Uno spettacolo tascabile, da insaccare dentro un trolley 50x20x40. Mi gran obra dello spagnolo David Espinosa, classe 1976, non può dirsi certo un teatro a misura d’uomo. Gli spettatori, una ventina per volta, distribuiti in ordine di altezza, siedono attorno a una scrivania di legno e guardano il palcoscenico in miniatura attraverso un binocolo. Un bellissimo esercizio di sguardo, per un’umanità assuefatta alle immagini nel cucchiaio. Dentro una scala 1:87, questa stessa umanità miope può ri-specchiare passato presente e futuro: sogni di vita perduti o solo immaginati, passioni, evasioni, cadute e rimbalzi, vacanze e paure. Gli attori senza cuore, solo colori e plastica, prendono vita sotto le dita del regista, demiurgo e attore egli stesso.
Le mani di Espinosa,
che conducono questa trottola di esistenze, sotto le note di
Beethoven arrangiate dal musicista Santos Martínez, tracciano una
vera e propria coreografia, impeccabile nel ritmo e nella morbidezza.
I polpastrelli hanno cura degli attori, come fossero di cristallo.
C’è tutta la poesia delle piccole cose dentro questa “gran
obra”, che sfida maestosità e manie di grandezza, con la grazia
della miniatura, di ciò che è impercettibile ad occhio nudo se non
per macchie di colore. La realtà, se vuoi capirci qualcosa, devi
osservarla con la lente giusta, sembra volerci dire il giovane
artista, approdato alla Biennale di Venezia a braccetto coi nuovi
mostri sacri del teatro, eppure niente affatto intimidito. Il suo
lillipuziano alter ego, spiazzato di fronte al cumulo di corpi
accatastati, sfugge al carroattrezzi del giorno dell’Apocalisse e
sceglie di spegnersi da solo, sbandierando un fiammifero in fin di
vita.