Una giovane donna di voraci e disordinate letture, quasi un’autodidatta, nata e cresciuta in un villaggio remoto, si immagina e si fa scrittrice, sottraendosi ai copioni destinati da tempi immemori al suo sesso e affermandosi con insospettabile forza nel panorama letterario internazionale. Raccontata così, ridotta all’osso, la parabola di Grazia Deledda somiglia straordinariamente a quella di una Emily o Charlotte Brontë, e ai miei occhi appare come uno splendido e promettente soggetto cinematografico. Eppure nessun film narra la sua vita e, diversamente dalle intrepide inglesi, persino sul versante letterario mi pare che la figura e le opere della scrittrice nuorese siano state tramandate attraverso un filtro di minorità, accompagnate da un sapore di inservibili anticaglie folcloristiche dalle quali è prudente stare alla larga. Occorre attendere …con amore, Fabia (1993), esordio alla regia di una giovane autrice sarda, Maria Teresa Camoglio, per poter vedere sugli schermi la storia di Deledda, traslata in un racconto di donne distanti nel tempo ma vicine nello spazio simbolico della relazione femminile. Il film è liberamente tratto da Cosima (1937), romanzo autobiografico, pubblicato postumo, di Grazia Deledda. ‘Liberamente’ è un avverbio ambivalente, giacché da un lato autorizza letture nel senso di un cauto allontanamento dal testo letterario, ridotto a puro pretesto, che Camoglio modernizza e stravolge; dall’altro lato, ed è questa la mia proposta, suggerisce la strada di una rielaborazione ampia nel segno della libertà femminile, di una autonomia piena ma non dimentica della sua origine. Così prende forma un testo filmico del tutto personale e, al contempo, intimamente pervaso dalla sua matrice letteraria, coniugata al presente e declinata a partire da sé in un racconto che, attraverso la vocazione artistica e le vicissitudini di Fabia, intreccia le biografie di Cosima, della scrittrice e della stessa regista.
1. Figlie straniere
La narrativa deleddiana, nella cornice di un regionalismo apparentemente immobile, sviluppa in realtà tematiche che chiamano in causa non l’isola, ma il mondo, declinando costantemente, pur nella varietà delle trame, la dialettica fra individuo e collettività, fra le leggi di una comunità arcaica e «le spinte individualistiche della società moderna» (Sanna 2010). Cosima non fa eccezione e addirittura rilancia la portata di questo conflitto, scegliendo la figura inedita di una giovane donna che contrappone il suo desiderio a norme sociali che, semplicemente, non la considerano neppure un soggetto. La sua protagonista, perseguendo il sogno della letteratura, sente di essere straniera, di appartenere «a un mondo diverso» (Deledda 1971 [1937], p. 696) rispetto a quello in cui si trova a vivere. E sono i caratteri della scrittura a marcarne la disonorevole estraneità.
Fabia, molti anni dopo, vive la medesima condizione di estraneità. Ad attrarla e a renderla diversa non sono le lettere ma le pietre, gli oggetti di scarto, i pezzi di vecchie lavatrici, «la monnezza», come la definisce sconsolatamente la madre. è la materia grezza offerta dalla realtà che lei, come Cosima, è capace di guardare in modo originale, imprevisto, trasformandola in scultura, rilievo, arte. Il contesto dei primi anni Novanta appare mutato e più aperto, ma la protagonista del film eccede comunque nella trasgressione, giacché la sua differenza è acuita dai modi bruschi, dalla diretta contestazione dei ruoli di genere e da una sottile ambiguità sessuale [fig. 1]. Fabia si ribella violentemente al fratello e ai doveri domestici, non si riconosce nella Chiesa, rifiuta la scuola; ha sguardo e lineamenti duri («Se ti schiarisci i capelli, la faccia un po’ meno dura ti viene», le suggerisce con affettuosa ironia il fratello Matteo), indossa pantaloni e camicie di foggia maschile, ed è insensibile alle chimere dell’amore romantico che incantano le sue coetanee.
Lontane nel tempo e nei sembianti, Fabia e Cosima si rivelano invero vicinissime: sono donne che non sanno stare al proprio posto, «che escono dalle convenzioni e producono […] effetti di sconcerto rispetto alle figure della femminilità codificata» (Setti 2014). Per entrambe, il conflitto col circostante muove dall’immaginazione artistica, che genera incomprensioni e fraintendimenti, a partire dal rapporto con le loro madri: loro, che pure le hanno partorite, sono le prime a sentirle estranee, incomprensibili. Figura taciturna e opaca, la madre tratteggiata da Deledda ha un volto severo e melanconico, sembra abitata da una tristezza misteriosa, dovuta forse al «ricordo di un amore fantastico» (p. 718), vagheggiato ma mai veramente vissuto. La vita le ha riservato indicibili dolori: la morte della figlia Enza, del marito, la rovina di Santus, il figlio alcolizzato e affetto da delirium tremens, e la preoccupazione per Cosima, così diversa e sfuggente, «con certe idee in testa […] tutte quelle scritte, quei cattivi libri […] non troverà mai da maritarsi cristianamente» (pp. 796-797). Gli stessi affanni gravano sulla madre di Fabia, muta e chiusa di fronte alle tragedie dell’esistenza e alla cinepresa di Camoglio, che la ritrae in frequenti primi piani a capo chino, dolente, persa nel ricamo interminabile di una tovaglia di corredo, «Chissà poi per chi», si chiede Fabia. Nel film come nel romanzo, a separare madri e figlie è la vocazione artistica, che porta le giovani a immaginare per se stesse una vita differente, fino ad allora impensata, e impensabile per le loro madri. Ma è proprio quando le figlie si risolvono ad agire con coraggio il proprio desiderio, scegliendo di lasciare il paese e di andare nel mondo, che i nodi problematici della relazione materna si sciolgono. Difatti Cosima decide di scrivere ‘davvero’ per lenire il dolore della madre (Piano 2010). Quasi per caso ha origliato l’amaro sfogo della donna, silenziosa con tutti e generosa di confidenti parole col vecchio servo Elia, e ha ora contezza del suo profondo sconforto: è in quel momento che a Cosima viene «l’idea di muoversi, di uscire dal ristretto ambiente della piccola città, e andare in cerca di fortuna. Per dare consolazione alla madre» (Deledda 1971 [1937], p. 799).
Forse in maniera più esplicita, anche nel film di Camoglio il ricongiungimento con la radice materna passa per il fare artistico. Lungo tutta la pellicola la macchina da presa inquadra il volto enigmatico della madre, il capo abbassato sul lavoro d’ago [fig. 2], e soprattutto lo stupore, l’autentico sbigottimento dei suoi occhi quando guarda Fabia, spiando le sue mani alle prese col fil di ferro, coi sassi, con il gesso [fig. 3]. Non comprende l’accanimento di sua figlia su quella che per lei resta materia inerte, insignificante; ed è naturalmente in ansia per la ragazza, dal momento che ha smesso di studiare e non si sa cosa voglia fare della sua vita. Ma verso la fine del racconto, quando la protagonista si è decisa a partecipare al bando per giovani artisti promosso dall’Accademia romana, Camoglio introduce una sequenza breve, quasi onirica, nella quale la madre, silenziosamente, scopre chi è, o meglio chi vuole essere, sua figlia. La camera riprende da vicino la mano della donna che, accompagnata dai suoni del basso e del flauto, tocca e forse accarezza le sculture di Fabia. Il dinamismo della macchina da presa segue il suo movimento e da distanza ravvicinata, in un esercizio di sguardo visivamente partecipe, registra il misterioso e affascinante susseguirsi delle forme. Nella seconda e ultima inquadratura, la donna afferra la strana testa scolpita da Fabia, una sorta di inquietante ritratto che raffigura, insieme, come due facce della medesima moneta, il profilo del fratello Matteo e quello della madre. Solleva la scultura davanti al suo viso e, nella simmetria di un quadro perfettamente bilanciato [fig. 4], si specchia in quel suo doppio di gesso; qui, mi pare, nell’enigma di quella strana forma riconosce la parte più segreta di se stessa, e soprattutto riconosce sua figlia, riuscendo finalmente a vederla per l’artista che desidera diventare.
2. L’invenzione dell’altra
Ci sono vari modi per scrivere la vita di una donna: Deledda sceglie di raccontare la sua «chiamandola narrativa» (Heilbrun 1990 [1988]). Così viene al mondo Cosima, quasi Grazia, che non è semplicemente un alter ego della scrittrice, ma l’invenzione di una seconda se stessa che le consente di narrare, della sua vita reale, ciò che ritiene narrabile, o meglio ciò che le sembra essenziale «per la costruzione della sua soggettività» (Bracchi 2010). Questa seconda se stessa – segnata dal talento e dalla precoce vocazione letteraria, nata nella cornice mitica, quasi magica della Sardegna – è per lei «l’altra necessaria» (Bracchi 2010), figura chiave del paradigma autobiografico che le permette di narrarsi e riconoscersi pienamente. A ben vedere, né poteva essere diversamente, Deledda è ancora immersa in una cultura che ammette il racconto della vita intellettuale, artistica (o comunque attinente alla sfera pubblica) delle donne soltanto se narrata in termini di anomalia, di «casi eccezionali, scelti dal fato o toccati dalla fortuna» (Heilbrun 1990 [1988]). Perciò, con Cosima, folgorata fin dalla fanciullezza dal desiderio di diventare scrittrice, disposta a trasgredire i divieti che il suo sesso, la classe sociale e l’appartenenza geografica le imponevano, omette la ‘normalità’ della sua esistenza borghese, l’ordinario ménage di signora perbene, moglie di un impiegato del Ministero delle Finanze, e madre di due figli. Insomma, tornando al gioco di parole proposto poco sopra, potremmo dire che Deledda trae ‘liberamente’ questo romanzo dalla sua biografia, declinando, lei per prima, la ricca ambiguità dell’avverbio nel senso della libertà femminile. E prolungando idealmente lo stesso gesto, molti anni più tardi, Maria Teresa Camoglio rilancia l’intuizione deleddiana e mette al mondo Fabia, per poter scrivere attraverso il cinema la vita di una donna diversa, imprevista e, almeno in una certa misura, per poter narrare la sua esperienza biografica. Per la giovane autrice, migrata in Germania con una borsa di studio in regia cinematografica, leggere e portare sullo schermo Deledda è una sorta di ritorno e di riconciliazione con l’isola natia. Ma anche una scoperta di sé e delle sue radici, giacché anche lei, per riuscire a raccontare la Sardegna, ha dovuto lasciarla e guardarla da lontano: «arrivata a Berlino ho iniziato a leggere testi e romanzi sardi che conoscevo, ma non avevo letto, e che forse restando sull’isola non avrei letto» (riportato in Venier 2015). Né appare casuale la scelta di girare il suo primo lungometraggio in Sardegna, che rappresenta forse il tentativo di ricucire lo strappo con la terra madre, il trauma di un distacco non compiutamente elaborato. Ricorda ancora la regista:
Quando sono andata via ero appena diventata un’insegnante di ruolo all’Istituto d’Arte, avevo un posto sicuro e, nella generale opinione altrui, vivevo una tipica situazione in cui tutti mi prendevano per pazza, la “folle” che lascia un destino certo per uno incerto (riportato in Venier 2015).
Così la sua Fabia nasce nella discendenza di Cosima, ed è per l’autrice l’altra necessaria, una figura finzionale capace di innescare il racconto di sé, di portare sullo schermo la storia di una giovane donna che, suscitando scandalo, lascia la sua casa e il suo mondo per cercare di inventarsi un'esistenza al di fuori dei copioni prestabiliti. Anche così la libertà femminile, attraverso la concretezza della relazione simbolica, compie il suo tragitto e diventa genealogia.
Bibliografia
C. Bracchi, Cosima o l’altra necessaria del paradigma autobiografico, in M. Farnetti (a cura di), Chi ha paura di Grazia Deledda? Traduzione - Ricezione - Comparazione, Albano Laziale (Roma), Iacobelli editore, 2010, pp. 145-161.
M.T. Camoglio, Intervista, in M. Venier, Nuovo cinema deleddiano: … con amore, Fabia di Maria Teresa Camoglio, tesi di laurea discussa all’Università di Sassari il 27 ottobre 2015, relatrice Lucia Cardone, correlatore Marco Manotta.
G. Deledda, Cosima [1937], in Romanzi e novelle, a cura di N. Sapegno, Milano, Mondadori, 1971.
C.G. Heilbrun, Scrivere la vita di una donna [1988], trad. it. di K. Bagnoli, Milano, La Tartaruga edizioni, 1990.
M.G. Piano, Onora la madre. Autorità femminile nella narrativa di Grazia Deledda, Milano, Rosenberg & Sellier, 1998.
M.G. Piano, Il dramma del Desiderio nella narrativa deleddiana, in M. Farnetti (a cura di), Chi ha paura di Grazia Deledda?, pp. 182-192.
S. Sanna, Grazia Deledda fra Isola e mondo, in M. Farnetti (a cura di), Chi ha paura di Grazia Deledda?, pp. 193-215.
N. Setti, ‘Personaggia, personagge’, Altre modernità, 12, novembre 2014, p. 205.