Bart Van den Bossche e Bart Dreesen (a cura di), Iconografie pirandelliane. Immagini e cultura visiva nell’opera di Luigi Pirandello

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Se ci fosse bisogno di interrogarsi ancora sulla rilevanza internazionale acquisita nel tempo dall’opera di Luigi Pirandello, basterebbero i volumi editi per i tipi di Peter Lang a confermarla e per riconoscere nello scrittore e drammaturgo siciliano uno degli interpreti più acuti della modernità. Dopo aver affrontato il nodo narrazione, memoria e identità in un precedente volume allestito da Alessandra Sorrentino e Michael Rössner, l’indagine su ‘Pirandello in un mondo globalizzato’ procede ad esplorare il macrotesto dell’autore siciliano dalla specola della visualità con la raccolta di saggi curata da Bart Van den Bossche e da Bart Dreesen, intitolata Iconografie pirandelliane. Immagini e cultura visiva nell’opera di Luigi Pirandello (2020). I variegati contributi sono raggruppati in quattro sezioni, che scandiscono la ricerca con fitti e numerosi rilanci e rimandi interni. Dopo l’Introduzione dei curatori, la prima parte è dedicata alle coordinate generali del discorso. Le dinamiche di rivelazione e svelamento presenti non solo nella scrittura teatrale, ma anche nella narrativa, vengono individuate da Dominique Budor e Margherita Pastore e ricondotte a due eventi biografici risalenti all’infanzia – la vista dell’amplesso tra un uomo e una donna nella torre-morgue e la scoperta dell’adulterio del padre con la giovane nipote nel convento di Palermo – già raccontati nella biografia autorizzata di Nardelli, ma che qui vengono accortamente inseguiti e ricostruiti attraverso i processi di mascheramento, rimozione, palesamento. La persistente iconicità che permea l’opera pirandelliana viene rintracciata, in questo segmento del volume, in alcuni emblemi ricorrenti: l’immagine copernicana e pascaliana dell’uomo sospeso tra gli infiniti del tempo e dello spazio (Lia Fava Guzzetta), la costante metaforizzazione della teoresi, particolarmente evidente nel Fu Mattia Pascal e nell’Umorismo (Sara Lorenzetti).

Le costanti che caratterizzano la rappresentazione dell’atto di vedere sono al centro delle analisi della seconda sezione: giustamente centrale, in questa prospettiva, è I quaderni di Serafino Gubbio operatore. Al romanzo e alla diversa categorizzazione estetica che ivi assumono le immagini dedica la sua attenta lettura Simona Micali: lo statuto di simulacro del quadro, quello meduseo della fotografia e quello spettrale dell’immagine cinematografica si intrecciano a delineare il declino dell’arte e del ruolo dell’artista di fronte all’impatto con la società di massa. In particolare il valore perturbante dell’immagine fotografica – spinto fino ad anticipare la riflessione della Sontag sulla fotografia come memento mori – si accompagna a una costante interrogazione sulla verità del medium, e sulla capacità dello sguardo del protagonista di cogliere la vita presentando «agli uomini il buffo spettacolo dei loro atti impensati, la vista immediata delle loro passioni, della loro vita così com’è». Su questa capacità rivelatrice delle immagini, fisse o in movimento, si sofferma anche Letizia Cristina Margiotta nel suo intervento, mentre Laura Melosi dimostra come la dinamica intrinsecamente cinematografica dello sguardo del narratore finisca per strutturare lo stesso plot. Allargano il campo Laura Cannavacciuolo, che individua i processi di sdoppiamento e di riconoscimento promossi dalle fotografie dei defunti nelle Novelle per un anno, e Ulla Musarra-Schrøder, che insegue all’interno della stessa raccolta il motivo dello sguardo e le sue rifrazioni sul paesaggio tra ipotiposi ed esperienza epifanica. Si concentra inoltre sulle prime due raccolte di novelle – Scialle nero e La vita nuda – Irena Prosenc, per comporre una mappatura dettagliata delle modalità scopiche dei personaggi (dai difetti di vista alla negazione dello sguardo), mentre Carlo Serafini affronta un’altra campionatura, quella del bestiario pirandelliano, ricostruendo una tassonomia letteraria dalla profonda carica simbolica. Paola Casella conduce invece un intenso esercizio di close reading della novella Il coppo, dal quale emergono i processi di visualizzazione messi in atto dalle meccaniche della parola: in particolare vengono enucleate le strategie retoriche e discorsive che, facendo leva sulla ragione e sul sentimento, promuovono nel lettore un effetto di ‘condensazione opacizzante’ di forte concentrazione allegorica.

Al teatro è dedicata la terza sezione. Qui Valeria Merola ripercorre, scegliendo alcuni momenti significativi, le tappe principali dell’avvicinamento di Pirandello alla scena, mettendo in luce la costanza con cui l’immagine – il ritratto, la fotografia, il sogno – si anima per prendere vita e parola. Su un’opera fondamentale come I giganti della montagna insiste sia Balázs Kerber, che ne analizza gli effetti di visualizzazione, sia Maria Maderna, che ne passa in rassegna le messinscene, mentre Rosalba Gasparro si impegna in un confronto tra Pirandello e la drammaturgia belga francofona, cercando di distinguere la comune matrice simbolista dagli influssi esercitati dal magistero pirandelliano.

In un affondo finale vengono inoltre affrontate le traduzioni intermediali: i volti che Pirandello mostra in pubblico tramite fotografie e filmati dell’epoca (Ilona Fried) fanno il paio con le vignette satiriche che lo rappresentano (Paolo Rigo), contribuendo a costruirne l’iconico profilo. Considerando il successo delle trasposizioni della sua opera, l’indagine può procedere esclusivamente per campioni, seppur significativi: il cinema dei fratelli Taviani (Leonarda Trapassi), i fumetti di Lorenzo Bianchi e Angelica Regni (Inge Lanslots), le copertine delle recenti edizioni della narrativa pirandelliana (Sarah Bonciarelli). Da questa esplorazione, plurale e variegata, si rafforza l’idea che quello ‘stile di cose’, in cui Pirandello riconosceva la migliore tradizione italiana e al quale sentiva di appartenere, è da lui declinato in una scrittura che procede per immagini, icone, epifanie. L’analisi della produzione dello scrittore al fuoco della cultura visiva si apre a un ulteriore merito, quanto mai necessario e propizio: quello di offrire leve per disarticolare alcune categorie critiche, come l’abusata coppia tilgheriana ‘vita-forma’, ormai divenute stanchi refrain, per riscoprire una corrente che percorre tutta la letteratura pirandelliana, e non solo l’esperienza teatrale. In tal modo si può riscoprire che le dimensioni visive e visionarie appartengono alla vocazione originaria della scrittura e della riflessione dell’autore, così come vengono emblematicamente consegnate dalla madre, «ombra solo da jeri», al figlio Luigi in uno dei Colloquii coi personaggi: «Guarda le cose anche con gli occhi di quelli che non le vedono più! Ne avrai un rammarico, figlio, che te le renderà più sacre e più belle».