Giovanissimo, trentasette anni non ancora compiuti, dalla Catalogna approdi alla Biennale di Venezia, con uno spettacolo in miniatura, tutto dentro una valigia. Qual è la tua formazione artistica e quali le direttive dentro le quali ti stai muovendo attualmente?
Ho cominciato a studiare teatro in una scuola teatrale di Valencia, dove purtroppo il teatro veniva insegnato secondo un approccio vecchio, direi antico, da cui ho dovuto prendere le distanze. Ho deciso perciò di formarmi come ballerino, passando dalla contact improvisation alla capoeira , mi sono trasferito a Barcellona, ho collaborato con diverse compagnie, ho lavorato solo o con amici, e sempre di più mi sono interessato al linguaggio del corpo. Negli ultimi sei anni mi sono soffermato sull’esplorazione dei limiti, dei confini fra teatro, danza e performance. Adesso mi sto dirigendo verso un altro concetto di movimento. In questo spettacolo della Biennale ad esempio c’è molto movimento, diverso da quello a cui siamo normalmente abituati. Eppure è facile cogliere una coreografia.
La coreografia risponde a un meccanismo impeccabile, dove musica, ritmo, mani e luci convivono in armonia. Insieme a una nuova ricerca sul movimento, la tua “gran obra” contiene una matrice quasi rivoluzionaria: educa a nuove possibilità dello sguardo e, pur essendo agita da personaggi inanimati, risulta profondamente umana. Come nasce la scelta di lavorare con una compagnia di pupazzetti?
È la compagnia più numerosa al mondo, credo. O quasi. Si chiama Hekindh Degul, è il modo in cui i lillipuziani hanno chiamato Gulliver dopo averlo visto per la prima volta. I miei attori sono più di trecento. Con alcuni di loro avevo già lavorato qualche anno fa per la realizzazione di un video. Proprio nel momento in cui avevo scelto di creare un’opera grandiosa, che parlasse di utopia, di socialismo, di rivoluzione, all’improvviso , quasi per caso, sono apparsi loro e le mie priorità sono cambiate. Sono rimasto però coerente con l’idea di portare avanti un teatro politico.
Mi sembra di capire che la tua urgenza di fare un teatro politico sia però completamente cambiata. Forse tesa più alla forma che al contenuto.
Il mio obiettivo è quello di indagare le relazioni teatrali, banalmente il rapporto tra chi fa e chi guarda. Tempo fa ho messo in scena uno spettacolo “Felicidad.es” dove ho introdotto il concetto di assenza/presenza virtuale attraverso un computer. Io ero fisicamente assente sul palcoscenico e comunicavo con gli spettatori via skype. Il pubblico veniva invitato a chattare con me. Un modo come un altro per sperimentare nuove possibilità di relazione e cominciare ad abbandonare le vecchie. L’idea della miniatura nasce da un mio rifiuto nei confronti della grandiosità. Mi disturba la magnificenza, le grandi scenografie, di fronte alle quali non posso non pensare a tutti i soldi spesi. Stiamo vivendo un momento di crisi così grande che nessuno spreco può essere legittimato. Volevo mettermi alla prova per capire cosa avrei fatto io se avessi avuto l’opportunità di misurarmi con uno spettacolo grandioso. Con che mezzi sarei riuscito a realizzarlo? Così, proprio mentre mi interrogavo sul senso del teatro, sulla necessità di un teatro che fosse politico e quindi sulla realizzazione di un’utopia, ho incontrato i pupazzetti, ho provato ad ascoltarli, è stato interessante capire cosa mi potevano offrire loro, e non partire da quello che io mi immaginavo, che è quello che come interprete soffro molto. Ho cominciato anche qui a lavorare col movimento sia fisico che drammaturgico, movimenti semplici, quello fisico legato alla musica, quello drammaturgico, deducibile eppure non lineare, narrativo però non coerente. Lo spettatore si perde sempre e proprio nel momento in cui pensa di averci capito qualcosa, ecco che interviene un elemento assurdo a spiazzarlo. Uno spazio si converte in un altro in una metamorfosi continua. La politica sta nell’atto teatrale stesso.
Quando è nato questo progetto teatrale e in che modo sei riuscito a realizzarlo?
Nel natale del 2011, il progetto è durato un anno, sei mesi di pensieri, riflessioni e discussioni, sei mesi di prove e messa in scena. Da quando ho un figlio, che adesso ha tre anni, faccio tutto più lentamente! Non lavoro più con una compagnia, ma ho scelto per motivi strettamente famigliari di creare la mia struttura teatrale dentro casa, ho la mia sala prova, i miei strumenti e tutto quello che mi serve per fare teatro. Lo spazio si chiama “El local espacio de creación”. “Mi gran obra” è nata dalla collaborazione con un musicista e un architetto.
C’è una fede religiosa dietro questa tua visione demiurgica del teatro e della vita?
Da piccolo sì, credevo in Dio, oggi non lo so più. Credo di sicuro che qualcosa su cui interrogarsi ci sia e inevitabilmente, però non c’è una mia profonda fede religiosa dietro questo spettacolo. Affronto il tema della caduta, quello della morte, argomenti che hanno a che fare con la religione. La conclusione dello spettacolo è proprio la morte, simbolicamente rappresentata dal fiammifero che si spegne.
La morte del presidente degli Stati Uniti ha un significato politico o sensazionalistico? Sappiamo poi che le due cose spesso si incrociano fino a coincidere.
La morte di Obama doveva essere inizialmente la mia conclusione. Poi ho pensato che avrebbe banalizzato il lavoro. Quella scena rappresenta uno degli scenari più apocalittici possibili, l’ho messa dentro come provocazione.
Provocazione, politica, rivoluzione del teatro attraverso la forma, lotta contro il sistema. Tutti argomenti che dovrebbero allontanare da un’istituzione come quella della Biennale di Venezia. Perché hai scelto di farne parte e con quali aspettative?
Credo che l’atto più rivoluzionario sia stato quello di mettere dentro questo contenitore, istituzionale come dici tu, uno spettacolo come il mio, assolutamente fuori dalla norma e dagli schemi, e farlo convivere con l’eccellenza senza paure.