1. Introduzione
Con l’invenzione del dagherrotipo nel 1839 e i consecutivi progressi tecnici realizzati fino alla fine del secolo in fotografia, l’Ottocento sperimenta un «pictorial turn»[1] e crea una nuova iconografia o «imagerie».[2] In Italia i fratelli Alinari fondano a Firenze la prima ditta fotografica negli anni Cinquanta e nel biennio 1863-1864 appaiono i primi giornali illustrati con fotografie, L'illustrazione italiana e L'illustrazione universale. Proprio in quegli anni Luigi Capuana inizia la sua attività di fotografo: il suo interesse per la fotografia è testimoniato sin dal 1862.[3] La fotografia fu una vera e propria «passione sviscerata»[4] alla quale dedicò molto tempo e molto denaro, dandosi anche «alla rudimentale e ingegnosa fabbricazione di macchine fotografiche»[5] e spingendosi fino a metter su nel 1880 un laboratorio fotografico, il «Grande Atelier Fotografico in Mineo diretto dal Professor Luigi Capuana». Egli si autodefiniva un «maniaco della camera oscura» e delle «lastre» (di vetro, sulle quali erano impressi i negativi): sicché non era certo un semplice «dilettante evoluto»[6] né un «giocoliere della camera oscura».[7]
Il fondo fotografico della «Casa-Museo Luigi Capuana di Mineo e Biblioteca Comunale L. Capuana del Comune di Mineo» è composto di 184 fotografie positive e 3 lastre impressionate, di cui circa la metà si possono assegnare a Capuana (molte, però, prive di iscrizioni autografe apposte in calce o sul tergo, sono di incerta attribuzione). Numerose sono ancora le fotografie autografe disperse in collezioni private,[8] considerando l’elenco stilato da Capuana stesso, il «Catalogo delle negative fotografiche di L.C.»,[9] riferito ad oltre 300 immagini.[10]Alcune delle fotografie capuaniane sono state pubblicate, altre sono tuttora inedite, così come lo sono le lastre non sviluppate. Pochissimi sono gli studi e i cataloghi delle fotografie di Capuana. Nel 1982, Andrea Nemiz pubblicò parte del catalogo di una mostra in cui erano state presentate 68 fotografie del Nostro, allora quasi tutte inedite, e più recentemente, si deve ad Aldo Fichera l’elaborazione di una preziosa disamina del Fondo fotografico. In campo saggistico, dopo l’articolo pioneristico di De Roberto apparso nel 1916 sul supplemento illustrato de La Tribuna, Noi e il mondo e il libro di Corrado Di Blasi Luigi Capuana originale e segreto, senza data ma ascrivibile agli anni Sessanta del Novecento, Capuana fotografo ha suscitato una rinnovata attenzione solo all’inizio del XXI secolo.[11] Manca però tuttora uno studio complessivo della sua attività fotografica e un catalogo completo. In questo breve contributo si è tralasciata la produzione paesistica e folcloristica del Fondo per concentrarci esclusivamente sui ritratti del Fondo di Mineo, nei quali, secondo Morello, «Capuana raggiunse i suoi risultati migliori».[12]
È noto che la storiografia culturale suole registrare Capuana come scrittore, teorico e figura di prua del verismo, anche se le sue oscillazioni intellettuali e l’osservazione delle sue opere fotografiche portano a rivalutare tale Vulgata, come da qualche anno hanno iniziato a fare alcuni studiosi. Entusiasmato dalle poetiche realistiche e dal metodo sperimentale, Capuana concepì sempre la fotografia come uno strumento documentario. Ciononostante, rimase colpito dal potere suggestivo delle immagini fotografiche e nella sua pratica sperimentale della fotografia giunse a risultati di grande qualità che mettono in crisi le sue asserzioni teoriche.
2. Il mito della fotografia «segretario della natura»
Nel 1859 Baudelaire si indignava di vedere esposte delle fotografie nel Salon de peinture, sostenendo che l’immagine fotografica, eventualmente utile per chi necessitasse di una riproduzione esatta della natura, doveva limitarsi a essere «la serva delle scienze e delle arti», il «segretario» (termine di ascendenza balzachiana)[13] della natura: «il segretario e lo scrivano di chiunque abbia bisogno nella propria professione di una assoluta esattezza materiale».[14] Nella gerarchia stabilita dal poeta tra arte e industria, la fotografia, rubricata nella categoria industriale, era considerata come un semplice«elemento di “antitesi” del discorso letterario».[15] Giuseppe Sorbello commenta giustamente: «L’accusa di dar luogo a un realismo “disumano” (disertato dallo spirito) e “meccanico” (senza l’impronta dell’artista) [era] la naturale reazione degli scrittori».[16] Questa concezione della fotografia fece colpo (ancora in pieno Novecento Walter Benjamin opponeva l’«aura» dell’opera d’arte alla fotografia concepita come mezzo di riproduzione meccanica di massa). Anche Salvatore Farina, ad esempio, concepiva l’immagine fotografica come un prodotto meccanico, inferiore all’arte, disprezzabile e paragonabile alla narrazione impersonale da lui aborrita:
Oggi più che mai è di moda creare dei sistemi per giustificare il proprio difetto; un novelliere privo di spirito – e tutti lo conoscete – ha sentenziato che lo spirito non deve entrare nella narrazione perché è cosa soggettiva; un novelliere privo di garbo narrativo – probabilmente il medesimo – ha messo innanzi questo infelicissimo dogma che l’autore deve nascondersi, e non entrare mai in mezzo fra i lettori e i personaggi.
Sono incredibili gli apparenti disastri che va facendo questa falce gettata nel così detto campo delle lettere; colla personalità dello scrittore che si nasconde, si sono nascosti l’ideale, il pensiero filosofico, l’invettiva eloquente, l’arguzia, la risata schietta, la giocondità e il sentimento. A tutto ciò deve supplire la rappresentazione fotografica; l’uomo è diventato un automa, la campagna natura morta.[17]
Fautore dell’impersonalità dell’opera d’arte nei primi anni della sua attività letteraria, Capuana non condivideva certo lo sdegno di Farina (al quale però dedicò il saggio Spiritismo?), ma condivideva senz’altro la concezione oggettivante della fotografia come mera registrazione del reale. Lo rivela una frase di Spiritismo? in cui una metafora fotografica esprime l’impersonalità del narratore – impersonalità decretata però irraggiungibile, segno della crisi attraversata dallo scrittore negli anni ottanta, dopo la stesura di Giacinta: «l’artista [ossia lo scrittore] non fotografa neppure quand’egli stesso crede di soltanto fotografare».[18] Fotografare vale per fornire un’immagine della realtà priva di qualsiasi impronta personale dell’autore. La fotografia si opponeva all’opera d’arte:
Interpretare, integrare, compire i dati più immediati della realtà con altri più complessi accumulati nel suo organismo dalle sensazioni inavvertite e (oggi bisogna aggiungerlo) con quelli, più remoti e non meno efficaci, condensati in esso dall’eredità; ecco le operazioni concorrenti alla produzione dell’opera d’arte, ed ecco la chiave d’oro che può, forse, aprircene i meravigliosi segreti.[19]
La consapevolezza raggiunta per quanto riguarda l’arte del narrare, necessariamente ‘personale’, avrebbe interessato anche l’arte del fotografare?
Capuana utilizzava le immagini fotografiche come documenti nella fase preparatoria della scrittura e, in età matura, quando ricoprì la funzione di sindaco di Mineo, costituì un archivio fotografico della città. Conservava inoltre numerosi ritratti di parenti e amici, probabilmente come documenti memoriali. Tuttavia, l’osservazione di quei ‘documenti’ non si limitava a riattivare i ricordi, scatenava anche un’attività polisensoriale e immaginativa.
3. La ricezione capuaniana dell’immagine fotografica
Capuana fece l’esperienza del potere straordinariamente suggestivo dell’immagine fotografica sull’osservatore a Firenze, lontano dalla sua cara Mineo e dai suoi familiari. Tale esperienza è documentata da una lunghissima lettera del 26 febbraio 1877 spedita da Milano ai parenti e alla sorella Giuseppina, pubblicata in parte da Corrado Di Blasi. La contemplazione di alcune «vedute» di Mineo che aveva portato con sé scatena un intenso gioco di associazioni memoriali:
[H]o una gran voglia di divagarmi, di fantasticare, di volare con l’immaginazione ad un cielo più bello, a un sole più luminoso; sento proprio bisogno di un orizzonte vasto, e di riposar l’occhio sul verde della campagna. Come fare? Ecco: chiudo gli occhi e veggo Mineo, la piana e l’orizzonte infinito che si scopre dai terrazzini della nostra casa: mi par di sognare.
Sono le tre e cinque minuti. Comincio a passare in rassegna le fotografie stereoscopiche che portai meco. Che piacere! Guardo. Una ondata di sole bagna voluttuosamente la torre maestra del castello e tutto il quartiere di Santa Maria. Dai terrazzini della casa Ballarò sventolano dei panni sciorinati: la finestra di Azzurrina (che mi fa tornare quindici anni addietro) è spalancata sul tetto, l’abbaino del tesoriere Renda, le rovine di casa Montes, il fumaiolo dei Manfredi e il terrazzino Musso sono sotto i miei occhi con la precisione della realtà. Mi è parso di sentire le risa delle vicine, gli strilli dei ragazzi, la voce dei rivenditori ambulanti, la monotona canzone di Francesco “Bixio...” insomma mi è parso di provare le sensazioni del tempo che ero costì. [...]
Ed ecco ancora “Santa Margherita”. Le rose del viale della chiesa sono fiorite: il gelsomino è tutto stellato. Che buon odore! Il fico sotto la terrazza è coperto di foglie e di frutta. L’uscio d’entrata della casina è mezzo aperto. Perché non esce nessuno? Avrei voluto vedere voi o lo zio; invece veggo me stesso, seduto, col cappello in testa, con una gamba accavalcata all’altra e l’orologio in mano... L’orologio mi suggerisce l’idea di guardare che ora è... Perbacco! Le cinque e mezza. Ho appena il tempo di vestirmi per andare a pranzo. Arrivederci dunque a questa sera alle nove e mezzo. Domani, volere o non volere, l’appendice dovrà essere scritta.[20]
Il fantasticare è un ‘vedere’, prima con gli occhi-ricordi della memoria («Ecco: chiudo gli occhi e veggo Mineo»), poi con gli occhi-organi della vista («Comincio a passare in rassegna le fotografie stereoscopiche che portai meco. Che piacere! Guardo»). Allora il ‘guardare’ si fa sensazione uditiva («Mi è parso di sentire le risa delle vicine»), olfattiva («Che buon odore!»), visiva: che però è un ‘vedere’ estraniante («veggo me stesso») ed è, in fondo, un fantasticare. La contemplazione dell’immagine fotografica non è solo «miccia d’innesco di ricordi e di nostalgie»,[21] essa scatena anche il lavoro immaginativo.
Colpito dalla funzione fortemente emotiva dell’immagine fotografica sul destinatario, Capuana giunse a considerarla superiore alle opere d’arte. A suggerirlo è la chiusa della novella Gelosia (pubblicata dapprima sul Fanfulla della domenica del 13 maggio 1883 poi nelle Appassionate dieci anni dopo). Ricordiamo sommariamente il plot. Rebecca è gelosa del ritratto di donna che il suo amante Massimo conserva nella sua valigia:
Quella testina giovane e bella, ombrata dal cappellino a larghe falde, la guardava sorridente con grandi occhi profondi e immobili, staccata quasi in rilievo dal fondo sfumato che pareva la cingesse di una aureola, in lontananza di sogno...[22]
La contemplazione dell’immagine fotografica sconvolge Rebecca perché la donna ritratta sembra viva («la guardava sorridente», «staccata quasi in rilievo»). L’influenza esercitata dall’immagine è così forte da modificare la vita interiore di Rebecca: «Quel viso ovale e fresco, dalla bocca sorridente ella se lo vedeva balenare davanti agli occhi in ogni momento della giornata, e la notte lo sognava: persecuzione e tormento che non le davano pace».[23] Neanche Massimo resta indifferente:
Ed ecco che cominciava a sentirsi anche lui assediato da quella figura venuta a intromettersi in modo così strano fra loro: e il rimorso di essere stato un po’ ingrato verso quella povera creatura, che lo aveva tanto amato e aveva tanto sofferto, tornava a farsi vivo sotto lo stimolo dell’irragionevole gelosia di Rebecca, riprendendo a pungerlo prima sordamente, poi con calda sensazione di fatto recentissimo, di ieri![24]
Alla fine della novella, Rebecca pone fine al loro tormento in modo del tutto inaspettato:
Rebecca non lo lasciò finire e si lanciò verso il tavolino dov’egli aveva posato il ritratto. Dopo alcuni istanti, Massimo – che s’era voltato dall’altra parte, con gli occhi chiusi per non vedere il sacrilegio – la sentì avvicinare pian pianino, e sentì le delicate mani di lei volgergli dolcemente il capo verso il bel paesaggio del Gignous che pendeva dalla parete:
– Guarda! –
Dal cartoncino incastrato fra la tela e la cornice del quadro, nella luce calma della stanza, la bella testina della rivale sorrideva, con i grandi occhi immobili nel volto ovale, sotto le larghe tese del cappellino.
– Ed ora che ti so mio, tutto mio, non vorrai restare altri quindici giorni con questa povera matta che t’adora? –[25]
Incastrando il ritratto fotografico tra la tela del quadro e la cornice, Rebecca riesce a disinnescare il suo potere minaccioso. Infatti la fotografia ‘relegata’ nella posizione di opera d’arte, alla stregua del dipinto di Eugenio Gignous, non costituisce più alcun pericolo perché l’immagine di donna restituita all’immobilità della figura mortuaria non sembra più viva: «la bella testina della rivale sorrideva» (il ritratto pittorico sorride tuttora ma non guarda più chi lo osserva, come era il caso del ritratto fotografico) «con i grandi occhi immobili nel volto ovale» (gli occhi non sono più «profondi» come prima): il ritratto ha ritrovato le sue due sole dimensioni e non suscita più alcuna fantasia onirica. L’artificazione vanifica l’immagine.
Quest’epilogo sanziona nella finzione ciò che Capuana aveva sperimentato personalmente osservando da Firenze le fotografie di Mineo: la maggiore efficacia della fotografia rispetto all’opera d’arte tradizionale, dipinto o racconto. Per lui, però, essa risulta pur sempre esclusa dal campo dell’arte.
4. La fabbrica capuaniana dell’immagine fotografica
Fare una fotografia impone una serie di scelte: il soggetto, la sua posizione e la sua occupazione dello spazio disponibile nel rettangolo dell’immagine, la messinscena, le luci, ecc. Lungi dall’essere impersonale, l’immagine fotografica è un prodotto autoriale: ma quel che nel XXI secolo è un’evidenza, ai tempi di Capuana non lo era. Egli dedicava grande impegno nelle fasi successive allo scatto della molletta, nel ritocco e la «sofisticata stampa al carbone o su lamina»[26] e negli «studi personali sul processo degli ingrandimenti».[27] Strumento di un intenso sperimentalismo tecnico, la fotografia fu anche uno strumento di sperimentazione artistica nelle fasi preparatorie dello scatto, anche se lo scrittore-fotografo non giunse mai a tale consapevolezza.
Difatti, vari ritratti capuaniani presentano una composizione di struggente modernità. È il caso di quello della sorella Teresina.
L’insieme è minimalista ed essenziale. Sullo sfondo monocromo si stacca la figura leggermente decentrata, come colta in un movimento di rotazione: un’impressione suggerita dalla posizione storta del corpo e dagli occhi, rivolti fuori campo – come spesso nei ritratti capuaniani, specialmente femminili. Le tinte molto scure dei capelli, delle sopracciglia e del vestito creano un vivo contrasto con lo sfondo e la pelle chiara del viso e delle mani. Le mani sono appoggiate allo schienale della sedia e la fanno da padrone in primo piano, contendendo al viso il suo protagonismo: trovata compositiva non banale nelle fotografie dell’epoca. Il viso infine esprime serietà e pacatezza. La semplicità, la nudità e insieme l’originalità della posa e della composizione risultano oltremodo efficaci.
Nel ritratto ravvicinato di una Giovane donna dal nome sconosciuto, il fotografo ha scelto una ripresa dall’alto che mette in rilievo la ricca capigliatura rialzata sul sommo del capo.
Gli occhi grandi guardano in alto, in direzione della fonte luminosa, ma restano nell’ombra della folta frangia perché la testa è leggermente abbassata. La luce gioca dolcemente con i rilievi del giovanile viso e del collo, poi si confonde con il bianco del vestito. Luce ed ombra, semplicità di mezzi espressivi, minimalismo della messinscena sono anche qui gli ingredienti di un’immagine fotografica di grande qualità.
Lo stesso vale per i ritratti della moglie Adelaide Bernardini a mezza figura. Quello più famoso è un piccolo capolavoro del genere.
Anziché concentrarsi sui lineamenti, l’immagine invita a soffermarsi sull’eleganza pudica, aristocratica, discreta e sensuale del vestito e della capigliatura. La donna volta le spalle all’osservatore e gira la testa a destra, sicché del suo viso si vede il profilo destro. Anche qui lo sguardo è rivolto verso l’alto.
Analoga suggestività è raggiunta nel «piccolo ingrandimento eseguito da Luigi Capuana nel 1894» in piano ravvicinato di Luigi Pirandello, come si legge sul retro. Non a caso l’opera è molto famosa.
La luce viene dall’alto a destra e il giovane Pirandello ha il capo leggermente reclinato in direzione opposta, dimodoché, anche in questo scatto, il rapporto tra luce e ombra risulta molto equilibrato e dinamico nello stesso tempo. Il giovane scrittore tiene gli occhi abbassati e appoggia la testa sul pugno della mano destra. La posizione del corpo accompagna così la diagonale creata dall’opposizione fra la parte più luminosa, in alto a destra, e quella più scura della giacca nera e dell’ombra della testa. La luce fa risaltare il triangolo della parte laterale della fronte, dove nasce la scriminatura, crea un’ombra di preoccupazione sotto i bernoccoli in mezzo alla larga fronte e immerge il lato destro e la parte inferiore del viso nell’oscurità. Osservando questo ritratto di Pirandello, viene in mente quel che scrive Paul Léon a proposito del celeberrimo ritratto di Rimbaud da parte di Carjat: «basta che resti una sola immagine [...] e il mito è salvo».[28] Diversamente da Rimbaud, di Pirandello esistono molti altri ritratti ma quello di Capuana è tra quelli più amati e noti. L’immagine singolarizzata, che occulta le altre perché consensualmente ritenuta artistica, ha soprattutto una portata mitica, capace cioè di esprimere molto più di quanto rappresentato e di incarnare sentimenti universali. Allora se il Rimbaud di Carjat è la giovinezza ribelle e fragile, il Pirandello di Capuana è la malinconia tormentata e rassegnata dell’intellettuale o, per dirla con Sciascia, «inquietudini, smarrimenti, rifrazioni, scomposizioni e dissolvimenti dell’identità».[29]
5. La fotografia superveggente
Può sembrare paradossale il risorgere di concezioni spiritualistiche e spiritiche in pieno periodo di Positivismo materialistico e scientista ma, come ormai è stato ampiamente assodato, le due cose sono legate a doppio filo giacché le straordinarie scoperte eseguite in campo scientifico alimentavano un formidabile ottimismo nelle ulteriori capacità delle scienze di sondare e spiegare i fenomeni naturali ancora misteriosi. Inoltre Ginzburg ha palesato che nel secondo Ottocento emerse un «paradigma indiziario» che prese il sopravvento sul paradigma alternativo fino ad allora dominante, quello «anatomico»:[30] si riteneva che la verità si rivelasse non a tutto tondo ma attraverso indizi. A metà degli anni Ottanta,con la scoperta delle onde hertziane, dei microorganismi responsabili di numerose malattie e, dieci anni dopo, dei raggi Röntgen, si rivelò l’esistenza di realtà invisibili. Le scienze dimostrarono la cecità dell’occhio umano, incapace di vedere le onde elettromagnetiche, né i batteri e virus, né i raggi x, mentre gli strumenti prodotti dalla tecnologia erano capaci di esplorare sempre più ampi terreni del mondo invisibile. La fotografia apparve come uno di questi strumenti:
L’istantanea apparsa nel 1880 con il bromuro d’argento, estrae l’istante fotografato dall’involucro del movimento e rivela dei particolari che il flusso della vita quotidiana nasconde alla nostra vista. L’indiscrezione dell’immagine fissa è particolarmente evidente nei nudi cronofotografati di Muybridge: senza vestiti né movimenti, essi sembrano doppiamente nudi. [...] Alla fin fine del secolo, il celebre negativo del sudario di Torino (prodotto da Secondo Pia nel 1898) fa sorgere l’immagine nascosta di Cristo dalle profondità del tessuto.[31]
Alla fine del secolo, «la buona visibilità è quella che conduce all’invisibile».[32] La fotografia, «vettore di presentificazione dell’Invisibile»,[33] scrittura di luce, amplifica le nostre capacità visive. Essa registra e fissa tutto quel che entra nel campo dell’obiettivo e, diversamente dal cervello umano, che cerne tra il materiale composito che gli viene trasmesso dall’occhio, non seleziona né instaura gerarchie. Conferisce pertanto ‘supervisualità’.
Capuana era ossessionato dal mondo invisibile. Per dirla con Gilardino, era mosso da «un’innata esigenza: quella di dar voce al ben più vasto universo spirituale» che si esplicava nelle sue opere narrative sotto forma di un «realismo delle invisibilia, il realismo dell’anima».[34]
Nella settima giornata del Decameroncino, ‘Il sogno d’un musicista’, il dottor Maggioli ritiene che il sogno sia un’altra realtà, una realtà «più reale», e spiega all’avvocato suo interlocutore occasionale:
[L]a scienza non ha ancora provato che quel che noi vediamo e tocchiamo sia precisamente quale noi crediamo di vederlo e di toccarlo. L’enimma sta in questa essenza che noi chiamiamo spirito e non sappiamo affatto che cosa sia. Egli spesso, nel sogno, vede chiarissimo il futuro; scioglie problemi che, sveglio, non era riuscito a distrigare, crea opere d’arte che, sveglio, era incapace di creare.[35]
Era allora comune la concezione degli stati di coscienza modificata (il sogno, l’ipnosi, la trance isterica, il delirio patologico) come vie d’accesso a dimensioni parallele. Si veda quel che scrisse in merito Andrea Verga, direttore dell’Ospedale Maggiore di Milano e fondatore dell’«Appendice psichiatrico» della Gazzetta medica italiana nel 1852:
Prima di tutto si osserva che sotto l’allucinazione, come sotto il sogno, può il cervello d’un uomo di genio arrivare a risultati ai quali aveva indarno agognato durante la veglia. Ora, nel sogno e nell’allucinazione si verifica analogo fenomeno, che cioè le spontanee rappresentazioni dell’encefalo si prendono per vere sensazioni e si riferiscono a cause esteriori, e l’io dissociandosi momentaneamente, per così dire, da’ suoi pensieri e attribuendoli ad altre persone, viene a duplicarsi e fa da attore e da testimonio, da maestro e da scolaro, da interrogatore e da rispondente. Quest’io diventato doppio in virtù sia del sogno, sia dell’allucinazione, può colle sue facultà acuite dire e scrivere bellissime cose, ideare grandi imprese, e indovinare sino a un certo punto il futuro. Il che fa che l’allucinato inconscio e impersuaso della sua duplicità, si confermi nell’idea di essere assistito da una potenza superiore.[36]
A Capuana la fotografia parve essere lo strumento adeguato per catturare i segni di quelle invisibilia. Per questo nella poesia dei Semiritmi ‘Ritratto fotografico’, egli sostiene che l’immagine rivela la verità autentica della persona:
Questa parlante immago che della luce
dipinser le vibrazioni,
destando dormenti forze,
(accorser liete al suo rapido appello)
Non ha di voi proprio nulla, gentile Amica,
se palpitavate lì, ritta,
nell'ansia, e col pensiero
correvate lontano?... Nol credo affatto!
[...]
Qui voi non passaste attraverso l'accesa
fantasia d'un artista;
egli non vi impresse il sigillo
della sua forte arte interpretazione creatrice.
Cosí voi siete piú voi, tutta voi;
qual io vi volevo compagna
in questa silenziosa
stanza dove sogno spesso ad occhi aperti.
[...].[37]
Essendo la macchina fotografica aliena dalla «fantasia d'un artista», dalla sua «interpretazione creatrice» – tale rimane il presupposto del poeta –, i numerosi ritratti eseguiti tentavano probabilmente di far vedere le persone ‘piú loro’ di quanto non apparissero agli occhi naturali o potessero apparire in veste letteraria, calate nello statuto di personaggio.
La realtà invisibile si rivelava attraverso vari indizi: i sogni, la fisionomia e la morfologia indagate dalla scuola lombrosiana, il linguaggio del corpo delle isteriche e sonnambule,[38] la fotografia capace di cogliere le invisibilia dell’interiorità dell’essere umano e del mondo degli spiriti.
6. La fotografia ultraveggente
Capuana credeva alla realtà inorganica dello spirito. Già nel Diario spiritico (pubblicato nel 1916 ma datato 1870) egli auspicava il tempo in cui lo spirito si sarebbe liberato «di ogni impaccio materiale»:
Voi vi meravigliate dei vostri telegrafi, delle vostre strade ferrate: ridicolaggini! Giuochi di bimbi! Verrà dì in cui tutti i mondi saranno legati da una catena d’amore; in cui i viaggi da una sfera ad un’altra saranno corse ordinarie; in cui i miracoli delle vostre scienze fisiche saranno abbandonati al popolo inferiore che abiterà ogni mondo, perché la legge è così. Lo spirito si libererà di ogni impaccio materiale.[39]
Credeva anche all’esistenza degli spiriti. Il suo interesse per un al di là abitato dalle anime dei defunti è documentato dalla vasta produzione sia saggistica sia narrativa, da Spiritismo? al romanzo Il marchese di Roccaverdina e alle novelle tardive, da Mondo occulto a La voluttà di creare. Nel saggio Il ‘Di là’, del 1901, egli scriveva:
Oggi chiamiamo Di là il mondo che sfugge ai nostri sensi ordinari, e che una volta veniva chiamato soprannaturale. (...) Il Di là è soltanto qualche cosa che sta oltre i limiti delle comuni nostre facoltà di vedere e di sentire, ma che esiste nella Natura precisamente come vi esistevano tante forze fisiche prima ignorate e delle quali ora ci serviamo senza punto lasciarci vincere dalla repugnanza ispirata da fatti quasi identici ai Raggi X e alla telegrafia senza fili. Mostrerebbe molta superficialità di osservazione colui che volesse negare la realtà delle fotografie spiritiche.[40]
Capuana si provò a realizzare fotografie cosiddette spiritiche, in particolare in occasione degli esperimenti compiuti sulla figlia del suo padrone di casa durante il suo soggiorno fiorentino, Beppina Poggi.[41] Le fotografie della Poggi «dominata da spirito», come si legge sul retro di una delle quattro immagini positive sviluppate, realizzate «con l’intento di fissare nel tempo le varie fasi di una seduta medianica»,[42] vertevano a cogliere e far vedere i segni visibili del (presunto) fenomeno sonnambolico immateriale.
Un altro segno, più sottile, del suo uso del potere ultraveggente della fotografia sono le numerose fotografie di defunti.[43] La fotografia della madre morta può esser stata motivata dal desiderio di conservare un ricordo di lei anche nell’ultimo istante, ma ciò non spiegherebbe perché egli fece anche varie fotografie di animali morti e di altri defunti, con i quali non aveva alcun legame affettivo, come quello dell’anonima Donna sul letto di morte. A spingerlo a farlo era stato probabilmente anche lo sforzo di cogliere qualche indizio dell’occulta realtà della morte.
Fece persino esumare il cadaverino di una bambina, Rosina Carcò di Stefano, per farne un ritratto. De Roberto sostiene che voleva soddisfare il desiderio dei genitori afflitti di avere un’immagine della figlia precocemente venuta a mancare.[44]
La predilezione dello scrittore per le fotografie mortuarie è forse un segno del suo desiderio di esorcizzare l’angoscia della propria morte, poiché filosofi come Clément Rosset ritengono che la credenza in un altro mondo derivi dalla difficoltà di accettare la realtà e, in particolare, il suo carattere inesorabilmente finito.[45] Fatto sta che Capuana realizzò vari autoritratti da finto morto. Non era il primo né l’unico a farlo: nel 1841, Hippolyte Bayard, si era autoritrattato da finto morto nell’Autoportrait en noyé. Tuttavia lo scopo di Bayard era sarcastico, poiché si trattava per lui – che aveva trovato un mezzo di ottenere fotografie su carta (anziché su vetro) – di protestare contro «la mancanza di riconoscimento ufficiale».[46] Capuana non aveva alcun motivo di ritrarsi da morto se non, appunto, il desiderio di conservare una testimonianza del suo ‘esserci stato’.
Tale motivazione spiega verosimilmente anche la presenza di numerosi autoritratti (da vivo), di cui si riproduce quello eseguito a Firenze il 18 maggio 1865.
Lo scrittore-fotografo era preso dall’ansia di non lasciarsi sfuggire alcun istante della propria vita? Di certo la fotografia è fissazione e perpetuazione dell’istante: «che cosa è la fotografia se non verità momentanea, verità di un momento che contraddice altre verità di altri momenti?».[47]
Con la fotografia, Capuana si sforzava dunque di catturare degli indizi tangibili del mondo occulto non percepibile a occhio nudo. Quest’altro mondo non era solo quello della personalità autentica, degli stati allucinatori e delle varie ‘impressioni’ ricevute nel corso della vita, quello degli spiriti e dei fluidi magnetici, o quello dei raggi X, degli organismi microscopici e delle onde elettromagnetiche: era anche il mondo dell’arte. Non a caso il dottor Maggioli del Decameroncino sosteneva che, nel sogno, lo spirito«crea opere d’arte che, sveglio, era incapace di creare».[48] Capuana concepiva platonicamente la creazione artistica come il frutto di un invasamento:
[C]’è sempre un punto, nell’atto della produzione, in cui la facoltà artistica agisce con completa incoscienza. […] L’artista procede, in questa circostanza, come i soggetti del sonnambulismo provocato, ed ha la sua particolare allucinazione; la quale differisce dalle sonnamboliche unicamente per gradi, minimi o massimi, d’intensità e non per la intima sua natura.[49]
Egli riteneva che la creazione artistica avvenisse in uno stato di annullamento provvisorio della propria personalità sotto l’effetto di un invasamento da parte di una oscura forza esteriore,[50] stato nel quale l’«immaginazione» dell’artista,con il fermento del«suo gran spiraculum vitae»,[51] poteva produrre vere e proprie creature d’arte: allora l’asettica «incarnazione di un concetto»[52] diventava «carne e sangue suo».[53] Il dovere degli artisti consisteva allora nel
mettere al mondo creature ideali, le quali poi non sono per questo meno reali di quelle che sogliamo chiamare più specialmente così; e [...] ognuna di tali creature è un’idea, un sentimento fatti carne, ossa, sangue, non una vanità che par persona.[54]
Esiste un mondo dell’arte dove il personaggio è creatura viva. Varie opere narrative documentano questa sua concezione, come la novella Conclusione del Decameroncino (che offrì probabilmente lo spunto a Pirandello per La tragedia di un personaggio, i Colloquii coi mei personaggi e Sei personaggi in cerca d’autore).
Sebbene sperimentasse anche il genere fantascientifico,[55] Capuana non giunse a immaginare che la fotografia potesse rivelare le risorse dormienti e insospettate di un cervello, come aveva fatto invece Lewis Carroll in un breve racconto scherzoso del 1855, Photography Extraordinary, nel quale narrava di un uomo stupidissimo capace di scrivere una storia in tre stili diversi grazie allo sviluppo fotografico delle sue idee. Pure, ciò che non raccontò lo sperimentò sul campo, con la Beppina Poggi e i numerosi ritratti, e ne descrisse gli effetti nella poesia Ritratto fotografico e nella novella Gelosia.
8. Per concludere: palinodia per immagini
Giuseppe Sorbello ha tentato di rivalutare l’attività fotografica di Capuana e Verga (il quale era stato iniziato alla fotografia proprio dal Nostro), sostenendo che le immagini fotografiche dei due scrittori «non devono essere considerate come un semplice riflesso della loro scrittura, ma come l’apertura di uno spazio di riflessione, da cui possono scaturire persino nuove strategie narrative».[56] Lo studioso configura giustamente l’attività fotografica come un laboratorio di maturazione di nuova materia narrativa, poiché i due scrittori sfruttarono la fotografia come un documento. Capuana però la considerava anche e soprattutto come un rivelatore, ossia come uno spazio di riflessione e rivelazione della natura, visibile e soprattutto invisibile.
Nella conferenza pronunciata a Pisa l’11 maggio 1899 egli sosteneva: «C’è un altro mondo in questo mondo, c’è un’altra natura dentro la nostra natura».[57] E deplorava l’imperfezione degli strumenti artistici a nostra disposizione per dare una forma materiale alla nostra «forza psichica»:
Questo nostro pensiero che finora si è manifestato servendosi della materia, marmo, tavolozza, suono, parola scritta, pare abbia tanta potenza creativa in se stesso, da poter fare a meno di questi mezzi [...].
Noi sentiamo che tutte queste arti c’impacciano, ci tormentano per la loro impotenza a creare davvero la vita.[58]
Soggiungeva che sarebbe venuto un tempo in cui, perfezionatasi ulteriormente la sua costituzione, l’uomo avrebbe potuto fare a meno della forma materiale:
immagina che cosa potrà essere l’opera d’arte quando il pensiero non incontrerà più ostacoli nel marmo, nella tela e nei colori, nei suoni e nella parola, quando l’opera d’arte si esplicherà, si formerà con la stessa rapidità e con la stessa nettezza dell’idea [...] quando insomma le creazioni dell’intelletto immaginativo vivranno, sia pure per qualche istante, realmente fuori di noi, quasi proiettate da un cinematografo infinitamente superiore a quello inventato dai fratelli Lumiere [sic].[59]
Perché la fotografia non venne citata? Forse perché era più vicina all’immateriale di quanto non lo fossero letteratura, scultura, pittura, musica o danza, precisamente perché non era concepita come arte, benché fosse praticata come tale. La produzione fotografica di Capuana, evidentemente autoriale, specialmente nei ritratti, costituisce un diniego pragmatico della sua concezione teorica. Capuana rimase ancorato al mito baudelairiano della fotografia meccanica e mimetica, escludendola dall’ambito delle arti, mai realizzando la parte autoriale della fabbrica dell’immagine, concependo il fotografo come un operatore anziché come un artista. Rimase un osservatore delle mirabilia naturali che la fotografia, meglio delle arti, al pari forse delle scienze, consentiva di far vedere, rivelandole. Il fascino provato nei confronti di questo strumento derivava dal potere epifanico delle immagini fotografiche, nonché dal loro struggente effetto sul destinatario. Forse aveva ragione, se è vero, come è stato asserito, che l’immagine fotografica è essenzialmente «un segno di ricezione».[60]
* Questo contributo è il frutto di due comunicazioni presentate nel 2017, una all’International Conference New Approaches in Capuana Studies (AAIS/CSIS, 20-22 April 2017, Columbus, Ohio State University, USA), l’altra al convegno La modernità letteraria e le declinazioni del visivo. Arti, cinema, fotografia e nuove tecnologie (MOD 2017, Bologna, 22-24 giugno 2017).
1 Cfr. W.J.T. Mitchell, Iconologie. Image, texte, idéologie, trad. fr. di M. Boidy, S. Roth, Paris, Les Belles Lettres, 2009.
2 P. Hamon, Imageries. Littérature et image au XIXe siècle, Paris, José Corti, 2007, p. 13.
3 Cfr. P. Morello, ‘Verismo e rappresentazione del vero. Capuana e Verga fotografi’, Fotostorica, 2, marzo 1999, p. 13.
4 A. Nemiz, Capuana, Verga, De Roberto fotografi, Palermo, Edikronos, 1982, p. 22.
5 C. Di Blasi, Luigi Capuana originale e segreto, Catania, Giannotta, s.d., pp. 9-10.
6 A. Nemiz, Capuana, Verga, De Roberto fotografi, p. 19.
7 L. Sciascia, ‘Prefazione’, in A. Nemiz, Capuana, Verga, De Roberto fotografi, p. 9.
8 Cfr. P. Morello, ‘Verismo e rappresentazione del vero. Capuana e Verga fotografi’, p. 14.
9 Cfr. C. Di Blasi, Luigi Capuana originale e segreto, pp. 9-10.
10 Cfr. A. Fichera, Luigi Capuana fotografo “insospettabile”. Dal catalogo informatizzato alla valorizzazione del Fondo fotografico Capuana, Tesi di Laurea in Conservazione dei Beni Archivistici e Librari, 2010, p. 84.
11 Oltre ai saggi già citati di Nemiz, Morello e Fichera, si vedano in particolare: B. Basso, ‘Pose spiritiche in salsa nostrana’, in U.M. Olivieri (a cura di), Persona, personalità, personaggio tra XIX e XX secolo, Campobasso, Diogene Edizioni, 2016; A. Carta, ‘Le Appassionate in camera oscura’, in D. Marchese (a cura di), Annali della Fondazione Verga. Capuana narratore e drammaturgo, Atti del Congresso per il centenario della morte (Catania, 11-12 dicembre 2015), 8 (nuova serie), 2015, pp. 111-122; M. Di Dio, ‘Luigi Capuana: la fotografia come scrittura. Riflessioni sul fondo fotografico Luigi Capuana in Mineo’, in M. Di Dio, V. Mirisola (a cura di), Sicilia Ottocento. Fotografi e Grand Tour, Palermo, Edizioni Gente di Fotografia, 2002, pp. 120-143; G. Fiorentino, L’Ottocento fatto immagine. Dalla fotografia al cinema, origini della comunicazione di massa, Palermo, Sellerio, 2007; G. Sorbello, ‘Due scrittori davanti all’obiettivo: Capuana e Verga’, in S. Albertazzi, F. Amigoni (a cura di), Guardare oltre. Letteratura, fotografia e altri territori, Roma, Meltemi, 2008, pp. 15-21.
12 P. Morello, ‘Verismo e rappresentazione del vero. Capuana e Verga fotografi’, p. 14.
13 Nell’«Avant-propos» alla Comédie humaine lo scrittore francese espone i capisaldi della futura poetica realistica (si parlerà di «realismo» solo nel 1852) e propugna la neutralità del romanziere «secrétaire» della società che osserva (cfr. H. de Balzac, Avant-propos [1842], in Id., La comédie humaine, Paris, Jean de Bonnot, t.1, 1988, p. 4).
14 C. Baudelaire, Le public moderne et la photographie, in Id., Salon de 1859, Paris, Honoré Champion, 2006, p. 13. Tutte le traduzioni dal francese sono mie.
15 G. Sorbello, ‘Due scrittori davanti all’obiettivo: Capuana e Verga’, p. 131.
16 Ivi, p. 8.
17 S. F. [Salvatore Farina], ‘Libri nuovi’, Rivista Minima di scienze, lettere ed arti, 10, ottobre 1880, p. 799 (corsivo dell’A).
18 L. Capuana, ‘Spiritismo?’, in Id., Mondo occulto, a cura di S. Cigliana, Catania, Edizioni del Prisma, 1995, p. 121.
19 Ibidem. Ricorda giustamente Hamon: «vi è soprattutto una teoria dell’eredità che sembra aver colpito gli scrittori, quella dell“impregnazione”. Secondo questa teoria, la donna che ha avuto un amante darà più tardi alla luce dei figli che, pur avendo altri padri, somiglieranno a quel primo amante. Come se la donna fosse stata “impressionata”, in tutti i sensi del termine, dall’immagine del primo amante, di cui produrrà un doppio» (P. Hamon, Imageries. Littérature et image au XIXe siècle, p. 214). Così sosteneva effettivamente Gabriel de Tarde (le cui idee sarebbero state accolte felicemente in Italia, in particolare da Scipio Sighele): «Avere solo idee suggerite e crederle spontanee: ecco l’illusione del sonnambulo così come dell’uomo sociale» (G. de Tarde, Les lois de l’imitation [1890], Paris, Kimé, 1993, p. 83).
20 C. Di Blasi, Luigi Capuana. Vita, amicizie, relazioni letterarie, Mineo, Biblioteca Capuana, 1954, pp. 185-186, 189.
21 P. Morello, ‘Verismo e rappresentazione del vero. Capuana e Verga fotografi’, p. 16.
22 L. Capuana, ‘Gelosia’ [1883], in Id., Racconti, a cura di E. Ghidetti, Roma, Salerno editrice, t. 1, 1973-1974, pp. 346-347.
23 Ivi, p. 349.
24 Ivi, p. 350.
25 Ivi, p. 352.
26 G. Sorbello, ‘Due scrittori davanti all’obiettivo: Capuana e Verga’, p. 20.
27 C. Di Blasi, Luigi Capuana originale e segreto, pp. 9-10.
28 P. Léon, ‘L’écrivain et ses images, le paratexte photographique’, in J.-P. Montier, L. Louvel, D. Méaux, Ph. Ortel (a cura di), Littérature et photographie, Rennes, Presses Universitaires de Rennes, 2008, p. 116. Traduzione nostra.
29 L. Sciascia, ‘Prefazione’, p. 8.
30 C. Ginzburg, Spie. Radici di un paradigma indiziario, in Id., Crisi della ragione. Nuovi modelli nel rapporto tra sapere e attività umane, a cura di A. Gargani, Torino, Einaudi, 1979, p. 66.
31 Ph. Ortel, ‘Note sur une esthétique de la vue. Photographie et littérature’, Romantisme, 118, 2002, pp. 30-32 (corsivo dell’A, traduzione nostra).
32 Ivi, p. 27.
33 J.-P. Montier, ‘Avant-propos’, in J.-P. Montier, L. Louvel, D. Méaux, P. Ortel (a cura di), Littérature et photographie, p. 10.
34 S. M. Gilardino, ‘Capuana e Bourget: il realismo dell’anima’, in M. Picone, E. Rossetti (a cura di), L’illusione della realtà. Studi su Luigi Capuana, atti del Convegno di Montréal (16-18 marzo 1989), Roma, Salerno editrice, 1990, pp. 136, 154.
35 L. Capuana, ‘Il Decameroncino’ [1901²], in Id., Racconti, a cura di E. Ghidetti, Roma, Salerno editrice, t. 2, 1973-1974, p. 297.
36 A. Verga, ‘Davide Lazzaretti e la pazzia sensoria’, in Archivio italiano per le malattie nervose e più particolarmente per le alienazioni mentali, anno 17, 1880, pp. 213-214.
37 L. Capuana, ‘Ritratto fotografico’ [1888], in Id., Semiritmi, a cura di E. Ghidetti, Napoli, Guida editore, 1972, pp. 69-70.
38 Cfr. G. Didi-Huberman, Invention de l’hystérie. Charcot et l’iconographie photographique de la Salpêtrière, Paris, Macula, 1982.
39 L. Capuana, ‘Diario spiritico, ossia Comunicazioni ricevute dagli spiriti per medianità intuitiva’, Luce e ombre, 31 luglio-31 agosto 1916, p. 345 (corsivo dell’A).
40 L. Capuana, Il “Di là” [1901], in Id., Mondo occulto, a cura di S. Cigliana, Catania, Edizioni del Prisma, 1995, p. 225-226 (corsivo dell’A).
41 C. Di Blasi, Luigi Capuana originale e segreto, pp. 9-11.
42 J. Nemiz, Capuana, Verga, De Roberto fotografi, p. 21.
43 Capuana non era certo l’unico a farne: si pensi ad esempio al ritratto di Victor Hugo sul suo letto di morte fatto da Nadar nel 1885.
44 Cfr. F. De Roberto, ‘Luigi Capuana nei cimeli fotografici di Federico De Roberto’, Noi e il Mondo, 1° gennaio 1916, p. 69.
45 Cfr. C. Rosset, Le réel et son double, Paris, Gallimard, 1984.
46 C. Gattinoni, Y. Vigouroux, La photographie ancienne, Paris, Nouvelles Éditions Scala, 2012, p. 25.
47 L. Sciascia, ‘Prefazione’, p. 7.
48 L. Capuana, ‘Il Decameroncino’, p. 297.
49 L. Capuana, ‘Spiritismo?’, pp. 119-120.
50 Se per gli scienziati i fenomeni allucinatori avevano un’origine interna, nelle «rappresentazioni dell’encefalo», sembra che Capuana attribuisse invece quelle rappresentazioni ad agenti esterni, esseri o enti invisibili sì ma interferenti nel nostro mondo (cfr. S. Cigliana,‘Pirandello e l’ombra metafisica dei personaggi’, Studi italiani, 2, 2005, p. 104).
51 L. Capuana, ‘Sul romanzo italiano’ [1885], in Id., Scritti critici, a cura di E. Scuderi, Catania, Giannotta, 1972, p. 139.
52 L. Capuana, ‘L’arte e la vita’ [1905], in Id., Scritti critici, p. 365.
53 L. Capuana, ‘Il Decameroncino’, p. 325.
54 L. Capuana, ‘Nuovi ideali d’arte e di critica’, in Id., Cronache letterarie, Catania, Giannotta, 1899, p. 23.
55 Cfr. E. Comoy Fusaro, ‘Création artificielle et régénération. Mythes de l’homme nouveau dans la littérature science-fictionnelle italienne entre fin XIXe et début XXe’, Cahiers d’Études Romanes, 27/2, 2013, pp. 475-492.
56 G. Sorbello, ‘Due scrittori davanti all’obiettivo: Capuana e Verga’, p. 15 (corsivo dell’A).
57 L. Capuana, ‘Nuovi ideali d’arte e di critica’, p. 29.
58 Ivi, p. 30.
59 Ivi, pp. 31-32.
60 J.-M. Schaeffer, L’image précaire du dispositif photographique, Paris, Seuil, 1987, p. 9.