Nel mondo dei media always on, che quotidianamente ci investono con una ʻgranularità di stimoliʼ da gestire con sempre più abile multitasking, il teatro, tra le più antiche forme di comunicazione artistica, ridefinisce il proprio statuto e la propria funzione mediali tramite l’appropriazione e l’elaborazione dei linguaggi attivi nel mediascape contemporaneo.
La questione dello sviluppo dell’arte teatrale in parallelo all’evoluzione della comunicazione e delle sue tecnologie, già asse teorico stratificato di riflessioni e traiettorie di ricerca, si arricchisce di un nuovo, significativo, momento di analisi e divulgazione con il volume Teatro e immaginari digitali. Saggi di mediologia dello spettacolo multimediale a cura di Alfonso Amendola e Vincenzo Del Gaudio (Gechi Edizioni, 2018).
Pubblicazione collettanea dalla spinta vocazione prismatica, il testo concentra l’attenzione di diversi studiosi nei confronti del «plesso semantico che tiene insieme il teatro con i nuovi media digitali» (Amendola, p. 18), nel segno di una prospettiva di ricerca duplice, media-archeologica e sociologica, ben argomentata nell’introduzione dai curatori.
Il primo approccio, seguendo l’intuizione dello studioso Jussi Parikka, si fonda sull’ «investigate the new media cultures through insights from past new media» (Parikka, 2002); il che significa, nell’indagine sul medium-teatro, riconoscere e valorizzare gli spettacoli pionieristici nell’uso delle tecnologie analogiche, che dagli anni Ottanta del secolo scorso sono riusciti a rideterminare i rapporti di forza tra teatro e media.
Muovono da tale punto di vista i saggi raccolti nella prima macro-sezione del volume, TEATRI DALL’ANALOGICO AL DIGITALE, che, con una prospettiva storica che va dai trenta ai quarant’anni, individuano nei fermenti della stagione videoteatrale novecentesca (italiana e internazionale) il fondamento di una nuova pratica di scrittura scenica multimediale e tecnologica. Il primo contributo è della giovane studiosa Jennifer Malvezzi e aggiunge un ulteriore tassello alle sue avviate ricerche sul videoteatro (J. Malvezzi, Remedi-Action. Dieci anni di videoteatro italiano, 2015), esaminando la meccanica visiva segnatamente cinematografica di uno spettacolo ʻstoricoʼ quale Punto di rottura (1979) di Carrozzone/Magazzini Criminali. L’appropriazione del cinema di Andy Warhol da parte della regia video dello spettacolo, che cita esplicitamente i celebri screen test dell’artista statunitense, sancisce la volontà degli autori Tiezzi e Lombardi di rimediare i linguaggi del cinema postmoderno; estendendo poi l’operazione di geniale remediation alla realizzazione di un film, creato mediante l’assemblaggio degli screen test utilizzati in scena.
Si dispiega sul piano teorico della rimediazione, qui declinata come ipermediazione performativa, anche il contributo di Mario Tirino, il quale ricostruisce il percorso che partendo dai romanzi di Peter Cheyney e passando per il film Alphaville di Jean-Luc Godard arriva allo spettacolo di Mario Martone Ritorno ad Alphaville (1986), ultimo lavoro di Falso Movimento e insieme avvio del progetto di Teatri Uniti.
Procedendo nei suoi rapidi cambi di scena come per montaggio di immagini spezzate, l’opera del regista napoletano, secondo Tirino «non si limita ad imitare l’effetto schermico del cinema, ma scompone il linguaggio cinematografico nei suoi elementi cardinali (luce, suono, corpo, immagine), rendendoli percepibili singolarmente» (p. 48). Segue l’attenta analisi di Annamaria Sapienza in cui viene messo a fuoco uno dei lavori più intensi e complessi dell’ʻetà aureaʼ del videoteatro italiano: La camera astratta (1987) di Giorgio Barberio Corsetti e Studio Azzurro. Avviato da un’utile premessa su «teatro ed elettronica: linguaggi e presenze» (p. 49), il testo di Sapienza descrive l’ambientazione astratta e fortemente mediatizzata da monitor dello spettacolo, per riflettere sulla sua capacità di includere e ʻteatralizzareʼ gli elementi dell’imperante immaginario elettronico (all’epoca ancora pre-digitale), e, per converso, di potenziare le modalità di fruizione dello spettatore teatrale, proiettando la sua immaginazione al di là dei limiti materiali del visibile.
«L’invisibile profanato dai dispositivi tecnologici [che] è diventato trasparente e visibile» (G. Barberio Corsetti e Studio Azzurro, citati a p. 55), dello ʻspazio mentaleʼ de La camera astratta, trova riverbero nella produzione site specific Memoria di pietra (1988) della compagnia Koinè (regia di Silvio Panini, scenografie di Mario Fontanini e videoinstallazioni di Giacomo Verde), analizzata con contezza e trasporto nostalgico da Carlo Infante. A metà tra viaggio performativo e percorso interattivo, l’happening Memoria di pietra consisteva nell’esplorazione della Rocca Albornoz (a Narni, in Umbria), guidata da informazioni in modulazione di frequenza radiofonica trasmesse ai partecipanti via auricolari. L’invisibilità di una drammaturgia teatrale che correva su onde radio si evolveva poi nelle videoinstallazioni che scandivano l’itinerario tra le Cappelle della Rocca, concluso con un ʻconvivio spettacolareʼ sulla cui tavola scorrevano monitor e cibi tradizionali. Dalla riscoperta del genius loci del paesaggio italiano nella performance interattiva e mediatizzata della Koinè, si passa, nel saggio che chiude la prima sezione del testo, all’analisi ʻtrans-storicaʼ di uno spettacolo-culto del regista canadese Robert Lepage, opera che lo ha reso famoso al grande pubblico internazionale: Les aiguilles et l’opium (1991).
È Annamaria Monteverdi, esperta del teatro di Lepage che segue e studia da vent’anni, a guidarci nel processo creativo (dettato da un approccio intimo-poetico alle forme del dolore) e nell’elaborazione tecnica (una macchina scenica volta alla composizione di ombre di oggetti, corpo reale e immagini proiettate) del pluripremiato one-man-show; esaminandone poi l’evoluzione del dispositivo scenografico, «arricchito dalla più attuale tecnologia digitale, la proiezione in videomapping su superficie in movimento» (p. 85) nella recente ripresa del 2013. Dall’artigianalità analogica Les aiguilles et l’opium passa al maggiore tecnicismo digitale: il crossing tecnologico operato da Lepage è segno inequivocabile di un’esigenza di aggiornamento, di ʻattualizzazioneʼ, avvertita dagli artisti del tecnoteatro contemporaneo.
Introdotta da questa prima sezione di media-archeologia, fondamentale per collegare la ricerca digitale odierna alle precedenti tecniche di multimedialità teatrale, la seconda parte del libro, TEATRI DIGITALI, affonda nel vivo del significato sociale che il teatro ha assunto nell’attuale ecosistema mediale, tenendo conto delle profonde mutazioni dell’immaginario collettivo a cui la società occidentale è andata incontro nell’arco degli ultimi trent’anni.
In quest’ottica le piste disciplinari si moltiplicano e, in una prospettiva comparata e sincretica, si diramano tra sociologia della comunicazione, mediologia, teatrologia, musicologia, innescando un meccanismo circolare per cui lo studio dell’«evoluzione della performance artistica permette anche di spiegare l’evoluzione dei linguaggi mediali» (Gemini, 2003), e pertanto di comprendere le istanze sociali ad essi inevitabilmente connesse.
In questa direzione d’intenti si articola il saggio di Vincenzo Del Gaudio sullo spettacolo Exils (2011) della compagnia belga Cia Artara. L’intuizione del mediologo Del Gaudio consiste nell’interpretare la quarta parete della performance, coperta da un velo bianco interamente proiettabile, come un forma di proto-schermo: uno schermo trasparente che mostra se stesso e apre alla visione mediatizzata della scena.
I saggi di Enrico Pitozzi, Angela di Maso e Milena Cozzolino ragionano da punti di vista differenti intorno alla dimensione sonora degli spettacoli multimediali. Se Pitozzi si concentra sui lavori del collettivo giapponese Dumb Type e del suo esponente di punta Shiro Takatani, interpretandone la dimensione visiva in rapporto al sofisticato soundscape, che oscilla «dall’impercettibile delle frequenze più basse e corporee, alla saturazione sonora intollerabile delle frequenze più alte» (p. 110) con lo scopo di de-centralizzare o multi-centralizzare la percezione del pubblico; di Maso rivolge uno sguardo doppio, teatralogico e musicologico, allo spettacolo Adam’s passion (2015), esito del felice connubio tra la drammaturgia della luce di Bob Wilson e quella musicale di Arvo Pärt composta sul Tintinnabuli: «metodo musicale ideato dallo stesso compositore estone a metà tra filosofia, matematica e liturgia» (p. 120); mentre Cozzolino ci racconta l’avventura percettiva di Per oggi non si cade (2014), performance interattiva diretta da Fabio Cocifoglia, in cui gli spettatori/attanti percorrono l’Accademia di Belle Arti di Napoli immersi in un «profluvio di parole, suoni e rumori realissimi» (p. 135), poiché registrati e riprodotti con la tecnica dell’olofonia.
È attorno al fondamentale concetto di liveness, nella sua doppia accezione di compresenza fisica tra artista e pubblico e di trasmissione in diretta tramite i media (Auslander, 1999), che ci sembra si possano inquadrare gli ultimi contributi del testo.
Il saggio di Fabrizio Deriu è una critica ragionata dello spettacolo Hamlet (2006) degli americani Wooster Group: «una sorta di gioco semi-agonistico» (p. 154), in cui gli attori riproducono le scene e ridicono le battute dell’omonimo film shakespeariano del ʼ64 diretto da John Gielgud, il tutto mentre la storica pellicola è proiettata su un maxi-schermo posto sul fondale della scena. Cortocircuiti altrettanto spiazzanti tra presenza in real time e (auto)rappresentazione in video caratterizzano lo spettacolo di Motus MDLSX (2015), al centro del saggio di Laura Gemini. La studiosa si avvale delle proprie competenze interdisciplinari tra teatrologia, mediologia e sociologia della comunicazione per ricostruire criticamente il complesso impianto da vjset della performance, la sua ʻdrammaturgia cut-upʼ basata sul montaggio di frammenti (testuali, musicali, video biografici, etc.) e potenziata dalle tecnologie digitali, e per articolare un’inedita riflessione sulla dinamica sociale del farsi-media, che in MDLSX è espressa dall’autoesposizione dell’attrice Silvia Calderoni tramite computer, mixer, telecamera e i-pod. Il «farsi-media [scrive Gemini] caratterizza il modo con cui, più o meno consapevolmente, siamo sempre più parte attiva dei contesti comunicativi che abitiamo e dove il digitale, come logica, è sempre più incarnato» (p. 168).
Ridefinisce radicalmente il tradizionale senso di liveness dato dal ʻqui e oraʼ, e nel contempo mette in campo una logica ʻsocialʼ tanto propria dell’evento performativo quanto distintiva della network society, il progetto-esperimento 2115 (2015) del gruppo teatrale Dynamis, affrontato nel contributo di Renata Savo.
Infine, Antonio Pizzo dedica un approfondito percorso di studio allo spettacolo Pseudo (2013) dell’artista catalano Marcel·lí Antúnez Roca. L’iter analitico tracciato dallo studioso attraversa i quattro cardini sui quali ruota la performance: il performer tecnologico e la narrazione teatrale; interattività e pubblico; la scrittura scenica e la drammaturgia multimediale; il gioco, l’animazione, la festa. La lucida argomentazione di questi elementi, paradigmatici non soltanto di Pseudo ma di tutta la drammaturgia di Marcel·lì, che per l’artista «prende il nome di Sistematurgia (“sistemi” + “drammaturgia”) ed è intesa quale partitura di dati e procedure» (p. 188), si può leggere come un’efficace epitome dei tanti (s)nodi teorici delineati dalla raccolta. L’evidente eterogeneità degli spettacoli esaminati, degli orientamenti disciplinari adottati e dei riferimenti metodologici assunti (da Manovich a Jenkins, da Schechner a Lehmann, da Ortega y Gasset a Augé, etc.) non esclude di fatto una precisa intelaiatura ermeneutica alla base del testo, i cui fili concettuali cuciono insieme i suoi diversi contributi. Tutti i saggi aprono un ventaglio simile di questioni: l’ibridazione tra i codici teatrali e i dispositivi testuali e linguistici introdotti dalle tecnologie elettroniche; la funzione e il funzionamento del medium-teatro nella società della ʻconnessione ubiquaʼ del Web 3.0 (l’era dei social media); la rimediabilità, la transmedialità e l’ipermedialità proprie delle drammaturgie multimediali, capaci di sussumere in sé diversi mezzi di comunicazione senza rinunciare all’autenticità dell’evento performativo, alla sua liveness. In tal senso il pregio del volume è quello di affrontare la complessità delle questioni sollevate non adottando facili interpretazioni, ma ricorrendo ad esemplificazioni pertinenti e concrete per rilanciare la linea d’indagine che lega teatro, vecchi e nuovi media e sistema sociale. Lontano dalla logica del determinismo tecnologico si riconosce che la relazione tra questi elementi è articolata e contingente, ma soprattutto tanto stretta da rendere indispensabile un upgrade della disciplina teatrale, un’apertura epistemologica interna alla stessa, bene avviata dai saggi del testo.
Poiché le espressioni del tecnoteatro sono proteiformi e sfuggono a qualsivoglia mania classificatoria, e le loro dinamiche di produzione e consumo nella sfera sociale sono multi-sfaccettate, anche gli studi di queste esperienze artistiche applicano strumenti plurimi e diversificati. Non si può né si deve sottovalutare la spinta interdisciplinare necessaria alla materia, che questo volume riesce ad acquisire con slancio cognitivo ed efficacia divulgativa.