella vergogna.

Krystian Lupa affida l’ Amleto alle improvvisazioni dei suoi allievi, che a coppie trascinano il principe di Danimarca nel nostro presente.

Jan Lauwers non lascia nulla all’immaginazione, il suo Re Lear è un’orgia impazzita di attori nudi, che in fila sul proscenio mandano via il pubblico a calci e pistolettate. Cornelia vomita, mentre il vizio inghiotte ogni nuovo sapore.

Nell’immaginario onirico e un po’ inquietante di Gabriela Carrizo, la morte di Ofelia sempre incombente è una bara al centro della scena e gli spettatori diventano testimoni chiamati a presiedere alla veglia funebre. Insieme ai movimenti arditi, con cui gli attori della compagnia Peeping Tom sfidano pure la forza di gravità, la regista, un po’ belga e un po’ argentina, anche nel laboratorio crea atmosfere retrò, passando dalle ballate di Luigi Tenco al latin jazz di Joe Barbieri. Anche stavolta il nudo rigorosamente in scena, gratuito o no, la fa da padrone.

Claudio Tolcachir, dalla sua Buenos Aires querida per il secondo anno consecutivo alla Biennale, traduce il Macbeth di Shakespeare in una serie di sketch, con gli attori non protagonisti che guidano il pubblico da una parte all’altra dello spazio. La messa in scena si adatta completamente alla sala e sembra prendere vita proprio da quel parquet e dalle grandi vetrate sul cortile, in un’ambientazione e con un ritmo più cinematografici che teatrali.

La maratona non è ancora finita. Vaporetto 4.2 e subito dritti verso Ca’ Giustinian per incontrare Thomas Ostermeier. Niente di meglio che una lezione di regia e di pensiero per chiudere il sipario di questo Festival, che ogni anno dimostra una rinnovata tensione politica. Quest’anno l’Ibsen di Ostermeier ha offerto un esempio magistrale di teatro politico, mettendo in discussione quello che a una prima lettura sarebbe apparso scontato. Così, tra rimbalzi di domande e risposte e flussi di pensiero che anche il pubblico ha condiviso, ci si interroga ancora sul colore della camicia. Il Dottor Stockmann, protagonista del testo di Ibsen Un nemico del popolo, può dirsi uomo di sinistra? È un anarchico o solo un piccolo borghese mascherato? Una discussione aperta sulla libertà di parola, sull’ambiguità della maggioranza, sul rosso e sul nero, come si faceva nelle piazze dei mondi civili, come tra cittadini consapevoli, che grazie al teatro ricominciano a pensare.

E anche quest’anno la Biennale è stata scuola di pensiero non solo attraverso l’azione e il corpo degli artisti, ma anche con la carta stampata. Il laboratorio di critica coordinato da Andrea Porcheddu, instancabile reporter studioso e conoscitore del teatro, in questa nuova edizione ha scelto di affiancare al web anche un giornale cartaceo, quotidianamente distribuito tra il pubblico. Una presenza costante, intelligente, attiva e innovativa quella dei dieci giovani critici che da tutta Italia si sono ritrovati a condividere pranzi cene sguardi e scrivania, offrendo a se stessi e agli spettatori un confronto continuo di idee, per dirci che il teatro non è morto, che una nuova critica può ancora esistere, meno separata di un tempo, più libera da compromessi, fedele solo alle proprie energie. Le fotografie critiche di Futura Tittaferrante e le illustrazioni di Mariagiulia Colace hanno dato ogni giorno un volto nuovo agli spettacoli e al giornale.

La notte prima dei ritorni con la festa di chiusura della Biennale è trascorsa nell’isola felice, tra qualche Perseade sopravvissuta a San Lorenzo, inaspettato clima da festa dell’Unità e bicchiere in mano per brindare al teatro, musa compagno ossessione amante amore condiviso.