1. Il mito di Agata nella produzione di Roberto Zappalà
Roberto Zappalà, coreografo siciliano tra i più apprezzati del panorama contemporaneo, ha più volte affrontato all’interno della sua produzione le urla silenziose di corpi affranti, denigrati, simbolo di un’umanità problematica e a tratti feroce – proprio come la contraddittoria folla che riempie le strade della sua città natia in occasione della festa di Sant’Agata, cristiana patrona di Catania.
A tale figura femminile, che assurge a mito narrativo, l’artista ha dedicato, seppur in forme differenti, due opere estremamente interessanti con testi a cura di Nello Calabrò: Instrument 2 e A. Semu tutti devoti tutti?, entrambe collegate ad un più ampio progetto di ‘ri-mappatura’ del territorio isolano e delle sue contrastanti dinamiche culturali e popolari, cioè re-mapping sicily.
Se si sceglie di raccontare tradizioni e linguaggi siciliani, a prescindere dal medium artistico di riferimento, la santa catanese appare un argomento assolutamente imprescindibile poiché intimamente radicato nell’immaginario locale.[1] Il corpo di Agata torturato e sfregiato da una tirannica volontà maschile, è il fulcro di questa antica ritualità catanese, una devozione popolare che rende il fercolo, e quindi il simulacro carnale della santa, il centro di una festa complessa, cristiana e pagana insieme, dove potere religioso, istituzionale e popolare si fondono in una miscela non priva d’interessi economici; il “rito” dura tre giorni (tre, quattro e cinque) del mese di febbraio, l’ultimo dei quali ne costituisce l’acme poiché dies natalis della martire, cioè momento di passaggio dalla vita terrena a quella immateriale mediante il proprio sacrificio nel nome di Cristo.[2]