Marco Bardini, Elsa Morante e il cinema

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L’interesse di Elsa Morante per il medium cinematografico era noto sin dai tempi delle sue collaborazioni ai film di Pasolini, da Accattone (1961) a Medea (1970); in più, già nel 1988, grazie alla Cronologia presente nel primo Meridiano, si era riannodata la memoria della rubrica radiofonica Cinema. Cronache di Elsa Morante, trasmessa dall’inizio del 1950 al novembre del 1951. Con Morante e il cinema (ETS, 2014) si apre però tutto un nuovo capitolo della questione, in primo luogo grazie ai materiali riportati alla luce da Marco Bardini, studioso che fin dal seminale Morante Elsa. Italiana. Di professione poeta del 1999 ha supportato il lavoro interpretativo sulla scrittrice con il recupero di testi inediti oppure dispersi in pubblicazioni d’occasione o sedi eccentriche.

Dopo una premessa sulle ragioni della ricerca e un capitolo dedicato alla deludente trasposizione cinematografica di Damiano Damiani dell’Isola di Arturo nel 1962, il volume alterna i capitoli critici di Bardini alla trascrizione delle carte di Morante, che testimoniano di un rapporto con il cinema tutt’altro che episodico. Innanzitutto scopriamo che, al di là del giovanile Il diavolo, non più che un abbozzo ispirato ad alcuni racconti del periodo, Morante scrisse, rispettivamente con Alberto Lattuada e Franco Zeffirelli, due trattamenti cinematografici non andati a buon fine e rimasti sinora inediti: Miss Italia (1949) e Verranno a te sull’aure… (circa 1951-1952). Le ragioni della mancata realizzazione dei due progetti sembrano di segno quasi opposto. Miss Italia si configura come un film «indiscutibilmente e profondamente lattuadiano» (p. 73) in cui l’apporto di Morante si misura soprattutto nella declinazione narrativa del soggetto, di Lizzani oltre che del cineasta lombardo, e nella «costruzione del personaggio di Anna» (ibidem), che al termine del suo percorso di formazione preferirà il lavoro in fabbrica alle chimere del successo. Proprio per il realismo con cui il film avrebbe dovuto affrontare l’immersione di una giovane di provincia nel circo del celebre concorso di bellezza, mito intoccabile dell’Italia del dopoguerra, il produttore Carlo Ponti non ebbe fiducia nella «lezione di Lattuada sulla “verità” che sa uscire dalla “favola”» (p. 126); ciò non gli impedì, però, di sfruttare l’idea dell’ambientazione concorsuale per finanziare una versione rosa della storia che fu affidata al ben più rassicurante Duilio Coletti e uscì nel 1950 mantenendo il titolo Miss Italia. Riguardo invece alla collaborazione con Zeffirelli – non l’ultima, dato che Bardini dimostra come sia da ascriversi alla penna morantiana, per quanto non accreditata, il testo italiano del canto del menestrello Leonardo alla festa dei Capuleti in Romeo e Giulietta (1968) –, incisero nella rinuncia alla sua messa in atto i molteplici impegni del regista fiorentino, ma certo ebbe un peso anche la qualità melodrammatica, da opera buffa, del soggetto, imperniato sulle coincidenze e sugli equivoci amorosi creati da due fanciulle, Angela e Pinuccia, pressoché identiche nell’aspetto ma diversissime nel carattere: vanesio soprano veneziano la prima, timida pianista pugliese la seconda. Una voce off avrebbe dovuto introdurre la vicenda affermando come, nonostante l’apparente inverosimiglianza, si trattasse di una storia realmente accaduta, ma senza dubbio l’intreccio stride sia con il predominante clima neorealista del periodo sia con il macchiettismo incipiente della nuova commedia italiana, spesso avversata da Morante nelle recensioni radiofoniche del periodo.

Queste ultime, circa quarantacinque, non sono integralmente trascritte, ma Bardini riporta numerosi passi del corpus utili a capire che cosa fosse, nel primo biennio degli anni Cinquanta, il cinema secondo Elsa Morante. Sebbene il tono complessivo non sia distante dai contemporanei umoristici interventi sul «Mondo» e ricordi persino certi passaggi degli articoli di costume a firma Antonio Carrera apparsi su «Oggi» tra il ’39 e il ’41, emerge dai testi una riconoscibile idea di cinema, imperniata sulla messa in scena della propria esperienza di spettatrice colta e spesso snob – soprattutto nei confronti del registro comico – ma non eccessivamente tecnica, amante della filmografia d’autore, in primo luogo inglese e francese, ma non indifferente allo star system hollywoodiano e a generi avventurosi come il western. Riguardo al cinema italiano, non mancano, specie verso il poco amato neorealismo, casi di evidente miopia critica, come mostra la scarsa stima nutrita per Ladri di biciclette, accusato di regionalismo bozzettistico nel suo mostrare «i romani come della gentuccia alla buona e rassegnata» (p. 178), laddove sarà apprezzata la svolta fiabesca di De Sica in Miracolo a Milano. La collaborazione con la RAI, com’è noto, si chiuse bruscamente nel dicembre 1951 con le dimissioni di Morante in conseguenza delle ingerenze dei vertici dell’azienda a favore di Senza bandiera di Lionello De Felice, film oggi del tutto dimenticato, e giustamente Bardini ipotizza che il ricordo di questo amaro epilogo, al pari della frustrazione legata alla vicenda del film di Lattuada, si situi dietro la cifrata rappresentazione del cinico e al contempo cialtrone ambiente cinematografaro romano dell’incompiuto romanzo Senza i conforti della religione (circa 1958-1968).

Giunti così, dopo una serie di scoperte che si lasciano definitivamente indietro le colonne d’Ercole del corpus licenziato in vita da Morante, al variegato capitolo finale in cui, partendo dal Mondo salvato dai ragazzini perveniamo ai più recenti casi di riuso filmico di materiali morantiani, si ha modo di raccogliere gli indizi sparsi sino a quest’altezza per rispondere alla questione che mi pare trasversalmente emergere dalle 250 e passa dense pagine del volume, e cioè se, al di là dei testi specificatamente pensati per il o sul cinema, si possa rintracciare un qualche imprinting cinematografico nella scrittura narrativa morantiana.

Nel 1964 in una intervista contenuta in Letteratura e cinema di Massimo D’Avack Morante molto recisamente rifiutava la possibilità da parte del cinema di «influenzare anche inconsciamente il narratore a scrivere per immagini cinematografiche», perché «ogni arte ha il suo linguaggio», però non riteneva «che uno scrittore che si rispetti corra questo rischio. Questo pericolo può forse esistere per degli scrittori mediocri; uno scrittore serio e “impegnato” non pensa a un film, mentre scrive il suo libro» (p. 29). Tuttavia, dal 1968 in poi, dopo la definitiva rinuncia alla tematizzazione dell’ambiente cinematografico di Senza i conforti della religione, in concomitanza peraltro con il progressivo distacco da Pasolini, ecco che il cinema si insinua con crescente intensità all’interno della sua narrativa – ed è merito di Bardini mostrarlo con una puntuale esemplificazione che costituisce, a mio avviso, il vertice ermeneutico del libro. Da una parte, esso viene a costituire una metafora esistenziale che trova la sua acme in Aracoeli; dall’altra, fornisce modelli per la costruzione di varie scene degli ultimi due romanzi, che coinvolgono Walt Disney, Billy Wilder, Roberto Rossellini, Alberto Lattuada, Alain Resnais, Charlie Chaplin, Fritz Lang, nonché Pasolini, tanto più presente sullo sfondo quanto più assente nella vita di Morante. Si intuisce che in tal modo, stilando un bilancio complessivo, non si può non registrare una contaminazione tra scrittura romanzesca e immaginario cinematografico che di fatto, nella pratica, supera la rigida separazione teorica sostenuta in passato.