Elsa Morante, La vita nel suo movimento. Recensioni cinematografiche 1950-1951

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Sono state finalmente pubblicate con il titolo La vita nel suo movimento. Recensioni cinematografiche 1950-1951 (a cura di Goffredo Fofi, Einaudi, Torino, 2017) le quarantasei schede dattiloscritte che compongono il corpus di Cinema. Cronache di Elsa Morante conservato presso la Biblioteca Nazionale Centrale di Roma. Significativi brani della rubrica radiofonica, bruscamente interrottasi dopo alcune indebite ingerenze dei vertici RAI, erano già stati trascritti da Marco Bardini in Elsa Morante e il cinema (ETS 2014, recensito sul n. 4 di «Arabeschi»), ma poter disporre di una versione a stampa che raccoglie i testi nella loro integrità appare cosa preziosa e utile, oltre che l’ennesima prova, se ce ne fosse ancora bisogno, di quanto sia necessaria una completa e affidabile edizione degli articoli, degli interventi e delle interviste di Morante, oltre che delle inedite pagine inedite d’argomento letterario, culturale e politico, per rendere giustizia al senso e al valore della sua attività intellettuale.

Le schede, ordinate secondo la successione a suo tempo stabilita da Bardini, a dimostrazione in questo caso di una proficua per quanto parziale accoglienza da parte dell’editoria del lavoro degli studiosi, sono accompagnate da una generosa introduzione di Goffredo Fofi e da altri materiali di argomento cinematografico – vari dei quali in realtà, sempre grazie all’acribia filologica di Bardini, già noti: una recensione della Terra trema di Visconti, che, pur non facendo parte del corpus, è stato in esso incluso, invero indebitamente, come quarantasettesima scheda; altri tre interventi a sostegno di questo film, di cui uno pubblicato: la lettera Proiezioni clandestine firmata insieme ad Alvaro, C. Levi, Moravia, Morra, Scialoja e apparsa sul «Mondo» il 20 maggio 1950; la lettera di dimissioni pubblicata il 1° dicembre 1951 anch’essa sulla rivista di Pannunzio; un delizioso profilo di Massimo Girotti per il volume collettaneo Volti di attore del 1952; uno scritto sul neorealismo che, per il punto di vista retrospettivo e il tono lukácsiano, sembra dei pieni anni Cinquanta; e alcuni pezzi più tardi come una duplice bozza dei primi anni Sessanta di uno scritto sulla propria concezione del cinema, una bozza lacunosa di un intervento sulla Ricotta di Pasolini, una bozza delle risposta a un questionario del 1964 e l’intervista compresa, nel medesimo anno, nel volume di Massimo D’Avack, Cinema e letteratura.

Appare opportuna, in sede critica, una più robusta contestualizzazione delle schede: all’interno non solo del rapporto fra letteratura e cinema di quel periodo, ma anche della stessa parabola autoriale di Morante. Un primo passo in tal senso sarebbe il recupero del titolo originale della rubrica, meno suggestivo di quello apocrifo tratto da uno dei testi sulla Terra trema, ma che meglio riesce a cogliere il tono della scrittura, accostabile, nell’uso della prima persona plurale e nel tratto umoristico, ai coevi articoli del «Mondo» e a quelli usciti su «Oggi» fra il 1939 e il 1941 a firma Antonio Carrera. In particolare, che Morante pensasse a delle cronache invece che a delle semplici recensioni da un lato giustifica la condiscendenza mondana con cui mette in scena le proprie avventure di spettatrice negli affollati cinematografi romani, dall’altro alleggerisce – anche in vista della destinazione radiofonica – la critica a un’industria culturale di cui si presentono le derive populistiche di crasso intrattenimento. Più volte, non a caso, leggiamo delle volgari risate degli spettatori di fronte a film dai facili effetti comici e dall’utilizzo reiterato e degradato di attori pur valenti, in primis Totò, film che all’autrice, non senza punte di snobistica intransigenza, appaiono ben distanti dal ruolo di educazione alla cultura che, affidato non alla propaganda bensì alla poesia, l’arte del cinema dovrebbe possedere. Peraltro, il termine ‘poesia’, assai ricorrente nelle schede, testimonia, oltre che forse di un qualche residuo crociano, di un approccio al cinema sostanzialmente letterario e, in ciò, poco focalizzato sulle osservazioni tecnico-formali, sebbene, come suggeriscono i rilievi sullo sviluppo del colore e sul suo utilizzo da parte di Powell e Pressburger in Duello a Berlino, Morante non manchi di sensibilità visuale. Il valore di un film, tuttavia, è riconosciuto in primo luogo nel soddisfare o meno un parametro valutativo super artes che si fonda su una sottile equivalenza di etica ed estetica e che circa dieci anni più tardi sarà sintetizzato in un’asserzione come la seguente: «Ai films, come ai libri, come alla pittura, come a ogni altra espressione umana, io chiedo la realtà, e cioè un impegno assoluto e disinteressato verso la vita» (p. 116).

In una simile cornice di lungo corso emergono alcune costanti di giudizio e opinione che coerentemente definiscono predilezioni e ripugnanze. In primo luogo, si riscontra una scarsa simpatia per il cinema neorealista, di cui impietosamente si annotano le derive verso il dialettismo e il provincialismo; persino sulla rappresentazione del popolo romano in Ladri di biciclette l’autrice ha qualche perplessità. Dopodiché, è dato costante che essa detesti non solo il cinema commerciale di bassa lega, ma anche generi – a suo avviso – dal fiato corto come i gialli, paragonati a «un passatempo alla buona, appartenente alla famiglia di passatempi» come la canasta o le parole incrociate (p. 86), e le commedie sentimentali, di cui si prende gioco, come nel caso dei dubbi d’amore della protagonista di L’uomo, questo dominatore: «Se tutte le donne andassero soggette a crisi di questo genere, il giorno che, Dio non voglia, il loro marito venisse investito da un autocarro, esse si innamorerebbero dell’autocarro» (p. 23). Più tollerante Morante si mostra invece verso i western, che meglio compartecipano di quell’universo del romance legato alla sua tipica – donchisciottesca – formazione di compromesso tra romanzesco e realistico; di qui l’apprezzamento anche per il fiabesco tradotto cinematograficamente, come in Cenerentola di Disney e Miracolo a Milano di De Sica. Interessante poi, soprattutto alla luce della pressoché contemporanea tipologia dei personaggi letterari apparsa sul «Mondo», la teoria dei tre tipi di attori, suddivisi fra i poliedrici in grado di mutare ogni sera personaggio, i monotoni che interpretano sempre, pur eccellentemente, come Chaplin e Eduardo, lo stesso personaggio, e i declamatori, ossia gli sprovvisti di talento, di cui, è detto con affilata perfidia, abbonda il cinema italiano. Si deve supporre, pertanto, che sia in questa tendenza alla tripartizione che troverà posto a breve il ritratto di Girotti, evidentemente un poliedrico in attesa di una piena attuazione delle sue potenzialità recitative: «Che nome avrà questo personaggio? Aldolfo? Werther? Antonio? Amleto?» (p. 130).

Di fronte a questa ‘passione cinematografica nel suo movimento’ tanto di più dispiace l’amaro e brusco epilogo delle dimissioni del novembre 1951, causate dall’ingerenza dei dirigenti RAI a proposito di Senza bandiera di Lionello De Felice, che Morante ebbe il torto di non elogiare proporzionalmente alle aspettative dei compiacenti organi di potere. La lettera di rinuncia all’incarico fu pubblicata sul «Mondo» e, riletta oggi, a più di sessantacinque anni di distanza, costituisce un esempio di onestà intellettuale da cui una volta di più si ricava un desolato rimpianto per tutte le occasioni che in Italia si sono perdute di una proficua comunicazione tra cultura e società.