4.2. Il corpo rappresentato. Sulle ricerche di alcune artiste e fotografe italiane negli anni '70

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Sin dai finali anni Sessanta sono molti gli artisti che utilizzano il corpo come mezzo per dare vita ad operazioni che, nella prassi come sul piano concettuale, arrivano in taluni casi a fare coincidere tale strumento espressivo con l'oggetto della loro riflessione. Non si tratta, infatti, soltanto di vedere nel corpo un nuovo medium, sulla scia delle esperienze di certa avanguardia di inizio secolo, ma pure di porre la fisicità dell'essere umano al centro di una riflessione di natura esistenziale ed identitaria. Il corpo, proprio in quegli anni, è protagonista di una liberazione di fondamentale importanza a livello culturale, sociale e il nuovo modo di concepire la corporeità comporta per tutti una differente consapevolezza, quindi inedite modalità di sentirsi, di viversi e di rapportarsi agli altri. Il corpo infatti è il luogo primario della comunicazione con il mondo circostante.

La pelle è la pellicola che ci separa dal mondo, ma che contemporaneamente ci tiene quotidianamente in contatto con esso; definisce lo spazio più intimo che abbiamo, ma raccoglie in continuazione le più varie suggestioni esterne. Il corpo quindi diventa un elemento di forte valore simbolico. Così, come nota Umberto Galimberti, una volta che ci si è sbarazzati dei numerosi condizionamenti socio culturali legati alla dimensione corporale, si può finalmente guardare al corpo anche come ad uno strumento utile a esprimere pienamente se stessi, in grado di produrre senso in virtù di una nuova forma di linguaggio, «come sistema di segni per produrre significati»; una operazione, questa, che comporta una sorta di «disincarnazione del corpo, una sua trasformazione in un primo materiale atto a significare» (Galimberti 1983, p. 20).

Se fare arte non significa più produrre oggetti ma innescare una esperienza estetica, è chiaro che usando il corpo, agendo nella dimensione concreta dell'esistere, coinvolgendo lo stesso spazio fisico dello spettatore, l'artista riesce a comunicare ad un livello profondo, in grado di spingersi sino a un piano ancestrale e prelinguistico, come molte azioni performative di quegli anni testimoniano.

Va però ricordato, come fa Elena Di Raddo, che

negli artisti europei, soprattutto quelli italiani, la ‘messa in scena’ del corpo in azioni, che esploravano direttamente o indirettamente comportamenti o esperienze intime o sociali, ha assunto un carattere cognitivo che l'ha differenziata dalle performance prettamente emotive e liberatorie di altri body artisti

Inoltre, il diffondersi di istanze performative di differente matrice non è il solo modo di dare al corpo un ruolo da protagonista nell'arte: esso parla anche quando rappresentato. Lo stretto legame con la parte più autentica del proprio essere che l'artista stabilisce lavorando sul (e non solo con il) proprio corpo, implica automaticamente una riflessione sull'essere, un lavoro intorno alla propria identità, che si spinge anche a complesse considerazioni sul più complesso piano teorico.

Non è un caso che nell'estate del 1974, sulla rivista Data, Gianni Tibaldi – studioso di psicologia – abbia dedicato un articolo al corpo, che «è di moda: nell'arte, nel costume, nelle scienze psicologiche e del comportamento» (Tibaldi 1974, p. 58). Dopo una lunga dissertazione in cui analizza le basi psicologiche dell'espressività del corpo, Tibaldi conclude spiegando che

la sublimazione attuata attraverso l'arte non si serve del corpo come di un modello o di un regno ma si identifica nel corpo come nel proprio oggetto: vivere il corpo, rappresentarlo, mostrarlo appaiono come momenti alternati ma equivalenti di un processo di ricreazione dove il corpo – simbolo esprime sé a se stesso (Tibaldi 1974, p. 59).

Naturale, dunque, che siffatta attitudine sia stata interpretata, e sfruttata appieno, soprattutto dalle artiste, che hanno approfondito i temi legati alle suddette importanti questioni, trasformandosi in una sorta di pattuglia avanguardistica, spesso capace di aprire la via a nuove sperimentazioni linguistiche. Al centro di molte delle rivendicazioni femministe, incentrate sulla sessualità e sulla maternità, il corpo diventa così anche soggetto prediletto da artiste e fotografe impegnate negli anni Settanta a condurre la loro battaglia anche attraverso le espressioni estetiche.

Anne Marie Sauzeau Boetti, tra le più attive nell'ambito della critica femminista italiana, nel 1976 ricorda che:

Lucy Lippard [...] sottolinea la clamorosa presenza di materiale sessuale, facilmente spiegabile anche a livello di comportamenti: le donne sono da così tanto tempo oggetti sessuali che sono coscienti della presenza fisica del loro corpo (anche se non riescono ad identificarsi con esso) molto più degli uomini. Gli uomini hanno coscienza del loro cazzo. Ma le donne hanno coscienza di ogni movimento che fanno in pubblico, perché assumono un contenuto sessuale per il sesso opposto. Un po' di tutto questo deve per forza passare nel lavoro artistico (Boetti 1975, p. 56).

 

Come ben approfondito da Raffaella Perna, alcune autrici (la studiosa in particolare riflette sulle ricerche di Judy Chicago, Ana Mendieta e Nancy Spero) realizzano lavori che,

spesso accusati di essenzialismo, […] sfuggono a definizioni univoche: pongono infatti l'accento sulla corporeità della donna senza però definire una netta cesura tra gli aspetti biologici e quelli culturali e storico sociali. Molto efficace nelle loro opere è infatti l'allusione all'archetipo della Grande Madre, «una forma di spiritualità alternativa, che pone in discussione l'assetto patriarcale e dogmatico delle religioni giudaico – cristiane» (Perna 2015, p. 215).

Pure in Italia, la riflessione sul corpo si sviluppa secondo differenti accezioni ma assume sempre un ruolo centrale nelle ricerche delle artiste femministe, e non soltanto, attive a partire dalla metà degli anni Settanta: sulla scia delle teorizzazioni condotte dal femminismo della differenza, esso diventa elemento prediletto per qualsiasi asserzione di diversità (identità). Anzitutto, quindi, una nuova rappresentazione del corpo nasce dal ripensamento dell'immagine femminile abitualmente proposta dai media popolari, nel tentativo di offrire una visione alternativa della femminilità, non frutto di uno sguardo maschile, e quindi di riscrivere una storia della donna proprio a partire dalla sua immagine “fisica”, come appare esplicitamente in alcune opere, spesso fotografiche, di molte autrici, tra cui Marcella Campagnano, Nicole Gravier, Verita Monselles, Lucia Marcucci e Ketty la Rocca.

La ricerca sul corpo condotta da artiste e fotografe va però ben al di là della denuncia degli stereotipi imposti dalla società patriarcale o dal tentativo di proporre astratti modelli antagonisti a quello maschile, ponendo invece il corpo come luogo da cui ripartire, senza l'ortodossia di false certezze, per una indagine profonda e radicale della immagine femminile, sepolta da secoli di cultura, anche visiva, tutta maschile. E ciò accade non senza contraddizioni.

In questo senso mi pare interessante una ricerca condotta da Carla Cerati alla metà degli anni Settanta, poi confluita nel volume Forma di donna, pubblicato da Mazzotta nel 1978: la serie di Nudi di donna [figg. 1-2] nei quali la fotografa lascia scorrere il suo occhio sul corpo femminile. Questo lavoro è stato sin dall'epoca della sua realizzazione oggetto di polemiche e contestazioni, poiché si accusava l'autrice di eccessivo formalismo e di non rendere giustizia alla donna assumendo nel ritrarne il corpo nudo da una prospettiva sentita come troppo tradizionale. Mi pare in ogni caso interessante sottolineare come, comunque, Cerati abbia sentito l'esigenza di leggere la fisicità femminile con i suoi occhi, focalizzando la sua attenzione su un tema all'epoca ineludibile in seno al dibattito femminista. Molti sono gli esiti, in ambito artistico e più specificatamente fotografico, dello sguardo autoriflessivo delle donne: bisogna almeno citare, tra le moltissime ricerche che si collocano su questa linea, i lavori di Tomaso Binga (Bianca Menna), Iole de Freitas, Ketty La Rocca, Libera Mazzoleni e Silvia Truppi. Ma tra le numerose testimonianze di tale protagonismo della corporeità, che si sono articolate sin dall'epoca secondo differenti intenzionalità e modalità espressive, mi piace qui soffermare brevemente l'attenzione su alcuni casi, anche qui tra i numerosi, di artiste che hanno lavorato rappresentando il corpo, fissandolo sulla pellicola e lasciando in sospeso – pur non negandone la presenza in filigrana – le istanze più meramente performative, per concentrarsi invece sulla traduzione della fisicità femminile in immagine, al di fuori della esplicita contestazione degli stereotipi proposti dalla cultura di massa.

Un atteggiamento come quello che è evidente nel film che Giosetta Fioroni [figg. 3-4] ha presentato nel 1969 alla Galleria del Naviglio di Milano, Solitudine femminile, il quale riprende alcune dinamiche che l'artista ha adottato nei suoi dipinti più famosi, come quelli della serie degli argenti, in qualche misura anch'essi incentrati proprio sull'idea della 'pellicola', cioè della proiezione di una immagine che appare privata della sua fisicità. In questo film il corpo della protagonista, il suo fantasma visivo, vengono infatti sovrapposti a figure femminili tipiche dell'immaginario mediatico, con le quali sono messi in stretta dialettica, in uno slittare di piani che denuncia la complessità del vivere se stesse.

La tensione tra la fisicità del corpo e le valenze simboliche che esso incarna è evidente in alcuni lavori di Paola Mattioli, fotografa da sempre impegnata a mettere in campo lo sguardo delle donne: nel 1975 affronta con una serie di fotografie della sua ‘pancia’ [figg. 5-6] un tema delicato e al contempo potente come quello della maternità, sul quale ritornerà nel 1977, realizzando la bellissima serie intitolata Sara incinta, la cui fresca spontaneità risulta essere un contributo importante nella riflessione femminista. Nel fotografare la pancia, l'autrice trasforma l'immagine del corpo in un supporto sul quale colloca una serie di elementi connotativi, di forte valenza simbolica, che nella loro convenzionalità fungono da contrappunto alla naturalezza della nascita e traducono con ironia la rappresentazione della maternità sul piano della metafora, portando però il discorso nel cuore della dialettica natura/cultura. Anche Diane Bond ha concentrato il suo interesse sul corpo femminile nel momento della maternità, alternando differenti registri – come Mattioli – in diversi lavori. Gli scatti presi presso il CED nel 1974, [fig. 7] una esperienza svolta col mezzo fotografico nel cuore della realtà, non rappresentano certo la sola occasione in cui l'artista, la cui ricerca svolta con più mezzi espressivi è in buona parte incentrata sul corpo femminile, si è confrontata con questo tema. Con la sua solita verve, Bond infatti aveva desacralizzato la condizione della donna incinta, la cui figura resta tesa tra realtà e convenzioni, in alcuni dipinti che sublimano con la sottile arma dell'ironia tematiche tanto cogenti, soprattutto in quel momento culturale [fig. 8].

Bibliografia

E. Di Raddo, ‘Il corpo 'sentito' tra assenza e presenza’, in L. Caramel (a cura di), Arte in Italia negli anni '70. Verso i Settanta (1968-1970), catalogo della mostra, Erice, La Salerniana 10 agosto-31 ottobre 1996, Milano, Charta, 1996.

U. Galimberti, Il corpo: antropologia, psicoanalisi, fenomenologia, Milano, Feltrinelli, 1983.

R. Perna, Il potere del secondo sesso. Il corpo della donna e il culto della Dea nell'arte femminista degli anni Settanta, in Massimiliano Gioni (a cura di), La Grande madre, catalogo della mostra, Palazzo Reale, Milano, 26 agosto-15 novembre 2015, Skira, Milano 2015, pp. 215-219.

A.M. Sauzeau Boetti, ‘Artiste donne, L'altra creatività’, DATA, nn. 16/17, estate 1975, pp. 54-59.

G. Tibaldi, ‘Il corpo, l'umanismo, l'arte’, DATA, n.12, estate 1974, pp. 56-57.