Agata e il suo corpo: un martirio eterno che si racconta attraverso la danza

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Il coreografo Roberto Zappalà ha più volte affrontato all’interno della sua produzione tematiche estremamente connesse alla sua terra e alla sua gente. Emblematico esempio coreutico e drammaturgico è quello, doppio, dedicato alla figura di Sant’Agata, martire cristiana e patrona della città di Catania. A lei, mito narrativo e non solamente religioso, l’artista ha dedicato due opere estremamente interessanti con testi a cura di Nello Calabrò: Instrument 2 e A. Semu tutti devoti tutti?, entrambe collegate ad un più ampio progetto di 'ri-mappatura' del territorio isolano e delle sue contrastanti dinamiche culturali e popolari, cioè re-mapping sicily. Il saggio si propone di attraversare corpi, danza e immaginari connessi alla lettura che Zappalà sceglie di dare al “fenomeno Agata”, vera e propria commistione di sacro e profano. 

The choreographer Roberto Zappalà has created a lot of works related to his land and his people. Two emblematic, choreographic and dramatic examples are the ones connected to Sant'Agata, a Christian martyr and the Catania’s Patron. The artist has dedicated to her (who’s really a narrative myth, not just a religious one) two extremely interesting works, with texts written by Nello Calabrò: Instrument 2 and A. Semu tutti devoti tutti?, both linked to a wider project of ‘re-mapping Sicily’ and its contrasting cultural and popular dynamics. The essay is about bodies, dance and imagination connected to Zappalà’s point of view about "Agata’s phenomenon", a true mix of sacred and profane.

 

1. Il mito di Agata nella produzione di Roberto Zappalà

Roberto Zappalà, coreografo siciliano tra i più apprezzati del panorama contemporaneo, ha più volte affrontato all’interno della sua produzione le urla silenziose di corpi affranti, denigrati, simbolo di un’umanità problematica e a tratti feroce – proprio come la contraddittoria folla che riempie le strade della sua città natia in occasione della festa di Sant’Agata, cristiana patrona di Catania.

A tale figura femminile, che assurge a mito narrativo, l’artista ha dedicato, seppur in forme differenti, due opere estremamente interessanti con testi a cura di Nello Calabrò: Instrument 2 e A. Semu tutti devoti tutti?, entrambe collegate ad un più ampio progetto di ‘ri-mappatura’ del territorio isolano e delle sue contrastanti dinamiche culturali e popolari, cioè re-mapping sicily.

Se si sceglie di raccontare tradizioni e linguaggi siciliani, a prescindere dal medium artistico di riferimento, la santa catanese appare un argomento assolutamente imprescindibile poiché intimamente radicato nell’immaginario locale.[1] Il corpo di Agata torturato e sfregiato da una tirannica volontà maschile, è il fulcro di questa antica ritualità catanese, una devozione popolare che rende il fercolo, e quindi il simulacro carnale della santa, il centro di una festa complessa, cristiana e pagana insieme, dove potere religioso, istituzionale e popolare si fondono in una miscela non priva d’interessi economici; il “rito” dura tre giorni (tre, quattro e cinque) del mese di febbraio, l’ultimo dei quali ne costituisce l’acme poiché dies natalis della martire, cioè momento di passaggio dalla vita terrena a quella immateriale mediante il proprio sacrificio nel nome di Cristo.[2]

Agata è terra, è Catania, è storia, ma è soprattutto ‘fuoco’, quello violento e devastante dell’Etna; il legame con questo elemento risulta evidente dai racconti agiografici che la vedono protagonista. Si ricordi, difatti, la potenza salvifica del suo velo contro l’eruzione del vulcano, ma anche l’immagine evocativa del flusso d’olio traboccante dalle candele accese, elemento fortemente visuale che emerge proprio dall’Encomio di Metodio di Siracusa.

Il flusso lavico è movimento che si fonde con la sicilianità e nella danza di Roberto Zappalà le etnee e fiammeggianti parole si concretizzano nei cosiddetti lava bubbles e flowing lava.[3] Le carni dei suoi danzatori gridano malesseri di storie senza tempo, gesti che raccontano del vulcano e della sua gente, di un passato impastato di devozione rituale e popolare, a tratti pagana, selvaggia, fuori controllo: un ‘fuoco sacro’ senza aura, come quello della festa di Sant’Agata, crogiuolo di impulsi e di regole, di autorità e di accettate infrazioni delle stesse.

Il coreografo catanese raccoglie questo sentire dal basso, lo fa proprio, e lo rende fluido e violento movimento in una danza impastata di terra, sudore e memoria.

 

2. Instrument 2- la sofferenza del corpo: primo studio sul corpo sacrificale

Lo spettacolo ‘studio’ sulla figura di Agata è Instrument 2- la sofferenza del corpo, un solo femminile interpretato dalla danzatrice israeliana Michal Mualem. Se nella prima tappa del progetto dedicato alla relazione tra corpo, suono e strumento musicale (dal titolo Instruments, per l’appunto) era presente in scena il marranzano come evocazione di una sicilianità interpretata esclusivamente da danzatori uomini, la struttura drammaturgica del secondo momento-movimento cambia radicalmente essenza e forma.

Instument 2, di Roberto Zappalà, © Gian Maria Musarra

Vi è una sola donna in scena, vestita di bianco e scalza, che si muove al suono dell’hang di Laura Inserra e dinnanzi ad una sagoma di statua classica femminile, mutila, sulla cui superficie scorrono a tratti, e al buio, parole che raccontano di una carne martoriata, martirizzata, flagellata, ibrida… Quella di Michal è una danza in principio lenta che diviene poi sempre più potente, fondendosi pienamente con la terra ed il pavimento attraverso la tecnica del floor work. Sono movimenti sinuosi, densi, forti, torsioni e contorsioni di carni narratrici e sofferenti.

Il cromatismo imperante, quello del bianco, risponde alla logica del suo essere un “non-colore” dalla duplice valenza di vita e di morte; scena, luci, abito, sagoma, territori apparentemente neutri ma che in realtà evocano il dolore di una femminilità lacerata e oltraggiata, come una Dea Madre dimenticata dai propri figli.

Se nella figura di Agata ritualità cristiana e pagana dialogano fecondamente, nello spettacolo di Zappalà elementi mutuati dal sacro e dal profano s’incontrano dinnanzi al pubblico: ecco difatti la presenza di un pallone da calcio posto su di un altare a simboleggiare la valenza divina che assume questo sport, segnatamente la squadra “rosso-azzurra”, per Catania: idolo sacro e fede urbana da sobborgo. Le novelle divinità cittadine sono dunque la Santa ed il pallone, le cui rispettive “festività” divengono momenti d’incontro comunitario e di riconoscimento d’appartenenza ad un luogo e ad una determinata cultura.

La modernità non cancella però il mythos, che sopravvive, mutilo e piatto, nella forma di una sagoma di statua, residuo stanco di un passato archeologico che continua a gridare parole, aforismi, proposizioni brevi, come fosse oracolo di un presente dilaniato.

Instument 2, di Roberto Zappalà, © Gian Maria Musarra

La connessione tra la danzatrice e la figura di Agata diviene assoluta al momento della comparsa in scena di un cero votivo, elemento ben celebre del dies natalis della giovane e manifesto legame tra lo spettacolo tutto e la cultura catanese.

L’oggetto risuona così, dialogando con le parole al principio dello spettacolo, di una forte eco di denuncia relativa alla presenza di infiltrazioni mafiose all’interno dell’organizzazione della festa, ombre che i più farebbero risalire agli inizi degli anni Cinquanta.

Se Agata è simbolo della sofferenza, Michal ne diviene specchio vibrante, cassa di risonanza, strumento narrativo di carne, muscoli ed ossa. La donna si contorce, si flette, si disarticola, trasforma il suono dell’hang in bit interiore, in necessità di moto gridato, quasi convulso; una danza potente, inarrestabile nella sua lentezza, violenta nei suoi momenti di stasi.

Instument 2, di Roberto Zappalà, © Gian Maria Musarra

Il bianco domina la scena, ma ogni sacrificio presuppone il sangue: ecco allora, verso il termine del lavoro coreografico, comparire una luce rossa che inonda ed invade lo spazio con il fluire tipico di una ferita aperta.

In un primo tempo la danzatrice rimane pura e chiusa nel cerchio di un occhio di bue, poi sceglie con forza il martirio, immergendosi in un nuovo cromatismo.

La rappresentazione, trasfigurata, del sacrificio, coinvolge tutta la scenografia: la finta statua, sagoma di una classicità dilaniata, si tinge anch’essa di sangue divenendo schermo-superficie non più solamente di parole, ma anche di umori, di liquidi, di carne. E di lava, poiché rosso è il colore della voce dell’Etna, come rosso è il manto della santa che protesse, secondo la tradizione, la città di Catania dall’eruzione vulcanica del 5 febbraio del 252 d.C., anniversario del suo martirio.

La danza di Roberto Zappalà, per quanto possa narrare ed essere intrisa di dolore e sofferenza, anela sempre a una positività che, anche se travolta dalle ombre, continua a risplendere, silente, in un angolo.

Tra sacrificio e salvezza si compie la finale rivelazione della sagoma come corpo sfregiato di Agata dinnanzi a un pallone che resta, fino alla fine, illuminato in un gioco doloroso tra sacro e profano. La drammaturgia dello spettacolo, nonostante sia un solo donna, mostra un’articolazione non semplice ed un utilizzo sapiente e intelligente di colori ed oggetti scenici dal valore altamente iconico. La tematica che colpisce violentemente lo spettatore, a parte la connessione tra mythos e pagana religiosità, è sicuramente quella legata all’idea di un martirio del femminile che non conosce tempo. Questo sarà uno tra i topoi più forti della danza del coreografo catanese; si ricordino i più recenti Oratorio per Eva (anch’esso un solo donna) e Invenzioni a tre voci, o ancora il racconto dello stupro presente in Odisseo. Proseguo e completamento di Instrument 2 è però lo spettacolo dichiaratamente incentrato sulla figura di sant’Agata e sui suoi contraddittori devoti.

 

3. A. Semu tutti devoti tutti?: nel corpo del rito

Instrument 2, prima tappa sulla cifra simbolica della santa catanese, precede la complessa drammaturgia del secondo balletto A. Semu tutti devoti tutti? (1999), il cui titolo propone fin da subito un’articolarità estremamente pregnante. Tale frase è la citazione di un’anafora rituale pronunciata dai devoti dinnanzi alla vara della santa nei giorni della sua festa e contiene, al suo interno, un fortissimo gioco semantico: ‘A’ è la prima lettera dell’alfabeto, quindi l’origine, la nascita, la vita. Ma ‘A’ è anche l’iniziale del nome di Agata, e si ricollega pertanto al femminile, alla terra, alla natura e, per l’appunto, alla creazione stessa.

All’interno di un percorso dedicato alla ‘mappatura’ della cultura isolana, questo spettacolo diviene una tappa cruciale: il sentire popolare, tra misticismo ed istanze pagane, tra contemporaneità e miti del passato, attraversa le strade della città di Catania, assurgendo a rito collettivo foriero di un’identità locale, catartica e malata nel contempo. Risultava indubbiamente essenziale articolare attraverso un racconto complesso ciò che era stato portato in scena mediante il monologo silenzioso della danza di Michal, rispondendo così, ancora una volta, ad una progettualità coreografica che si muove a step, a studi, a momenti intermedi, per poi culminare in una ben più ampia narrazione finale. Come si legge nel libretto dello spettacolo:

A nasce dalla necessità, sofferta e a lungo rimandata, per timore e pudore artistici non religiosi, di affrontare con S. Agata una serie di nodi cruciali dell’essere siciliano. In primo luogo il suo rapporto con dio, la religione, il trascendente. Rapporto che si configura in due aspetti opposti e complementari; quello privato e quello pubblico, due facce della medaglia di un’ambiguità di fondo che non è possibile chiarire. Come se il siciliano fosse condannato a questo paradosso: rendere pubblico il proprio fervore mistico, la propria devozione come l’unico modo di manifestare la propria religiosità, ma così facendo rischiare di snaturarla o addirittura di cancellarla. Non si poteva, quindi, tralasciare in un progetto come re-mapping sicily l’aspetto della religiosità popolare, un apparato che nell’isola diviene quasi cartina di tornasole per quasi tutto, un teatro d’operazioni che investe e riassume facendoli esplodere tutti gli aspetti della sicilitudine/sicilianità.[4]

Sul palco sono presenti otto danzatori tra cui solo una donna: lei è la martire, dal corpo morto, esposto e nudo in una scenografia di reggiseni bianchi, maglia di purezza e dolore. La scelta scenica non è chiaramente neutra: essa si fa visiva evocazione della tortura delle mammelle, brutale violenza presente nelle narrazioni agiografiche della santa, cortocircuito tra passato mitico e contemporaneità.

Come in quasi la totalità dei lavori di Roberto Zappalà, il movimento dei ballerini dialoga fecondamente con le parole di Nello Calabrò, verba che raccontano di un’inquietudine profonda, a tratti confusa, materica e spirituale insieme. Un dolore che diventa moto e suono nel contempo, specchio di un irrisolto dialogo con il proprio inconscio; nessuna certezza, ma solo dubbi che implorano conforto in un imprecisato “Dio, Dio lo sa?”, ossessiva e violenta domanda che non prevede risposta, ma solo un atroce silenzio.

L’incipit, che possiede un forte legame con il precedente Instrument 2, ci pone dinnanzi un danzatore, Cristo e raisonneur nel contempo, che percuote violentemente le proprie membra richiamando il tema della ‘sofferenza del corpo’ (caro al progetto Instruments) e della furia fisica dei flagellanti. Un uomo che grida inascoltato le sue domande, nel silenzio di una vuota attesa.

Dalla solitudine del prologo si passa poi alla moltitudine che soffoca: ecco allora sei danzatori contorcersi in una mimesi della folla tipica delle festività agatine, momento in cui il caos miscela i corpi in un inestricabile groviglio di carne e impulsi. Il coro di personaggi-ballerini si sbatte, si contorce, in assenza di aria e spazio. Tra i punti focali dello spettacolo vi è, difatti, il rapporto della ‘sicilianità’ con la religiosità, relazione che si snoda nelle due dialoganti e contraddittorie sfere del privato e del pubblico; dal singolo che prega nella sua più intima ricerca interiore, alla teatrale devozione tipica della festa della patrona catanese, momento in cui la frastornante esternazione della fede diviene assoluta.

A. Semu tutti devoti tutti?, di Roberto Zappalà, © Gian Maria Musarra

La danza è così fin da subito potente, maschia, selvaggia, inarrestabile; molteplici i drop («cadute»), movimenti molto cari al coreografo catanese che segnalano, ancora una volta, una profonda relazione con la terra e con i concetti coreutici di release e control. La confusione della festa di Sant’Agata viene resa attraverso urti, lift («sollevamenti»), salti ed impatti violenti: tutti i ballerini, richiamandosi all’incipit, percuotono ferocemente i loro corpi con una ‘preghiera’ che mortifica le carni attraverso una gestualità ossessivo-compulsiva. Il patologico si fonde con l’inquietudine tipica del fedele che anela a risposte; la commistione tra sfera del sacro e del profano, fil rouge dell’intera opera, diviene assoluta nel momento in cui i musicisti (Salvo Dub, Puccio Castrogiovanni, Salvo Farruggio, Peppe Nicotra) entrano in scena indossando le maglie del Calcio Catania. Qui si celebra il cortocircuito semantico tra i due idoli dell’immaginario cittadino: la squadra di pallone e la patrona, entrambi paradossalmente oggetto di fede e di culto, con vibrazioni marcatamente pagano.

A. Semu tutti devoti tutti?, di Roberto Zappalà, © Gian Maria Musarra

All’interno di un orizzonte quasi esclusivamente maschile, vi è solo un’interprete donna: lei è una novella Agata, ‘appesa’ alla scenografia come corpo morto, nudo, esangue, esanime, oggetto di culto religioso e di desiderio sessuale. Quasi in una cristologica e biblica eco, la danzatrice sembra divenire protagonista della Deposizione del Caravaggio: i ballerini, ora vestiti di nero quasi a voler simboleggiare un lutto e una pietas ancestrali, la accolgono in una ritualità dal sapore primitivo ed angosciante.

La danza di Zappalà assume un tratto animalesco, sfrutta la quadrupedia tipica del regno zoologico, occhieggia a felini e ad aracnidi che si spostano nello spazio generando sentimenti e sensazioni intrisi di inquietudine. In un contesto di sacrificio rituale il corpo morto della danzatrice scivola di mano in mano, in balia del maschile, come ‘materia’ agognata, supplicata e temuta, feticcio di carne che denuncia l’idea, tipica di una cultura fortemente androcentrica, della donna come oggetto. Il silenzio della danzatrice trova unica voce e solo respiro nel suono della chitarra di Carmen Consoli, nota cantautrice e attivista, la cui immagine video viene proiettata, con distorsioni sonore, sullo sfondo. L’artista assurge a simbolo della città di Catania ma soprattutto di quel femminile ribelle che non accetta la stasi, anelando al cambiamento, alla lotta, all’affermazione della propria libertà. Non a caso la Consoli si è più volte schierata in difesa dei diritti delle donne, divenendone front woman, immagine e grido.

A. Semu tutti devoti tutti?, di Roberto Zappalà, © Gian Maria Musarra

Agata è idolo popolare, simulacro di ambivalenti desideri; nuovamente appesa diviene schermo corporeo verso il quale i danzatori, a turno, simulano un coito, quasi uno stupro collettivo che mima una devozione patologica, ossessiva e carnale. Oggetto di attrazione sessuale, di sfogo biologico, la donna ‘santa’ non riceve amore, ma subisce gesti animaleschi e istintivi che la isolano nella sua natura materica.

Il cortocircuito tra festa catanese, ritualità e danza aumenta ulteriormente nel momento in cui i danzatori indossano dei candidi guanti bianchi; sono essi chiari simboli connessi all’immagine tradizionale del ‘devoto’ ma, nel contempo, richiamano un’idea di chirurgia, di operazione, di squartamento e macellazione. Di sacrificio, per l’appunto. Una carne martoriata che evoca il do ut des tipico di tanta ideologia sacrificale che fa del corpo il suo tempio e la sua dannazione.

Il cerchio dello spettacolo si chiude con l’inaspettato ingresso in scena dello stesso Roberto Zappalà il quale, annullando la quarta parete, finalmente rivela il perché della reiterata domanda iniziale: Pietro Diolosà è l’ex presidente del Circolo di Sant’Agata, affiliato al clan mafioso dei Santapaola e accusato di gestire illecitamente la festa della patrona catanese. La voce del coreografo diviene spazio di denuncia che amplifica ed esemplifica la narrazione dei corpi danzanti; attraverso un percorso doppio, Agata, icona di una femminilità martoriata, viene esplorata dapprima come suono dell’hang, strumento che ne universalizza il significato, poi come carne appesa a un ambiguo desiderio maschile.

I due spettacoli, pur estremamente differenti da un punto di vista drammaturgico e ballettistico, posseggono una indubbia potenza espressiva che trae la sua forza dalla dialettica ossimorica propria della festa di Sant’Agata. Coefficienti scenici, musiche e spazi, parole di Nello Calabrò e movimenti coreografici, sono tutti elementi che contribuiscono, nel loro insieme, alla creazione di un narrare decisamente articolato. La dimensione verbale rimane sempre subordinata a quella gestuale; enfatizza, spiega, amplifica la semantica del movimento e la chiarezza del textus scenico dinnanzi al pubblico. I corpi devoti oscillano tra femminile e maschile, tra carni che subiscono e mani che percuotono, in una dinamica vittima-carnefice che volutamente si tinge di contemporaneo per assolutizzare una condizione che non ha confini. Il reiterato inserimento del pallone in ambedue le performance assume un fortissimo valore semantico soprattutto per un pubblico segnatamente catanese che ri-conosce quel morboso rapporto tra cittadini e squadra di calcio; l’oggetto rompe però le barriere geografiche per divenire simbolo dell’effimero, della superficialità, del gioco che distrae dalla caduta, del divertimento che assorbe le violenze e le maschera. Anche il bianco diviene elemento ricorrente: prima cromatismo imperante, poi, nel secondo balletto, scenografia di reggiseni e guanti da devoti/macellai. Dunque colore/non-colore che racconta di vita e di purezza, ma anche di morte, sacrificio e squartamento in una dialettica che occhieggia al diverso modo d’intendere il ‘bianco’ nelle diverse culture occidentali ed orientali, ma anche all’interno della nostra stessa società. Come più volte sottolineato, centrale è la ‘donna’, santa e puttana come in Oratorio per Eva, soggetto e oggetto di culto e di desiderio fremente; se in Instrument 2 è il femminile a raccontarsi attraverso i gesti danzanti di Michal Mualem, in A. semu tutti devoti tutti? vi è un’unica danzatrice che resta muta ed inerme dinnanzi al frenetico e scomposto movimento dei ballerini. Due punti di vista opposti descritti dallo sguardo di un coreografo che più volte ha scelto di denunciare il maschilismo, questa volta travestito da devozione ‘religiosa’.

Lo sguardo dell’artista catanese ha narrato attraverso il suo linguaggio coreutico un sentire popolare imbevuto di paganesimo, dove sacro, profano, legalità e Cosa Nostra si miscelano costantemente in quella contraddittorietà tipica di una terra malata e impetuosa come la Sicilia. Nella sua danza dal pressante dolore dettato da una condizione buia, apparentemente fissa, vi è sempre un forte anelito al cambiamento e alla non rassegnazione; resiste quindi la speranza, la possibilità del positivo come istanza reale e concreta. L’arte tersicorea, per Roberto Zappalà, ha un ruolo catartico e fortemente culturale, di formazione e in-formazione del pubblico: dialogo quindi profondo, ed intimo, con l’interiorità dello spettatore.

 


1 Assai curioso il caso del Quinziano, dramma teatrale scritto dal siciliano Antonio Rapisarda, ben più noto con lo pseudonimo di ‘Aniante’. L’opera fu messa in scena nel 1923 e, almeno secondo le aspettative del pubblico catanese, doveva costituire un vero e proprio omaggio ad Agata. In realtà la trama fu ben diversa, e la fanciulla rappresentata tutt’altro che “santa”. Il ruolo della protagonista fu inoltre interpretato dalla giovane, e discussa, figlia del lampionaio del porto. Il ventitreenne Aniante rischiò seriamente di essere linciato, colpevole di aver dissacrato uno tra i pilastri più alti e solidi della religiosità cittadina. Cfr. A. Aniante, Quinziano, a cura di M. Verdirame, postfazione di F. Gioviale, Acireale-Roma, Bonanno, 2006.

2 Le narrazioni agiografiche ci descrivono una giovane fanciulla aristocratica vissuta sotto Decio (249-251 d.C.) e martirizzata per volere del proconsole Quinziano, inviato in Sicilia dallo stesso imperatore per far abiurare pubblicamente ai cristiani la propria fede mediante una feroce e violenta persecuzione. Il potente, adirato dal rifiuto agatino di concedere le proprie grazie, la processò e torturò fino a quando la stessa si spense, nelle carceri, sfinita dopo i tanti supplizi. La principale fonte letteraria sul martirio della giovane è l’Encomio di Metodio di Siracusa, patriarca di Costantinopoli (843-847 d.C.); tale testo, però, è giunto a noi mutilo e parziale in quanto la seconda parte fu probabilmente rielaborata faziosamente nel Seicento, momento in cui la disputa sui reali luoghi natali della santa divenne estremamente accesa. Risulta estremamente interessante, e a tratti persino paradossale, pensare che Agata, oggi simbolo assoluto del capoluogo etneo, sia stata aspramente contesa tra Catania e Palermo, fino al punto da creare e comporre (tra il 1601 ed il 1641) una continuatio fittizia che ne dimostrasse l’assoluta paternità catanese. Pare che Pietro Carrera ebbe in tale vicenda un ruolo di non poco rilievo; difatti nelle sue Memorie historiche, commissionate dallo stesso Senato, utilizzò leggende e non pochi falsi al fine d’innalzare a grandi glorie la città di Catania, contribuendo enormemente alla costruzione di un’aura mitica, sacra e superba. Al riguardo sono stati consultati i seguenti testi: R. Catanzaro, R. Mangiameli, Sant’Agata a Catania tra religiosità e giochi di potere, Bologna, il Mulino, anno LXVI, numero 489, 2017; C. Crimi, ‘L’encomio “lacerato”. A proposito di un apocrifo secentesco su S. Agata’, Synaxis, III, Catania 1985; C. Grottanelli, Il sacrificio, Roma- Bari, Laterza, 1999; C. Mazzucco, «E fui fatta maschio». La donna nel cristianesimo primitivo (secoli I-III), Firenze, Le Lettere, 1989; S. Pricoco, Introduzione in Euplio e Lucia 304-2004- Agiografia e tradizioni culturali in Sicilia, Atti del Convegno Catania-Siracusa, 1-2 ottobre 2004, a cura di Teresa Sardella e Gaetano Zito, Giunti, Firenze 2006.

3 Per cogliere lo specifico carattere del movimento coreografico di Zappalà si veda R. Zappalà, Omnia corpora. Devoto, etico, istintivo, Catania, Malcor D’, 2016.

4 R. Zappalà, A. Semu tutti devoti tutti?, Libretto di sala, Catania, Scenario pubblico. Per una riflessione corale sullo spettacolo si veda: Agata. Semu tutti devoti tutti?, a cura di N. Calabrò, prefazione di C. Consoli, Palermo, L’Epos, 2010.