Dimitris Papaioannou, Still life

di

     

 

E vidi Sisifo, che pene atroci soffriva reggendo con entrambe le mani un masso immenso.

Costui, piantando le mani e i piedi, spingeva su un colle la pietra:

ma appena stava per varcarne la cresta, ecco la Violenza

e rotolava al piano di nuovo la pietra impudente. Ed egli, tenendosi, spingeva di nuovo:

dalle membra gli colava il sudore, dal suo capo gli colava la polvere. (Odissea, libro XI, 593-600)

 

 

Dopo la première del maggio 2014 all’Onassis Cultural Center di Atene è arrivato anche a Milano l’ultimo lavoro di Dimitris Papaioannou: Still Life (CRT-Teatro dell’arte, 28 e 29 ottobre 2015). L’artista greco, a ragione sempre più presente nei palcoscenici internazionali, è dotato – come è noto – di un talento poliedrico: del resto sul suo profilo ufficiale si legge pittore, performer, artista comico, coreografo e regista. In effetti, vedendo i suoi lavori (Papaioannou era presente i primi di ottobre anche a Vicenza con Primal Matter, Teatro Olimpico per il 68° Ciclo di spettacoli classici) si percepisce immediatamente che c’è spessore, c’è corpo, c’è pensiero, insomma, c’è materia. E di materia tratta Still Life, graffiante ri-lettura del mito di Sisifo, creatura costretta a trascinare la sua croce di pietra in bilico tra sudore e polvere.

Entrati in sala troviamo Dimitris già sulla scena, seduto e con un sasso in mano, squarcio di liminalità non nuovo per il moderno teatro, ma spesso (forse) sottovalutato dal pubblico. Alcune domande, infatti, potrebbero (e dovrebbero) sorgere nella mente di uno spett-attore mentre prende posto: dove sta il confine tra me e lui? Tra la (mia) realtà e la (sua) finzione o, se vogliamo, tra la sua reale finzione e la mia finta realtà? In Still Life non ci sono confini, non ci sono convenzioni da rispettare, sipari da aprire o luci da spegnere. Entra allora ex abrupto un tecnico di scena che, inaspettatamente, sfila a Papaioannou la sedia su cui è seduto; lui non si scompone e rimane nella medesima posizione, seduto sul nulla. È questo il preludio al primo segmento drammaturgico. Dimitris esce di scena e nuvole di fumo si raccolgono al di sotto della graticcia; sono serrate da un sottile velo di plastica che ne fa un cielo in movimento, simbolo forse di un’alterità incombente che si condensa come matassa opaca, grigia minaccia per una creatura che trascina dal fondo del palcoscenico la sua ‘pietra’. Alcuni microfoni sono adagiati sul pavimento, pronti ad amplificare qualsiasi rumore di scena (esclusiva partitura sonora dello spettacolo). L’attrito tra le superfici è dunque l’unico canto dato nel mesto procedere di Sisifo fino al centro dello stage. Una volta guadagnata la posizione ha inizio il confronto tra l’uomo e la materia: una ferita al centro della pietra diviene passaggio segreto per celare varie parti del corpo, braccia o gambe risucchiate dal fuori al dentro e poi espulse; una sequenza che si ripete più volte, offrendo sempre nuove segmentazioni di un corpo fatto ibrido.

© Miltos Athanasiou

La materia è un utero bulimico da cui fuoriescono uomini e donne che si intrecciano tra loro dando vita alle più bizzarre composizioni. Tutto ciò mentre Papaioannou si aggira per la platea, in un silenzio interrotto solo dal progressivo sgretolamento dell’utero di pietra.

Nel secondo segmento drammaturgico una donna sopraggiunge in scena trasportando con sé uno scudo di plexiglass; subito dopo fa il suo ingresso un uomo che si dispone alle sue spalle e la imprigiona tra sé e lo scudo. L’uomo comincia ad agitare la barriera trasparente che, ondeggiando, diventa specchio per i raggi degli spot; a questo punto il profilo della donna si smaterializza, diviene quasi un fantasma serrato tra fuoco e vento. Arrivano altri uomini, si danno il cambio. Solo luce, aria, suono.

Nel terzo segmento compare un uomo che sorregge un grumo di pietre tra le mani; si spinge sino alla ribalta e le fa cadere una per volta, lentamente, tranne l’ultima che viene ripetutamente riacciuffata fin quando Papaioannou (sopraggiunto in scena) non gli getta una scala tra le mani. La scala diventa piedistallo, appoggio per la genesi di pose dai precari equilibri, fin quando non diviene stampella per uscire di scena.

Seguono altri tre segmenti. Vediamo dapprima un uomo solo, munito di pala, strumento che gli è necessario per camminare. Con la pala, infatti, ‘raccoglie’ prima un piede e poi l’altro, trascinandoli avanti, un gesto invero interessante che sottolinea (tra le possibili interpretazioni) la fatica del procedere. È poi il turno di una sequenza in cui tutti gli attori coinvolti, uomini e donne, si riuniscono sul palcoscenico e cominciano a sfilacciarlo. È come se tirassero lunghe strisce di moquette o scotch, un altro gesto assai denso di connotazioni: fare a brandelli la piattaforma che ti ospita, che ti consente di esprimerti, fa sì che la sua distruzione equivalga alla tua espressione. Questo scorticamento genera, inoltre, una partitura sonora di forte tensione: i microfoni sullo stage amplificano l’effetto (progressivamente potenziato dal digital sound). Una climax sonora, un apice, poi il vuoto.

Nell’ultimo segmento un uomo si fa avanti con una lunghissima pala, che gli serve come prolungamento del braccio per arrivare a toccare il cielo sopra di lui, ormai vuota crisalide priva di fumi. Il braccio di legno muove la superficie lasciando comparire sul fondo un cerchio luminoso. La nuvola di plastica si risucchia per poi ridistendersi completamente: è un movimento lento, morbido come la danza di una medusa sul fondo del mare, che si ripete più volte.

Siamo ormai alla fine, quattro uomini trasportano un tavolo completamente imbandito sorreggendolo sulle loro teste, quasi fossero dei telamoni; si danno il cambio senza interrompere la processione e, cosa che desta non poco stupore, con gesto virtuoso riescono a scendere dal palcoscenico in platea senza perdere il contatto col tavolo e senza far cadere un solo acino d’uva. Dopodiché si siedono e cominciano a mangiare; passano i minuti, partono gli applausi. Ci accorgiamo che sulle spalle hanno tutti una macchia bianca; sembrano delle ali stilizzate, o meglio, il ricordo di un paio d’ali, forse la cicatrice che il contatto con la pietra ha segnato in ciascuno…

 

 

Still Life

Performers: Prokopis Agathokleous, Drossos Skotis, Michalis Theophanous, Costas Chrysafidis,Christos Strinopoulos, Kalliopi Simou, Pavlina Andriopoulou and Dimitris Papaioannou

Visual Concept-Direction-Costume & Lighting Design: Dimitris Papaioannou

Sound Composition: Giwrgos Poulios

Sets Designed in collaboration with: Dimitris Theodoropoulos - Sofia Dona

Sets adapted for the tour: Thanassis Demiris

Sculpture Design-Set Painting: Nectarios Dionysatos

Costumes Designed in collaboration with: Vassilia Rozana

Creative Producer & Assistant Director: Tina Papanikolaou

Assistant Director & Rehearsal Director: Pavlina Andriopoulou

Assistant Director & Lighting Design Assistant: Stephanos Droussiotis

Assistant Director, Archivist & Researcher: Kyriacos Karseras

Tour Manager: Julian Mommert

Technical Director & Production Manager: Georgios Bambanaras

Lighting Director & Programmer: Menelaos Orfanos

Audio Design: Konstantinos Michopoulos

Stage Manager: Dinos Nikolaou

Assistant to the Set Designer: Marina Leventaki

Assistant to the Sculptor: Ioanna Plessa

Assistant Lighting Programmer: Evina Vassilopoulou

Assistant Sound Engineer: Nikos Kollias

Stage Technicians: Gerassimos  Soulis & Manos Vitsaxakis

Set Construction: Lazaridis Scenic Studios

Production Assistant: Kali Kavvatha