4.5. La querelle del nudo sulle scene dei teatri d’avanguardia a Roma negli anni Sessanta e Settanta

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Il corpo vive.

Il rifiuto di concedergli la propria importanza non è che un pregiudizio intellettuale.

Germaine Greer

 

 

Negli anni Settanta la lotta delle donne in Italia ha avuto una forte dimensione corporea, facendo «della soggettività, dell’autorappresentazione e della narrazione dei vissuti personali il principale strumento di liberazione individuale e collettiva» (Stelliferi 2015, p. 4).

Il movimento presenta caratteri distintivi che impregnano la ricerca artistica femminista emersa negli stessi anni nel nostro Paese, svolgendo un’azione di critica radicale verso gli obiettivi di conquista di uguaglianza giuridica e di parità formale tra i sessi che erano stati al centro delle rivendicazioni precedenti (cfr. Lussana 2012).

In un’epoca di ribollente sommovimento socio-politico, la questione del corpo delle donne assume un ruolo assolutamente centrale: il linguaggio del corpo si rivela, ancora una volta, quello di cui le donne s’impadroniscono più facilmente in teatro e che agiscono per comunicare la propria rivolta, il proprio disagio, la propria differenza, contro le immagini dominanti nello spazio mediatico che propone corpi dalla pelle lucida e compatta, performanti e asettici, senza difetti.

Per il movimento delle donne, il teatro non è la rappresentazione di una realtà che si svolge altrove, ma la condivisione della propria esperienza e la possibilità di esaltare la propria alterità, il proprio ʻessere donnaʼ. Il progetto di ricerca Donne di teatro a Roma ai tempi della mobilitazione femminista (1965-1985), di cui faccio parte insieme a Roberta Gandolfi e Francesca Fava, intervistando le protagoniste degli spettacoli degli anni Settanta a Roma, intende non perdere la memoria di quelle esperienze. Sono anni in cui alcune attrici si trovano al centro di flussi socio-politici ai quali rispondono mettendosi in gioco totalmente, a partire dal proprio corpo di donna e dalla propria storia personale.

Tra le attrici di teatro c’è l’esigenza di non distinguere più tra persona e personaggio, il desiderio di proporsi come donna e come attrice insieme, non più sottomessa alle storie legate all’immaginario maschile, per intraprendere un percorso di ricostruzione e liberare il corpo.

L’attrice si spoglia per provocazione e anticonformismo. Inoltre, nonostante i testi drammaturgici tradizionali non la vedano al centro della narrazione, alcune accettano la nudità per ritrovarsi comunque protagoniste, sulla scia della rivoluzione sessuale che avanza rapida nell’Italia provinciale, ma con un’urgenza che va ben aldilà di quella. Scrive Giovanna Maina:

 

Alla fine degli anni Sessanta, dunque, il sesso sembrava non essere più rigidamente compartimentato all’interno di perimetri deputati, fossero essi luoghi fisici (la camera da letto e il bordello, ad esempio) o precise situazioni comunicative. Al contrario, le immagini e i discorsi riguardanti la sfera sessuale si stavano cominciando ad affrancare dalla reticenza e dal “segreto”, per invadere tanto i quotidiani scambi comunicativi tra persone, quanto (soprattutto) l’industria culturale e la scena mediale (Maina 2018, p. 9).

 

Tra il 1973 e il 1982 la rivista femminista ʻeffeʼ guida il dibattito sulla riappropriazione del corpo delle donne (vedi Gandolfi 2018-2).

Germaine Greer, autrice del noto testo L’eunuco femmina, interviene, sul primo numero della rivista (novembre 1973), con ‘Il nudo non è in vendita’, articolo in cui rivendica la bellezza di quelle parti del corpo che sono state per secoli stigmatizzate come vergognose e diaboliche: «Dobbiamo adoperare il corpo femminile come strumento di espressione della nostra speranza, del nostro futuro, non ricacciarlo un’altra volta dentro il busto di timore e vergogna». La Greer mette in guardia dai falsi pudori: «Se noi, in quanto femministe e disgustate dallo sfruttamento commerciale del corpo della donna, poniamo un veto alla rappresentazione del nostro nudo, perpetuiamo lo stesso errore dell’Inghilterra cinquecentesca, rinchiudiamo il corpo della donna di nuovo nella cassaforte, facendone aumentare il valore di mercato, e quindi la possibilità massima di sfruttamento commerciale» (Greer 1973). Sdogana in questo modo il desiderio di libertà sessuale delle donne, la scoperta che: «Il corpo è mio e lo gestisco io»; per lei «il nudo femminile autentico è ancora da riscoprire, e non possono farlo se non le donne, fiere di essere tali»: esporsi a pelle nuda serve a rivendicare il diritto a un’immagine non patinata ma ben più reale del corpo della donna, completo degli odori più sgradevoli e dei liquidi più viscidi come saliva, mestruazioni e sudore.

Alcune attrici dell’avanguardia romana, Rossella Or, Lucia Poli, Lucia Vasilicò, riescono ad autoprodursi dei monologhi di cui sono anche autrici. I nuovi testi scandalizzano e fanno riflettere, perché le attrici finalmente raccontano di sé, mostrando il proprio corpo ‘normale’ e le proprie angosce personali. La pelle messa a nudo diviene zona di frontiera del corpo ma anche spazio di comunicazione, spazio d’espressione ambiguo: organizzazione di segni che mette in scena i fantasmi, i desideri, le rivendicazioni, territorio di autoespressione contro la convenzione erotica maschile, luogo di conflitto e di scrittura del proprio disagio.

Vorrei accennare, con brevi esempi, alle tre diverse strade intraprese dalle attrici nell’uso della loro nudità: il primo è il corpo esibito di Rossella Or, che è liberazione attraverso la provocazione; poi il corpo sfruttato dai registi teatrali, quello di Lydia Mancinelli e delle altre che si lasciano usare per avere un ruolo, denunciato da Dacia Maraini su ʻeffeʼ; e infine quello dell’atto estremo, il corpo ferito e dolorante esplorato sulle scene della performance (vedremo il caso di Gina Pane), ma ripreso anche da alcune teatranti.

Rossella Or nei primi spettacoli è spesso a seno nudo e muta ma in seguito sceglie di esporre di sé un corpo diverso, non patinato e non mitizzato. Debutta come autrice e regista di se stessa nella performance Corpovoce del 1977, ancora corpo senza parola, a cui segue Respiro sospeso, monologo del 1978 prodotto dal Beat72, presentato anche al Teatro La Maddalena. Un testo sonoro è registrato, altre parole e le azioni agiscono in parallelo, in uno spazio delimitato da chiodi. Il tessuto sonoro e il parlato portano lo spettatore in una dimensione onirica. In una recensione, Franco Quadri lo chiama «teatro privato» (intervista a Or Rossella di Fava Francesca e Giacobbe Borelli Maia, Roma, 02 luglio 2015).

Una fotografia della giovane Rossella Or, allora diciassettenne, faccia truccata e seno nudo nello spettacolo Pirandello chi? di Memé Parlini del gennaio 1973, foto pubblicata sull’ʻEspressoʼ e scattata da Donatella Rimoldi, anni prima aveva provocato uno scandalo [fig. 1; fig. 2]. Per lei si tratta di una posa normalissima, un topless non dissimile da quelli già presenti nelle spiagge italiane, ma con queste immagini acquista notorietà fuori dallo stretto giro dell’avanguardia (cfr. l’Intervista a Rossella Or già citata). Scoppia la polemica della stampa femminista sull’opportunità o meno per le attrici di mostrarsi nude negli spettacoli diretti dagli uomini.

Il nudo in scena è liberazione, ma a volte è ancora sfruttamento del corpo della donna.

Dacia Maraini su ʻeffeʼ, nell’estate 1976, con ‘Strappiamo il sipario, facciamone dei vestiti’ denuncia la mercificazione del corpo femminile nel teatro italiano e si schiera coraggiosamente contro il nudo sulle scene dell’avanguardia. Definisce quest’ultima un mondo a direzione maschile, ancora monopolizzato da registi e autori e da storie che mercificano il corpo femminile: «Il grosso delle parti per donne è offensivo e francamente denigratorio» afferma; e spiega:

 

Il fatto è che alla diffusione del femminismo non ha corrisposto una presa di potere, anche minima, da parte delle donne. Il potere (di esprimersi, di fare progetti, di organizzare spettacoli, di ottenere sussidi) è ancora saldamente in mano agli uomini, registi, impresari, amministratori che siano. Questa è la ragione per cui, mentre tutto sta cambiando nella testa e nel cuore delle donne, sul palcoscenico si continuano a recitare vecchi drammi di sopraffazione, di sadismo, di violenza sulla donna.

 

Conclude con una proposta in quattro punti: formare un gruppo per combattere la strumentalizzazione del corpo della donna in teatro, distribuire nei teatri un bollettino che denuncia «i casi più vistosi di abuso del corpo della donna», organizzare azioni di disturbo degli spettacoli che denigrano apertamente la donna, e infine proporre «una carta dei diritti delle attrici, che non riguardi solo le loro giuste esigenze economiche, ma prenda in considerazione l’integrità morale e psicologica della persona umana» (Maraini 1976, pp. 24-26). Il movimento delle donne entra con le sue rivendicazioni nel mondo del teatro.

Di fatto gli spettacoli delle cantine romane sono costellati di donne spogliate e mute: il nudo di Manuela Kusterman (un seno rosso e uno blu) ne Il risveglio di primavera di Wedekind con la regia di Giancarlo Nanni (1971) [fig. 3]; Tarzan (1974) di Memé Perlini, dove le donne con i seni nudi saranno due [fig. 4]; il nudo integrale di Lucia Vasilicò in Le 120 Giornate di Sodoma (1972), regia di Giuliano Vasilicò [fig. 5]; La conquista del Messico del Patagruppo, sempre nel 1972 al Teatro Uomo, poi ancora Locus Solus di Memé Perlini all’Attico (1976) ancora con Rossella Or, dove le donne a seno nudo diventano quattro.

Nel 1977 le femministe francesi contestano con lancio di uova e pomodori il nudo integrale delle donne e di Lydia Mancinelli in S.A.D.E., alla quale Carmelo Bene aveva già strappato a sorpresa i vestiti nel 1964, lasciandola nuda in scena nell’Amleto all’anteprima a Spoleto. Lei ancora ricorda quegli episodi della sua vita d’attrice come ‘gloriosi’, come una conferma del proprio potere di seduzione: «Per me la nudità non è mai stata un problema» ricorda, «io ero la più bella, la più brava…e anche la capocomica» (intervista a Mancinelli Lydia di Fava Francesca e Giacobbe Borelli Maia, Roma, 3 settembre 2015).

Per le femministe è troppo: le Nemesiache, gruppo napoletano, organizzano l’8 marzo del 1977 una ʻManifestazione per la riappropriazione della nostra creativitàʼ. Nella convocazione dichiarano: «NO all’espropriazione del nostro corpo con l’utilizzazione del nudo fatta dalle industrie cinematografiche e dalle pseudoavanguardie, al cinema, teatro, stampa, televisione» (Nemesiache, in Silvi, 1980, p. 127).

Intanto, nei primi anni Settanta si afferma la performance come pratica artistica autonoma. E le performer presentano azioni che mettono al centro della scena artistica il loro corpo di donna.

Riflette Francesca Gallo:

 

Alla concomitanza cronologica si aggiunge anche una sorta di affinità, fra pensiero e rivendicazioni del femminismo da un lato, e Body Art dall’altro, centrato sulla centralità del corpo e dei suoi connotati sessuali. Così, oltre agli inevitabili echi del dibattito politico e culturale nelle azioni di molte artiste attive a livello internazionale, in alcuni casi si rintraccia una prospettiva dichiaratamente di genere, in cui militanza e ricerca espressiva si mescolano (Gallo 2014, p. 132).

 

Gina Pane, che vive tra l’Italia e la Francia, propone «azioni in cui il sangue, anche nella variante mestruale, e il latte come alimento base della vita e metonimia dell’amore materno compaiono sovente insieme» (Gallo 2014, p. 135). Nel novembre 1973 a Milano, Galleria Diagramma, propone Azione sentimentale «un circuit fermé d’échange-miroir: femme/femmes s’identifiant au processus de l’affect primaire» (Pane 1973, p. 13).

Esplora il suo corpo e si ferisce in scena. Per lei la ferita funziona come atto di resistenza ʻcrudeleʼ (proprio nel senso indicato da Artaud) contro lo statuto politico della carne. E la ferita è anche un carattere distintivo del discorso corporeo femminile, un rimando al suo sanguinamento periodico. Un’azione artistica diretta al/alla suo/a spettatore/trice diventa così un’azione politica di segno femminista, proprio attraverso la condivisione del sangue. L’azione è «traversé par la blessure illimitée, verité du dedans et du dehors» (Pane 1973, p. 33). La ferita, dice Pane, è verità interiore che affiora alla superficie, ma a livello simbolico c’è molto altro: «rose rouge, fleur mystique, transmutée en vagin par une reconstitution dans son état le plus actuel: douloureux» (Pane 1973, p. 13).

Nel 1974 Pane esprime in Lettre à un(e) inconnu(e) il suo disagio esistenziale e artistico mettendo al centro della scena il suo corpo ferito, rivendicandone la debolezza, prendendo coscienza dei fantasmi che la perseguitano, riflesso dei miti sociali che condizionano il comportamento di tutte le donne. E termina con un’esplicita chiamata in campo: «SI J’OUVRE MON “CORPS” AFIN QUE VOUS PUISSIEZ Y REGARDER VOTRE SANG, C’EST POUR L’AMOUR DE VOUS: L’AUTRE» (Pane 1973, p. 16).

Nelle piazze il gesto femminista, ripetuto innumerevoli volte in quegli anni, ostenta in modo provocatorio la forma del sesso femminile, ʻla ferita nascostaʼ della donna. Conoscere il proprio corpo per esporre e smitizzare ʻl’antro tenebrosoʼ, ʻla tenebrosa vaginaʼ che ha riempito pagine di letteratura, è obiettivo del Gruppo femminista per la medicina della donna che pratica il self-help in Italia. L’uso dello speculum completo di uno specchio per esplorare l’interno della propria vagina porta ad accettare la diversità sessuale come valore e non come mancanza. Viene praticato sia nelle sedi dei collettivi che negli spazi del Teatro La Maddalena, luogo di aggregazione e riflessione per le donne dal 1973 al 1989, anche aldilà del teatro. Le donne si spogliano per praticare tra loro l’esplorazione ginecologica: è la riscoperta dei propri organi sessuali, esposti a se stesse per prime, ma anche allo sguardo delle altre. Si sceglie di aprire le gambe, per incontrare una verità, di solito nascosta, che riguarda entrambe e della quale non c’è più da vergognarsi. Un modo di portare simbolicamente alla luce, in superficie, qualcosa che era nel profondo di ogni donna: combattere quel senso d’inferiorità introiettato culturalmente e conoscere la propria sessualità, esporre la propria ferita, esorcizzare il dolore (cfr. Agosti, Perna e al., 2014).

Anche Lucia Poli nel suo monologo Liquidi (1976) procede a uno strip-tease che, oltre a denudarla parzialmente, opera un progressivo svelamento della sua interiorità psichica:

 

Esordii con uno spettacolo interamente scritto da me: Liquidi. Parlava della condizione della donna. Faceva ridere e scandalizzava.
Chi si scandalizzò?
Soprattutto le femministe che amavano il teatro didascalico. Io ero sul palco. Monologante. In una posa seduttiva e allegra. Civettuola. Poi improvvisamente dalla bocca fuoriuscivano liquidi. Sbavavo. La gente inorridiva. Fu uno strano esordio. […]
Per tornare allo spettacolo, nell’ultimo quadro cadevano ancora più pezzi, colava il sangue mestruale sulla gamba. Faceva impressione, come nella body Art. Gli uomini rimanevano sconvolti. C’era chi adorava lo spettacolo e chi invece lo detestava, anche gli articoli che sono usciti, alcuni esaltanti altri criticavano il gusto di certe scelte dicevano che era per scandalizzare. […]
Dopo un inizio sospetto, le femministe invece mi accolsero e chiesero di fare Liquidi alla Maddalena (intervista a Poli Lucia di Fava Francesca, Roma, 10 luglio 2014)

 

Provocare il disgusto e la repulsione diventa una delle possibilità di manifestare la propria differenza di donna. Come racconta la Poli, dopo l’iniziale diffidenza, nel novembre 1979 il Teatro La Maddalena organizza la rassegna La scimmia viola, ospitando, tra gli altri, il suo monologo e quello di Rossella Or. Le cantine del teatro femminista divennero l’ ‘utero’ all’interno del quale le attrici, mutando pelle, vivevano una nuova nascita, alla ricerca di una soggettività femminile libera dallo sguardo del maschio.

 

 

Bibliografia

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F. Gallo, ‘Temi di genere nelle pratiche performative delle artiste in Italia’, in I. Bussoni , R. Perna (a cura di), Il gesto femminista. La rivolta delle donne: nel corpo, nel lavoro, nell’arte, Roma, DeriveApprodi, 2014, pp. 132- 145.

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