1.5. Giovani donne crescono attrici: la Bildung divagrafica nella trilogia di Anne Wiazemsky

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  • [Smarginature] Divagrafie, ovvero delle attrici che scrivono →

 

Anne Wiazemsky è rimasta indelebile nell’immaginario cinefilo per essere stata una delle icone più significative della nouvelle vague francese e del cinema d’autore italiano: dopo il debutto in Au hasard Balthazar di Robert Bresson (1966), si lega a Jean-Luc Godard, diventandone la seconda musa e recitando ne La Chinoise (1967). Ma proprio l’affrancarsi progressivo dal cinema ideologico e impegnato del secondo Godard e l’acquisizione di una fisionomia attoriale indipendente da quella del marito la porteranno a cimentarsi in pellicole italiane fondamentali con registi del calibro di Pasolini (Teorema, Porcile), Carmelo Bene (Capricci) e Ferreri, sul cui set de Il seme dell’uomo si svolge la rottura emotiva con il cineasta svizzero. Ma a quella di attrice, Anne Wiazemsky ha affiancato una doppia carriera di scrittrice, che nel corso dei decenni ha preso il sopravvento sulla prima, con riconoscimenti prestigiosi e la pubblicazione delle proprie opere da parte di una casa editrice storica come Gallimard.

Ci concentreremo sulla trilogia romanzesca che Wiazemsky ha dedicato alla propria carriera di attrice, costituita da Jeune Fille (2007) [fig. 1], Une année studieuse (2013) [fig. 2] e Un an après (2015) [fig. 3]. L’autrice, in riferimento alle tre opere, parla esplicitamente di “romanzi”, ponendo quindi un evidente dilemma di categorizzazione: come possiamo definire questi testi che, pur nella rivendicazione autoriale di finzionalità (frutto per Wiazemsky della distanza memoriale immancabilmente deformante), mantengono un indissolubile legame con l’autobiografia e il memoir attoriale? Il dispositivo divagrafico ci viene in aiuto per poter indagare un materiale tanto ibrido quanto compiutamente costruito su stilemi che appartengono alla tradizione non solo letteraria, ma potremmo dire quasi “antropologica”: lo schema della Bildung cinematografica si accompagna alle tappe fondamentali della formazione di Anne nel suo progressivo affrancarsi prima dalla famiglia (attraverso l’ingresso nel cinema e la relazione con Godard) e poi dal marito (e qui il rapporto con il cinema italiano diventa fondamentale punto di svolta tanto narrativo quanto di vita).

Il primo romanzo della trilogia, Jeune Fille, sembra richiamare sin dal titolo il modello dell’apprendistato e della formazione: risuona, infatti, l’eco del noto Mémoires d’une jeune fille rangée di Simone de Beauvoir, e d’altronde il testo ruota attorno ad un momento cruciale della vita di Anne. Si tratta infatti del racconto di un duplice ingresso: quello nel mondo del cinema, attraverso il debutto nel ruolo di Marie in Au hasard Balthazar di Robert Bresson [fig. 4], ma anche nella vita adulta, con la perdita della verginità avvenuta con un componente della troupe di Bresson di cui rimane celato il nome. L’espressione «jeune fille» risuona a più riprese nel corso del romanzo, utilizzata prima dai personaggi che circondano Anne e poi accettata dalla protagonista stessa, che in seguito alle esperienze fondative della vita sul set e dell’atto sessuale non si riconosce più nell’immagine di sé riflessa dallo specchio. Sembra di trovarsi di fronte ad una riproposizione piuttosto fedele dell’archetipo iniziatico che Paola Cabibbo (1983) ha identificato a proposito della narrativa di formazione. Le tre tappe che costituiscono tale processo sono infatti tutte presenti in Jeune Fille. Il primo stadio è costituito dalla separazione dal proprio ambiente familiare: Anne, infatti, abbandona la propria famiglia, le proprie amicizie e la propria dimora parigina, per recarsi prima a Guyancourt – non lontano da Versailles – e poi sui Pirenei per le riprese del film di Bresson. A Guyancourt Anne vive, per la maggior parte del tempo, in una casa che ospita lei, Bresson e poche altre persone del set, in uno stato di semi-isolamento favorito anche dallo stesso Bresson.

È proprio il regista francese ad assolvere un’ambigua funzione di guida in quello che è il secondo stadio dell’iniziazione, la prova. In questa fase, ci ricorda Cabibbo, l’iniziante viene condotto attraverso una serie di esperienze – e spesso di ostacoli – da parte di una guida più saggia e matura. Il rapporto tra Anne e Bresson viene marcato, sin dall’inizio, da alcuni elementi significativi. In primo luogo, le differenze di età e soprattutto di status artistico giocano un ruolo fondamentale nell’instaurarsi di una relazione basata su un’ammirazione sì reciproca, ma indubbiamente non paritaria. Per Anne, Bresson rappresenta, soprattutto all’inizio della narrazione, un artista e genio irraggiungibile, tanto che per numerose pagine viene nominato come «Lui», senza osarne pronunciare il nome. A partire dai provini, e poi nel corso delle riprese sul set, Bresson diventa per la giovane attrice un maestro che la aiuta a comprendere il linguaggio del cinema – diverse le scene in cui i due guardano insieme un film che il regista commenta puntualmente – e che la inizia all’arte della recitazione, esercitando su di lei un’autorità che rivela, ben presto, aspetti ambivalenti. In Anne, Bresson vede un ideale di purezza e di spontaneità che emergono anche e soprattutto perché la ragazza obbedisce pedissequamente alle sue direttive. Ma queste ultime tendono a invadere anche la vita privata di Anne, che Bresson vorrebbe esclusivamente dedita al suo film e verso cui il regista muove anche qualche tentativo di approccio, fermamente rifiutato. Alla reverenza e obbedienza artistica, in Anne si aggiunge progressivamente anche un istinto di ribellione sul piano affettivo e di affrancamento da una figura a tratti paterna, e che proprio per questo Anne rifiuta di poter anche solo prendere in considerazione da un punto di vista sentimentale e sessuale. La trasformazione in «jeune fille» avviene proprio nel momento in cui, all’insaputa e contrariamente a quanto vorrebbero tanto Bresson quanto la madre, Anne riesce a trascorrere un weekend sola con un giovane uomo della troupe, di cui diventa la fugace amante.

Questo momento segna un passaggio fondamentale per Anne nel maturare una propria indipendenza sia emotiva che attoriale dalla figura autoriale e autoritaria di Bresson, che pure continua a stimare e verso il quale prova un’affezione sincera. Tale processo culmina nelle riprese di una scena controversa di Balthazar in cui Anne-Marie, dopo aver subito violenza, vestita solo di coperte, trova rifugio presso un mercante di grano:

 

- Moteur!
- Ça tourne!
- Annonce!
- Balthazar, 579, première!
- Action!
- Vous êtes vieux.
- Pas tant que ça.
- Vous n’êtes pas beau.
Ce qu’il y avait entre nous au moment où je lui disais ces mots se chargeait de quelque chose de très intime. Je jouais le rôle de Marie, bien sûr, mais j’étais en même temps Anne et je m’adressais avec les mots d’une autre directement à Robert Bresson. Tous les sentiments complexes que j’avais, depuis notre première rencontre, éprouvés pour lui s’infiltraient dans ma voix et, sans doute, se reflétaient sur mon visage. […] Même le désespoir feutré dans lequel je vivais depuis la mort de mon père et que j’avais presque oublié, remontait soudain à la surface. En fait, je découvrais de façon instinctive, au fur et à mesure des séquences et sans pouvoir encore me l’expliquer, les bases du métier d’actrice. […] Cela me procurait un plaisir inconnu, dont j’étais consciente et qui me poussait à oser improviser un silence, un regard, une intonation, quelque chose que Robert Bresson ne m’avait pas demandé et que nous n’avions pas répété.
- Un ami…qui partage mes plaisirs et mes peines (p. 199).

 

Anne ha trovato una propria chiave di lettura per il personaggio di Marie scoprendo il segreto dell’essere attrice, e lo ha fatto in modo indipendente, senza una direttiva esplicita da parte di Bresson. L’iniziazione è compiuta e termina anche il periodo delle riprese, che sancisce anche il rientro alla quotidianità dell’ultimo anno di liceo e di Parigi.

Ma la vita di Anne «ce serait encore une autre chose» e dal paradigma iniziatico si entra in quello della formazione, che è orientata sempre al futuro, nei due romanzi successivi che si concentrano sulla parabola, prima ascendente e poi discendente, del rapporto che Anne intrattiene con Jean-Luc Godard, andando di pari passo all’esperienza cinematografica e intellettuale della protagonista all’interno di anni ‘cruciali’, dal 1966 al 1969. Une année studieuse copre un primo arco temporale, dal 1966 al 1967, dal primo incontro epistolare con Godard all’innamoramento – e successivo matrimonio – sino alle riprese de La Chinoise (1967) [fig. 5]. Un an après segue la coppia nei due anni successivi, alle prese con il maggio francese che i due vivono in prima linea, e a partire dal quale si evidenziano le differenze, non solo sentimentali ma anche a livello di concezione del cinema, che si profilano come sempre più divaricanti.

Come nel romanzo precedente, anche in questi due troviamo al centro della narrazione il rapporto tra la protagonista e un regista affermato, e benché si configuri sin dall’inizio all’insegna dell’innamoramento – a differenza di quanto accade in Jeune fille – sono tuttavia evidenti alcune somiglianze nella relazione con Bresson. L’inizio della vicenda prende avvio da una lettera che Anne invia a Godard dopo aver visto Masculin Féminin ed esserne rimasta folgorata. Aveva già incontrato fugacemente Jean-Luc in tre occasioni relative al lancio di Au hasard Balthazar, ma la visione del film e del precedente Pierrot le fou fanno scattare nella giovane donna un’ammirazione ammantata, in questo caso, di un ulteriore sentimento amoroso. Il corteggiamento prima e l’innamoramento poi che si instaura tra Anne e Jean-Luc si situa dunque ancora sotto l’egida di un disequilibrio sul piano del riconoscimento artistico e intellettuale: nonostante il ruolo principale ricoperto nel film di Bresson, Anne è ancora principalmente una studentessa alle prese con l’ultimo anno di liceo e con l’università, mentre Godard è già considerato un regista icona di una generazione, dunque mitizzato. Come per Bresson, anche per Godard si profila un atteggiamento a tratti pedagogico (porta Anne a vedere film e le regala libri che lui giudica importanti per la sua formazione intellettuale) e questo atteggiamento si acuirà in particolare dopo l’adesione sempre più fervente da parte di Godard ai movimenti studenteschi marxisti-leninisti, che lo avrebbero portato successivamente a pensare a un nuovo modo di fare cinema, collettivo e ideologico. Come Bresson, anche Godard ben presto manifesta una possessività e una gelosia nei confronti di Anne che, considerata alla stregua di una musa, il regista pretenderebbe di avere tutta per sé. Ed è nel progressivo rifiutarsi di assecondare l’esclusiva volontà del marito che Anne prosegue, attraverso la carriera attoriale nel cinema italiano, la propria Bildung artistica e di donna. Se le riprese all’interno del film pasoliniano Teorema [fig. 6] non trovano particolare risonanza in Un an après, nell’ultima parte del romanzo emergono sempre più chiaramente le molteplici collaborazioni che Anne intrattiene con i principali cineasti italiani dell’epoca: Bertolucci la ingaggia per un ruolo all’interno del Conformista (anche se di fatto poi il film prenderà altre strade), Pasolini la vuole in uno degli episodi di Porcile, Carmelo Bene la convince a partecipare ai Capricci [fig. 7], e Marco Ferreri le propone un ruolo da protagonista ne Il seme dell’uomo [fig. 8]. Dei set italiani, benché manchi la dovizia di particolari riservati a Au hasard Balthazar o a La Chinoise, viene sottolineato il carattere gioioso, energizzante, che riflette la disposizione stessa della narratrice/personaggio. L’allontanamento fisico ma anche intellettuale dal cinema che Godard sta invece ipotizzando con il futuro collettivo Dziga Vertov rappresenta per Anne il compimento della propria crescita di attrice, ma anche di emancipazione rispetto a figure maschili eccessivamente ingombranti. Il romanzo termina con il tentativo di suicidio da gelosia che Godard commette durante una visita ad Anne sul set del film di Ferreri. L’evento drammatico coincide con la fine del testo ma non con la fine della storia d’amore (che sarebbe terminata comunque di lì a poco), di cui la narratrice dice non voler scrivere perché a partire da quel momento le vicende cessano di avere un carattere paradigmatico dei tempi, diventando ‘banali’ e ‘private’.

Proprio la chiusa finale della narratrice ci induce a riflettere sulla forma narrativa che questi testi, definiti dalla stessa autrice ‘romanzi’, intrattengono con le narrazioni contemporanee ma anche con la specificità dell’ambiente di cui fa parte la protagonista, ovvero quello cinematografico della Francia e dell’Italia degli anni Sessanta. In più di un’occasione, alla domanda esplicita sul proprio rapporto con il genere dell’autofiction – forma di scrittura particolarmente diffusa nel mercato editoriale francese – Anne Wiazemsky ha risposto con un categorico rifiuto di quella che lei definisce la «banderole de l’autofiction». Wiazemsky vuole allontanarsi tanto dal rischio di un’accusa di narcisismo tipico del genere, quanto dall’immediatezza dell’espressione narrativa dell’autofiction, che spesso utilizza il tempo presente nella narrazione. Per contro, è «quelle folle qu’est la mémoire» ad agire nella propria scrittura, capace di modificare, cancellare, selezionare, inventare, mascherare, mistificare gli eventi della propria vita.

In tutti e tre i romanzi la narrazione è infatti volta al passato – imperfetto e passato remoto – marcando dunque l’appartenenza delle vicende ad un tempo non solo innegabilmente lontano, ma anche necessariamente ri-plasmato, ri-strutturato sulla base dello stesso atto narrativo. Proprio l’insistenza sull’importanza della memoria ci allontana dal meccanismo autofinzionale e ci conduce ancor di più verso il polo della divagrafia, nonostante il contesto culturale e cinematografico entro il quale si pone l’esperienza di Anne sia decisamente distante da quello dello star system, collocandosi piuttosto in una dimensione di cinema indipendente, di rottura, d’autore, molto spesso sperimentale, in cui il processo di canonizzazione non passa attraverso il divismo – connubio di industria cinematografica, mass media e consenso di pubblico – ma attraverso quello del culto dell’icona, iscritto all’interno di un gruppo molto più ristretto, solitamente elitario, in questo caso di cineasti e cinefili. Un processo, questo, che avviene molto spesso in tempi decisamente successivi – a differenza di quello divistico, che deve, per ragioni anche economiche, manifestarsi in modo contemporaneo alla carriera attoriale. Laddove la diva deve continuamente negoziare la propria narrazione di fronte a un pubblico tendenzialmente cannibale, che la divora e interessato a leggere nella sua immagine le proprie proiezioni desideranti più che la sua interiorità, l’attrice icona sembra poter mantenere un grado maggiore di autonomia nella costruzione narrativa del sé.

Wiazemsky, dunque, non pare subire l’inconscia coercizione a parlare di un’immagine che corrisponda a quella del discorso pubblico, ma ha la libertà di costruire un personaggio a tutto tondo che trae linfa vitale anche e soprattutto dal contesto culturale a partire dal quale ha attinto successivamente al ruolo di icona. La protagonista della narrazione, più che una diva che occupa interamente la scena, si configura come osservatrice e partecipante privilegiata di un’epoca e un’atmosfera della quale si cercano di restituire i tratti caratterizzanti attraverso numerose descrizioni di fatti storici (la cronaca delle proteste degli studenti vissute in prima persona dalla protagonista o ascoltate alla radio), così come alla centralità rivestita da parte degli altri co-protagonisti– in primis Bresson e Godard – su cui l’attenzione della narratrice/protagonista si sofferma senza mai però abbandonare il proprio punto di vista, e senza dunque indagare o speculare sulla loro interiorità.

Ci troviamo, infatti, di fronte a una narrazione interamente in prima persona, ed è sintomatico che la focalizzazione interna espressa dalla narratrice si mantenga sempre aderente all’io narrato e alla temporalità del passato, e quasi mai al tempo presente dell’io narrante, salvo pochissime infrazioni trascurabili nell’economia narrativa e che anzi rafforzano tale processo. Io narrante e io narrato non entrano quasi mai, sintatticamente ma anche eticamente, in contatto. Non c’è mai un processo di distanziamento da parte dell’io narrante rispetto al sistema di sentimenti e credenze dell’io narrato; inoltre, i pochi momenti in cui l’io narrante palesa la propria presenza sono costituiti da messe in scena di attività memoriali (la narratrice ritrova un passo da un proprio diario, guarda una vecchia fotografia) che confermano lo stato d’animo dell’io narrato. Allora proprio la costruzione di un punto di vista fondato sulla focalizzazione interna spostata quasi esclusivamente sul versante dell’io narrato e non su quello dell’io narrante può diventare l’elemento discriminante a partire dal quale leggere il grado e il livello finzionale della narrazione di Wiazemsky, che dunque fa agire il proprio personaggio doppiamente nei termini di ‘attrice’.

E proprio a partire da questo dato possiamo meglio comprendere le affermazioni di Wiazemsky a proposito di Jeune fille, ma che potremmo estendere anche al resto della trilogia:

 

Qui est la jeune fille du titre ?
J’espère que c’est une jeune fille qui est assez représentative d’autres jeunes filles, et même si je me suis beaucoup inspirée de moi, je l’ai, je l’espère, suffisamment « agrandie » pour qu’elle devienne une héroïne de roman. […]
À la fin, le film se termine, elle fait sa rentrée des classes avec la perspective du bac philo, la vie s’ouvre devant elle. C’est, là aussi, toute la différence entre roman et autobiographie. Mon autobiographie serait toute différente, parce que mes sentiments étaient beaucoup plus mélangés. Là, c’est une fin ouverte et heureuse : la jeune fille ne connaît pas son chemin, mais elle y va, alors qu’au début c’était une petite chenille qui rasait les murs…

 

Bibliografia

E. Bronfen, B. Straumann, Diva. Eine Geschichte der Bewunderung, München, Schirmer und Moser Verlag, 2002.

P. Cabibbo (a cura di), Sigfrido nel nuovo mondo: studi sulla narrativa di iniziazione, Roma, La goliardica, 1983.

V. Colonna, Autofiction & autres mythomanies littéraires, Auch, Tristram, 2013.

M. Cometa, 'Al di là dei limiti della scrittura. Testo e immagine nel "doppio talento"', in M. Cometa, D. Mariscalco (a cura di), Al di là dei limiti della rappresentazione. Letteratura e cultura visuale, Quodlibet, Macerata-Roma, 2014, pp. 47-78.

I. Grell, L’autofiction, Paris, Armand Colin, 2014.

L. Marchese, L’io possibile. L’autofiction come paradosso del romanzo contemporaneo, Massa, Transeuropa, 2014.

M. Rizzarelli, ‘L'attrice che scrive, la scrittrice che recita. Per una mappa della 'diva-grafia'’, in L. Cardone, G. Maina, S. Rimini, C. Tognolotti (a cura di), Vaghe stelle. Attrici del/nel cinema italiano, Arabeschi, 10, 2017, http://www.arabeschi.it/13-/ [accessed 22.09.2019].

A. Wiazemsky, Jeune fille, Paris, Gallimard, 2007.

Ead., Une année studieuse, Paris, Gallimard, 2013.

Ead., Un an après, Paris, Gallimard, 2015.