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Giovanissimo, trentasette anni non ancora compiuti, dalla Catalogna approdi alla Biennale di Venezia, con uno spettacolo in miniatura, tutto dentro una valigia. Qual è la tua formazione artistica e quali le direttive dentro le quali ti stai muovendo attualmente?

Ho cominciato a studiare teatro in una scuola teatrale di Valencia, dove purtroppo il teatro veniva insegnato secondo un approccio vecchio, direi antico, da cui ho dovuto prendere le distanze. Ho deciso perciò di formarmi come ballerino, passando dalla contact improvisation alla capoeira , mi sono trasferito a Barcellona, ho collaborato con diverse compagnie, ho lavorato solo o con amici, e sempre di più mi sono interessato al linguaggio del corpo. Negli ultimi sei anni mi sono soffermato sull’esplorazione dei limiti, dei confini fra teatro, danza e performance. Adesso mi sto dirigendo verso un altro concetto di movimento. In questo spettacolo della Biennale ad esempio c’è molto movimento, diverso da quello a cui siamo normalmente abituati. Eppure è facile cogliere una coreografia.

La coreografia risponde a un meccanismo impeccabile, dove musica, ritmo, mani e luci convivono in armonia. Insieme a una nuova ricerca sul movimento, la tua “gran obra” contiene una matrice quasi rivoluzionaria: educa a nuove possibilità dello sguardo e, pur essendo agita da personaggi inanimati, risulta profondamente umana. Come nasce la scelta di lavorare con una compagnia di pupazzetti?

È la compagnia più numerosa al mondo, credo. O quasi. Si chiama Hekindh Degul, è il modo in cui i lillipuziani hanno chiamato Gulliver dopo averlo visto per la prima volta. I miei attori sono più di trecento. Con alcuni di loro avevo già lavorato qualche anno fa per la realizzazione di un video. Proprio nel momento in cui avevo scelto di creare un’opera grandiosa, che parlasse di utopia, di socialismo, di rivoluzione, all’improvviso , quasi per caso, sono apparsi loro e le mie priorità sono cambiate. Sono rimasto però coerente con l’idea di portare avanti un teatro politico.

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Uno spettacolo tascabile, da insaccare dentro un trolley 50x20x40. Mi gran obra dello spagnolo David Espinosa, classe 1976, non può dirsi certo un teatro a misura d’uomo. Gli spettatori, una ventina per volta, distribuiti in ordine di altezza, siedono attorno a una scrivania di legno e guardano il palcoscenico in miniatura attraverso un binocolo. Un bellissimo esercizio di sguardo, per un’umanità assuefatta alle immagini nel cucchiaio. Dentro una scala 1:87, questa stessa umanità miope può ri-specchiare passato presente e futuro: sogni di vita perduti o solo immaginati, passioni, evasioni, cadute e rimbalzi, vacanze e paure. Gli attori senza cuore, solo colori e plastica, prendono vita sotto le dita del regista, demiurgo e attore egli stesso.

Le mani di Espinosa, che conducono questa trottola di esistenze, sotto le note di Beethoven arrangiate dal musicista Santos Martínez, tracciano una vera e propria coreografia, impeccabile nel ritmo e nella morbidezza. I polpastrelli hanno cura degli attori, come fossero di cristallo. C’è tutta la poesia delle piccole cose dentro questa “gran obra”, che sfida maestosità e manie di grandezza, con la grazia della miniatura, di ciò che è impercettibile ad occhio nudo se non per macchie di colore. La realtà, se vuoi capirci qualcosa, devi osservarla con la lente giusta, sembra volerci dire il giovane artista, approdato alla Biennale di Venezia a braccetto coi nuovi mostri sacri del teatro, eppure niente affatto intimidito. Il suo lillipuziano alter ego, spiazzato di fronte al cumulo di corpi accatastati, sfugge al carroattrezzi del giorno dell’Apocalisse e sceglie di spegnersi da solo, sbandierando un fiammifero in fin di vita.

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Ritornare a Venezia ogni anno sotto il sole inclemente di agosto è l’ultimo atto d’amore verso il teatro, alla fine di un lungo inverno a rincorrere festival, rassegne e cartelloni di tutta Italia.

La laguna, nonostante l’umido e il caldo, conserva intatto quel fascino da saudade, per trasformarsi, all’ora del tramonto, nello schizzo ad acquerello di un’antica fiaba. Le calli ad agosto sono dei turisti, ma qualcuno in questa folla di corpi si fa strada tra la massa, sgattaiolando tra un vicolo e l’altro, tra un isolotto e la terra ferma, orologio al polso, per non perdere nemmeno un appuntamento di questa Biennale teatro 2013.

Dopo una settimana da leoni, tra l’oro di Romeo Castellucci e l’argento ad Angélica Liddell, e i laboratori di corpo e di scrittura, il weekend conclusivo porta il nome di William Shakespeare.

Domenica 11 gli amanti del teatro l’hanno trascorsa, immersi nella quiete della Giudecca, a inseguire i cinque esiti dei laboratori che i maestri internazionali hanno dedicato al poeta elisabettiano. Tempi tanto serrati per spazi non molto vicini tra loro, che qualcuno, in fila nell’ora della siesta, pensava di gareggiare per giochi senza frontiere. Ma per Shakespeare vale sempre la pena resistere, e se poi di mezzo ci sono i nomi di Jan Lauwers, Gabriela Carrizo, Claudio Tolcachir, Krystian Lupa, Angélica Liddell e quelli di più di cinquanta giovani attori da tutto il mondo, l’appuntamento diventa imperdibile.

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