Nel risvolto di copertina del numero 9 della serie editoriale «Concilium Lithographicum»[1] diretta da Velso Mucci, è riprodotta una nota redazionale apparsa il 16 maggio 1945 sul settimanale «Domenica», in cui si legge:
Il 16 corrente dalle ore 12 alle 13, a via Margutta, nel laboratorio di Omiccioli, dov’ha sede il Concilium Lithographicum diretto da Mucci stampatore magnifico, Ungaretti poeta e Fazzini scultore hanno firmato il loro foglio, ultimo prodotto dal Concilio. Erano presenti Purificato, De Libero, Sinisgalli, Ciarletta, De Robertis figlio e Trombadori padre, Galvani, Giovanni Omiccioli, Domenico Cantatore, Mastroianni e Natili; voltava i fogli Velso Mucci, con garbo e abilità.
La plaquette realizzata da Giuseppe Ungaretti e Pericle Fazzini, propone l’edizione delle prime due stanze dei Cori descrittivi di stati d’animo di Didone (raccolte sotto il titolo di Frammenti per la Terra Promessa), accompagnate da una litografia a piena pagina dell’artista, dal ritratto del poeta realizzato da Mino Maccari, e da due xilografie di Orfeo Tamburi.
Essa costituisce il sesto numero del «Concilum Lithographicum» che aveva inaugurato le sue pubblicazioni nel dicembre 1944 con una cartella fuori commercio, composta da un testo dello stesso Mucci e da una litografia di Mino Maccari, realizzata «per servire da esperimento alla collezione».[2] Il «Concilium» avrebbe proseguito la sua attività sino al 1947, per un totale di tredici numeri, cui collaborarono numerosi autori di rilievo come Palazzeschi, Barilli, Bontempelli, Cardarelli, molti dei quali legati al fervido clima artistico e culturale che aveva caratterizzato la scena romana dagli anni Venti agli anni Quaranta, tra cui: Savinio, De Chirico, De Pisis, Sinisgalli, De Libero, Vigolo.[3]
Formatosi nell’ambiente torinese e parigino, Velso Mucci arriva a Roma intorno al 1940 ed entra subito «in grande dimestichezza con le famiglie di Savinio e De Chirico».[4] A questo periodo risale inoltre l’incontro con Mino Maccari, vera eminenza grigia del «Concilium».
Fu infatti l’artista toscano «a procurare un torchio»[5] per la stampa delle cartelle, che venne «impiantato in un angolo della bottega del padre Omiccioli, falegname-imballatore»,[6] mentre «le risme di carta Masco satinata delle Cartiere Burgo appartenevano a Dora e furono trascinate a mano da Mucci su un carrettino da via Gaeta a via Margutta».[7] Le cartelle di cartoncino giallastro semirigido a tre ante erano allestite dall’Istituto Grafico Tiberino,[8] e racchiudevano ciascuna una carta bianca divisa in due parti in cui figuravano il testo letterario – rigorosamente manoscritto – e l’immagine litografica; sulla prima facciata della cartella era stampato il frontespizio completo, con titolo, nomi, numerazione progressiva, data e dedica a D.B. (Dora Broussard), mentre sulla seconda facciata «c’era sempre un cul de lamp di buona mano, e sulla terza la giustificazione della tiratura con un discorsetto dell’editore o le confessioni degli autori o citazioni da enciclopedie, giornali, o di autori come Savinio, Vico, Cocteau».[9]
Il tratto distintivo del Concilium – come rileva Leonardo Sinisgalli – era costituito dalla programmatica unione di poesia e pittura:
A guardare in un sol colpo d’occhio le pagine doppie (come Mallarmé suggeriva di leggere il suo “Coup de dés”) si resta incantati dall’effetto delle due percezioni distinte ma intrecciate, il disegno e la grafia, e dalla diversa profondità dei due spazi, quello del pittore e quello del poeta.[10]
La ‘conciliazione’ tra segno pittorico e letterario, è del resto assai ben espressa, oltre che dal titolo della collezione, anche dallo stesso Mucci nel risvolto di copertina che accompagna la prima cartella:[11]
Ritrovare, sulla medesima pietra litografica, unite le due scritture, può essere un richiamo alla comune essenza poetica; e questo richiamo è tanto più vivo se la mano stessa dello scrittore fa quegli astrusi e complessi disegni che sono le parole, e se l’artista, che le interpreta in una lingua più elementare, non dimentica la vecchia parentela di spirito e di segno. […] Ci proponiamo di racchiudere in una sola tavola due rami così diversi della fantasia, conciliati da un comune sentimento poetico.
Il titolo sotto cui Mucci racchiude le sue presentazioni – Idea dell’opera – ben rende conto della matrice culturale da cui trae origine la sua riflessione:
Illustrare un testo è quasi tradurlo in un linguaggio più antico. In questo caso il pittore risale (per usare i termini vichiani) dai “caratteri volgari” ossia dai segni alfabetici degli ultimi poeti, ai “caratteri eroici e divini” sorvolando, senza accorgersene, l’ideogramma e il geroglifico. Certo, la pittura vive ormai immemore di quella sua antichissima ragione poetica; ma il disegno e l’incisione, per la loro natura grafica, ripropongono di continuo questo filone dell’espressione umana da un segno – del resto solo apparentemente più concreto – a un segno del tutto astratto e convenuto.[12]
Idea dell’Opera è infatti il titolo dell’introduzione apposta da Vico alla seconda edizione della Scienza nuova, che si sviluppa – così recita il sottotitolo – come Spiegazione della dipintura proposta al frontespizio che serve per l’introduzione dell’opera:[13]
Noi qui diamo a vedere una Tavola delle cose civili, la quale serva al leggitore per concepire l’idea di quest’opera avanti di leggerla, e per ridurla più facilmente a memoria, con tal aiuto che gli somministri la fantasia, dopo di averla letta.[14]
La dipintura, disegnata da Domenico Antonio Vaccaro, sotto la direzione di Vico e incisa da Antonio Baldi, presenta al centro uno scudo illuminato da un raggio di luce in cui «si espongono i geroglifici, significanti le cose umane più conosciute»,[15] laddove il termine geroglifico viene impiegato da Vico per qualificare il primo stadio del linguaggio umano, in cui l’immagine o i movimenti gestuali del corpo si pongono come emblema della cosa significata, rappresentazione immediata e concreta della realtà.[16] Così nella nota introduttiva a Frammenti per la Terra Promessa, Mucci afferma:
I poeti possono disegnare in due modi: il primo, il vero modo di disegnare dei poeti, è la scrittura, l’alfabeto, ogni volta rifatto con quel senso d’invenzione figurativa astratta che ne caratterizzò la lenta nascita; il secondo è quello di disegnare come i pittori, riferendosi a questo secondo modo, Jean Cocteau, nella dedica dei suoi disegni a Picasso, osserva: “Les poètes ne dissinent pas. Ils dénouent l’écriture et la renouent ensuite autrement”. Ecco riportata la seconda maniera alla prima; e, d’altra parte, interpretata la scrittura come un disegno che si può snodare e variamente riannodare. Tale infatti è l’essenza della grafia poetica, di quel sublime disegno che è l’alfabeto; e la vera, la propria maniera di disegnare per un poeta è volgere il filo e il segno dell’alfabeto per comporre in parole la figurazione astratta del sentimento poetico.
Sin dal 1933, nell’articolo dedicato a Maria Grandinetti Mancuso, intitolato significativamente Poesia e pittura,[17] Ungaretti, sulla scorta di Vico, aveva definito il segno pittorico come «prima divinazione», «anteriore» all’«esigenza stessa della formulazione verbale». Nel dicembre del 1945 torna nuovamente sulla questione in una lettera ad Alessandro Parronchi, in cui osserva:
credo che la pittura sia stata il primo linguaggio umano, anche prima della parola, a rivelare all’uomo la sua coscienza, e cioè l’universale magia delle cose ch’era in lui (“magia” è orribile parola, direi “eredità”).[18]
Il concetto sarà poi ribadito nell’introduzione al volume Pittori italiani contemporanei (1950):
In qualsiasi modo si consideri l’arte della pittura: o che essa sia chiamata a costituire oggetti senza alcun legame d’imitazione o d’allusione con la realtà oggettiva, ma che puramente esprimano ciò che l’artista sia mosso a dire; oppure che l’artista s’attenga solo al rapporto di puri colori, persuaso che l’oggetto d’arte viva d’un piacere prodotto dallo spettatore indipendentemente da qualsiasi affetto, pensiero e perfino sensazione; o che si professi che l’arte debba essere profondamente dominata dalle passioni che sconvolgono l’epoca; e via discorrendo – la pittura rimarrà sempre una scrittura: il discorso scritto dalle parole profetiche, il linguaggio degli occhi essendo primordiale, essendo il più istantaneo nel riflettere i segreti dell’essere.[19]
Se dunque la contiguità tra scrittura e pittura è garantita dalle origini stesse del linguaggio umano, il nesso tra immagine e parola è reso palese proprio dalla materialità della traccia che accomuna, entro la grafia del tratto, il testo poetico e l’immagine litografica, unendo in un solo ‘colpo d’occhio’ i primi due cori della Terra Promessa e la figura di Didone, rappresentata nella litografia di Fazzini.
L’opposizione tra la concretezza del segno grafico e l’impalpabilità del significato si manifesta in modo evidente nel rapporto tra materia e opera d’arte, facendo risaltare quella contrapposizione tra finito e infinito, misura e mistero, che, in questo torno d’anni, è al centro dell’elaborazione poetica e della riflessione critica di Ungaretti, in particolare nei saggi dedicati a Leopardi.
Nella Terra Promessa l’immagine, infatti, veicola due opposte valenze: da un lato essa è ciò che dà corpo e concretezza ‘sensibile’ al significato della parola ancorandola al suo referente oggettivo, dall’altro, invece, rappresenta la scommessa impossibile di dare figura a quell’idea originaria che, platonicamente, è per sua natura irrappresentabile. Così nella Canzone,[20] all’alba incontaminata ed edenica – da cui mai «l’occhio fisso» distoglie «l’ossessiva mira» – si contrappone l’immagine di un’alba ‘imperfetta’ e ‘contaminata’, che dell’’idea’ rappresenta non tanto e non solo una diminutio, quanto l’unica realtà esperibile. La «materia immateriale» dell’idea, difatti, non ha limiti né forma, e tuttavia è solo attraverso l’’impurità’ della sua apparenza fenomenica che se ne può avere percezione. Analizzando L’infinito nel Secondo discorso su Leopardi, Ungaretti osserva come «idea e sentimento dell’infinito non possono aversi che da cose finite»,[21] poiché l’uomo, pascalianamente, è «qualcosa» e «non già tutto»,[22] racchiuso entro i propri limiti che gli precludono la vista del «nulla» da cui proviene e dell’«infinito» abisso che «lo sommerge»:
Incapace al tempo stesso di vedere il nulla da dove è tratto e l’infinito che lo sommerge, cosa potrà fare se non cogliere qualche aspetto di ciò che sta a metà, disperando eternamente di conoscerne il principio e la fine? Tutte le cose sono uscite dal nulla e portate nell’infinito.[23]
Le forme della realtà svelate dall’aurora («Rivi indovina, suscita la palma:/ Dita dedale svela, se sospira»), si concretizzano nella «breve salma» («E, germe, appena schietta idea, d’ira,/ Rifreme avversa al nulla, in breve salma»)[24] che, sebbene parziale e soggetta ai limiti ‘sensibili’ della realtà umana, è pur sempre ‘qualcosa’ che si oppone al nulla in quanto ‘è’. Così l’immagine pittorica o scultorea ben individua, attraverso i limiti materiali in cui è circoscritta, la «misura» di quella «breve salma» suscitata dall’immaginazione poetica. Osserva, infatti, Ungaretti nel saggio dedicato a Fazzini: «ogni opera di poesia, di parola commovente, si fonda su un conseguimento di metamorfosi di misura prodotta nel segreto d’una materia». Lo stesso titolo del saggio – Lo scultore del vento25 – esemplifica il contrasto tra l’immanenza dei materiali scultorei e la trascendenza aerea delle statue, così come messo in evidenza dallo stesso Fazzini nei suoi appunti:
Le figure umane le sento in un corpo che viene formato dall’aria, non che faccia parte di essa come noi mortali, ma l’aria che forma il corpo, ed è per questo che le mie statue tendono ad ascendere verso il cielo, con impeto, e pieno di armonia musicale,[26] insomma voglio fare della scultura che sia preghiera e sacrificio di noi uomini, che viviamo, in confronto al tempo e all’infinito, come un baleno di pensiero; dobbiamo lasciare il nostro spirito su una materia che non abbia niente a che fare con la morte.[27]
Il programma artistico espresso dallo scultore trova un corrispettivo emblematico negli Inni di Ungaretti, così come siglato dall’edizione curata da Franco Riva per le Editiones Dominicae, in cui le sette poesie[28] che compongono l’omonima sezione del Sentimento del Tempo sono illustrate da tre acqueforti di Fazzini. L’inno rimanda a un’antichissima forma compositiva dedicata alla divinità e alla sua glorificazione, spesso accompagnata dalla musica. Ad esso infatti Ungaretti consegna un’alta riflessione sul rapporto tra variazione ed eternità,[29] misura e mistero,[30] che è al centro anche dei Cori di Didone, allora in fase di elaborazione,[31] e che trova la sua acme nel coro VIII, in cui il paradosso dell’«effimero / eterno»[32] coagularsi del tempo rimanda sia all’inevitabile labilità delle immagini del reale, sia al tempo immobile ed eterno del mito, attraverso cui si tramanda la memoria della Regina di Cartagine. La contrapposizione ossimorica tra il carattere effimero della realtà presente – «Non più m’attraggono i paesaggi erranti / Del mare, né dell’alba il lacerante / Pallore sopra queste o quelle foglie» (coro IX) – e ciò che di essa «resiste nella memoria»,[33] è inoltre replicata nel coro XII, nella constatazione dell’inevitabile e perituro destino di ciò che sembrava immutabile ed eterno: «Fu golfo constellato/ E pareva immutabile il suo cielo; / Ma ora, com’è mutato!».
Analogamente nel saggio Lo scultore del vento, il poeta si sofferma sul contrasto tra la «perenne» variazione del tempo e la dimensione di eternità, perseguita da Fazzini nella sua opera:
L’opera del ’32 che m’aveva colpito è l’Uscita dall’arca, e se, difatti, in seguito alla scelta del tema, qualche eco di disastro suggerisce, il tempo non vi è tuttavia mai inseguito nel suo perenne naufragio rinnovato, nella lunghissima età orrendamente ritornante in fiore premuta dal peso d’illusioni perite, d’incantevoli forme perite.[34]
L’opera scultorea viene infatti assunta da Ungaretti come emblema di ciò che è eterno, e che pertanto si oppone all’inesorabile trascorrere del tempo, espletandosi nel topos barocco delle rovine – i «pietrami memori»[35] de Il Dolore –, come nella figura della statua che, attraverso la pietra di cui è composta, persiste nel tempo, tramandandosi alla posterità.[36] Già in un articolo sulla celebre mostra del Sindacato Laziale Fascista degli Artisti (1 marzo - 30 maggio 1929), nella quale esposero per la prima volta Scipione e Mafai, Ungaretti si sofferma sull’opera dello scultore Michele La Spina, osservando:
Certo l’uomo non è Dio, e dall’opera sua emanerà sempre la malinconia di uno sforzo illusorio. Nell’ordine dello spirito, l’arte è uno dei mezzi principali, posseduti dall’uomo, per illudersi di abolire il tempo, di vincere la morte.[37]
Nella poesia La Pietà – composta nel 1928 e pubblicata nel 1932 – l’unica, illusoria, possibilità di trascendere i limiti della condizione umana («L’uomo, monotono universo, / Crede allargarsi i beni / E dalle sue mani febbrili / Non escono senza fine che limiti»)[38] consiste, infatti, nel ‘riparare’ il «logorio» del tempo «alzando tombe»,[39] che ne attestino la perpetua memoria. Motivo, questo, che trascorre dal «macigno» su cui si chiudono Le Stagioni,[40] alla poesia La Madre – datata 1930 – in cui la condizione di immobilità ed eternità propria della morte, viene ad identificarsi con la figura della statua («Sarai una statua davanti all’Eterno»)[41] per giungere sino allo scoglio di Palinuro, che nel Recitativo restituisce l’eterna memoria del fedele Nocchiero di Enea,[42] trovando inoltre un corrispettivo scultoreo nella statua in marmo realizzata nel 1946 da Arturo Martini.[43]
Il riferimento alla scultura, inoltre, si estende anche alla valenza grafica del segno, soprattutto all’altezza del Porto Sepolto, le cui poesie, osserva Ungaretti, sono incise come epigrafi nel «granito durissimo»:
Quelle poesie “nate dal cuore”, mi si scolpivano nella mente, parola per parola, come epigrafi, e come in un granito durissimo. E da principio pensai anche con Serra di stamparle in forma epigrafica; e mi sembrò poi che sarebbe stata una stranezza, cosa che in quella veste me le avrebbe rese odiose.[44]
Il carattere epigrafico dei versi è tuttavia compendiato nella brevità quasi epigrammatica delle poesie ‘incise’ sul fondo vuoto della pagina, assicurando in tal modo un pieno risalto visivo alla parola poetica, «scavata» nel silenzio del foglio bianco «come un abisso».[45] Il segno grafico conferisce dunque un risalto visivo alla traccia scrittoria, che si rende particolarmente palese nei libri d’artista,[46] instaurando un rapporto interattivo tra testo e immagine, e scardinando la tradizionale antinomia tra registro visivo e registro verbale. Sono difatti assai numerose le collaborazioni editoriali avviate da Ungaretti con pittori, per la realizzazione di libri d’artista, che si collocano per la gran parte dagli anni Cinquanta in poi, e che costituiscono un capitolo tutt’altro che marginale nella bibliografia del poeta, coinvolgendo, inoltre, artisti d’indiscutibile rilievo, come Carrà, Bona De Pisis, Fontana, Burri, Dorazio.[47]
Il contrasto tra variazione ed eternità, parola e immagine, implica una riflessione sulla vexata quaestio che oppone la natura eminentemente temporale della scrittura alla spazialità propria delle arti plastiche, secondo la ben nota partizione proposta da Lessing,[48] e che la plaquette di Ungaretti e Fazzini, viene, in un certo senso, a sparigliare.
Il testo poetico e l’immagine litografica sono difatti poste l’una a fronte dell’altra, a ricomporre l’emblema della regina di Cartagine, colta nel suo lontano riemergere dall’«ombra» degli anni[49] attraverso il «sussurrio» di Eco, e bloccata nel fotogramma istantaneo dalla litografica. Da un lato, dunque, la verticalità del tempo esperita tanto nella progressiva apparizione della regina dalla lontananza abissale del mito, quanto nello stesso farsi del testo, mediante ripensamenti, cancellature e varianti, dall’altro, invece, la rappresentazione di Didone nello splendore «degli anni giovanili» circondata dal paesaggio lussureggiante di Cartagine, che si estende oltre il vano dell’edificio. Il sottile confine che separa l’immagine verbale dall’immagine pittorica è programmaticamente infranto dalla ‘grafia’ che trascorre dall’una all’altra, rendendo palese l’osmosi tra spazio e tempo:
Space is the body of time, the form or image that gives us an intuition of something that is not directly perceivable but which permeates all we apprehend. Time is the soul of space, the invisible entity which animates the field of our experience.[50]
Così la litografia realizzata da Fazzini rende presente la figura di Didone, la cui apparizione è preparata ‘temporalmente’ dal testo poetico, dando vita ad un oggetto iconico autonomo e originale che si situa, per usare le parole di Mitchell, in quel trattino che delimita la zona di incontro tra image e text.[51]
1*Il presente saggio si inserisce nell’ambito del progetto “FIRB-Futuro in Ricerca 2010”, dal titolo Verba Picta. Interrelazione tra testo e immagine nel patrimonio artistico e letterario della seconda metà del Novecento, che ha sede presso il Dipartimento di Lingue, letterature e studi interculturali dell’Università di Firenze.
M. Bontempelli, Sofferenza e dolore, con una litografia di C. Cagli, due xilografie di M. Maccari in copertina, Roma, «Concilium Lithographicum», 1945.
2 Cartella fuori numerazione con una pagina di Diario fiorentino di Velso Mucci e una litografia di Mino Maccari, Roma, «Concilium Lithographicum», 1944.
3 Si riporta per intero l’indice delle tredici cartelle, così come presentato nella ristampa anastatica Velso Mucci e il Concilium Lithographicum, con uno scritto di L. Sinisgalli, Reggio Emilia, Prandi, 1970. La pubblicazione commemora la morte di Velso Mucci, avvenuta a Londra il 5 settembre 1964, con la ristampa in fac-simile dell’intera collezione del «Concilium», integrata da una suite di nuove litografie richieste ai vecchi collaboratori e a cinque nuovi pittori: Levi, Guttuso, Ciarrocchi, Gentilini, Cantatore, chiamati a sostituire gli artisti scomparsi (Carrà, Savinio, De Pisis, Donghi).
0 – Numero fuori numerazione con una pagina di Diario fiorentino di Velso Mucci; con una litografia di Mino Maccari «…per servire da esperimento alla collezione Concilium Lithographicum», Roma, Dicembre 1944. Tiratura di 16 esemplari numerati e firmati dagli Autori.
1 – Piazza S. Pietro di Aldo Palazzeschi, poesia illustrata da Mino Maccari, nella copertina quattro xilografie di Maccari. 1945. Tiratura di 80 esemplari numerati e firmati dagli Autori (più 7 prove d’artista).
2 – Comme la lune di Bruno Barilli con una illustrazione di Giorgio De Chirico. Nella copertina tre illustrazioni: una xilografia di Mino Maccari e due riproduzioni di disegni. 1945. Tiratura di 80 esemplari numerati e firmati dagli Autori.
3 – I miei genitori. Disegni e storie di Alberto Savinio. In copertina xilografia di Mino Maccari e due illustrazioni. 1945. Tiratura di 32 esemplari più alcune prove d’artista firmate da Savinio.
4 – Circonvallazione Clodia, poesia di Leonardo Sinisgalli, illustrata da Antonio Donghi. Nella copertina quattro xilografie di Orfeo Tamburi. 1945. Tiratura di 80 esemplari numerati e firmati dagli Autori.
5 – Motivo di Nicola Ciarletta, con una illustrazione di Giovanni Omiccioli. Nella copertina due xilografie di Mino Maccari. 1945. Tiratura di 80 esemplari numerati e firmati dagli Autori.
6 – Frammenti per la Terra Promessa di Giuseppe Ungaretti illustrata da Pericle Fazzini. Nella copertina due xilografie di Orfeo Tamburi e una riproduzione di Mino Maccari (ritratto di Ungaretti). 1945. Tiratura di 80 esemplari numerati e firmati dagli Autori.
7 – Post scriptum nella bottiglia. Poesia di Libero De Libero illustrata da Domenico Purificato. Nella copertina due xilografie di Mino Maccari. 1945. Tiratura di 80 esemplari numerati e firmati dagli Autori.
8 – L’ora di notte di Giorgio Vigolo illustrata da Orfeo Tamburi. Nella copertina tre xilografie di Orfeo Tamburi. 1945. Tiratura di 40 esemplari (A) con litografia di Tamburi con figura sdraiata, numerati e firmati dagli Autori.
9 – Sofferenza e dolore di Massimo Bontempelli illustrata da Corrado Cagli. Nella copertina due xilografie di Mino Maccari. 1945. Tiratura di 80 esemplari numerati e firmati dagli Autori.
10 – Fuga si fuga no. Epigramma di Mino Maccari, litografia di Nino Scordia. Due illustrazioni in copertina. 1946. Tiratura di 80 esemplari numerati e firmati dagli Autori.
11 – L’uomo nel pozzo di Lorenzo Montano. Con una litografia di Alberto Savinio. Due illustrazioni in copertina. 1946. Tiratura di 80 esemplari numerati firmati a matita dagli Autori.
12 – Luna di giorno di Filippo De Pisis. Poesia e litografia. Al verso della copertina una piccola xilografia di Mino Maccari. 1947. Tiratura di 80 esemplari numerati e firmati dagli Autori.
13 – Astrid di Vincenzo Cardarelli con una litografia di Carlo Carrà. Due illustrazioni in copertina. 1947. Tiratura di 80 esemplari numerati e firmati da Cardarelli, e non da Carrà.
4 L. Sinisgalli, introduzione a Velso Mucci e il Concilium Lithographicum, cit., p. 9.
5 Ivi, p. 11. Per maggiori informazioni sull’attività di illustratore di Velso Mucci, si rimanda al catalogo Mino Maccari e l’illustrazione letteraria 1928-1989 (Colle Val d’Elsa, Palazzo dei Priori-Museo Civico e Diocesano d’Arte Sacra, 12 giugno-25 luglio 2010), a cura di R. Donati, Siena, Fondazione Musei Senesi, Cinisello Balsamo, Silvana, 2010.
6 Ibidem.
7 Ibidem.
8 Come ricorda Sinisgalli la stampa era affidata al tipografo Igino Alessandrini (ibidem).
9 Ibidem.
10 Ibidem.
11 A. Palazzeschi, Piazza S. Pietro, cit. Così nella plaquette I miei genitori, interamente realizzata da Savino (cit.), Mucci annota: «Il lettore che conosce i numeri precedenti di questa raccolta, sa ormai quale ne è l’idea. Nella tavola di Alberto Savinio che qui presentiamo, è da notare la fusione del disegno con la scrittura; quest’ultima nasce, come ombra, dagli stessi segni delle figure e ne prolunga il senso nelle regioni astratte del linguaggio. Nulla potrebbe provare la stretta parentela tra i due rami della grafia meglio di questa tavola, nella quale l’Autore dà figura alle parole e “scrive” la storia dei suoi genitori sui loro stessi volti».
12 Il passo è compreso sempre nel primo numero del «Concilum». Ma si veda anche la presentazione alla terza cartella, realizzata da Barilli e De Chirico (cit.): «Le origini della scrittura si perdono nella preistoria del disegno. È notorio che le grafie primitive non sono che deviazioni dell’arte di raffigurare le cose. Le leggende che circondano la nascita degli alfabeti stanno a significare il mistero dell’epoca nella quale quella deviazione, sempre più congiunta al linguaggio orale, si è spinta a un tale senso proprio, da perdere memoria della sua natura di deviazione del disegno. In Cina, trentadue secoli prima dell’Era Cristiana, qualche nodo formato sopra una corda era la sola maniera di conservare i ricordi degli avvenimenti. Durante il regno di Fo-hi si cominciò ad inventare una specie di caratteri che rappresentavano grossolanamente gli oggetti; e questi furono i primi elementi della scrittura ideografica dei Cinesi. Ma Fo-hi stesso anticipò uno dei più fondi misteri della scrittura componendo un libro simbolico mediante gli otto trigrammi, che, tratti forse da lineamenti del mondo vegetale, erano combinati in modo da rappresentare non tanto le cose quanto le idee e precorrevano la sublime astrazione della grafia algebrica. Dal canto suo, l’arte figurativa si è poi sviluppata fino a produrre tutta la realtà visiva dell’uomo. Ma i rapporti tra il disegno e la scrittura rimasero sempre vivi, anche se immemori dell’antico legame. Oggi noi ci proponiamo di racchiudere in una sola tavola due rami così diversi della fantasia, conciliati da un comune sentimento poetico, che la parola astrae dalla ganga terrosa della vita e il disegno ricolloca in seno ad alcune di quelle cose caotiche che lo ispirarono, realizzandole in segni, che in fondo hanno di concreto soltanto la pura visibilità».
13 La dipintura è poi riprodotta nell’edizione definitiva del 1744 dei Principi di scienza nuova.
14 Si cita dalla seguente edizione: G. Vico, La scienza nuova, introduzione e note di P. Rossi, Milano, Bur, 2008, p. 85.
15 Ivi, p. 104.
16 Vico, sulla scorta di Francesco Bacone, impiega il termine di geroglifico nel senso di emblema, ovvero di «contrassegni che senza aiuto alcuno di parole, significano le cose….essi hanno sempre qualche somiglianza con la cosa significata e sono in qualche modo emblemi» (cfr. le note del curatore all’edizione della Scienza nuova, ivi, p. 104).
17 Il saggio, pubblicato con questo titolo su «L’Italia Letteraria» (n. 34, 20 agosto 1933), deriva dall’introduzione di Ungaretti alla monografia La peinture de Maria Mancuso, Roma, [Biblioteca d’Arte di Roma], 1931, che costituisce la versione francese del volume di R. Melli, La pittura di Maria Mancuso Grandinetti, pubblicato per i tipi della Biblioteca d’Arte di Roma nel 1930, con introduzione di M. Recchi. Il saggio è adesso consultabile in G. Ungaretti, Vita d’un uomo. Saggi e interventi, a cura di M. Diacono e L. Rebay, Milano, Mondadori (I Meridiani), 1974 (d’ora in poi: SI74), pp. 270-271 (ma si veda anche l’integrazione del testo, riportata nelle note a pp. 920-921).
18 Lettera del 30 dicembre 1945, in G. Ungaretti, A. Parronchi, Carteggio, a cura di A. Parronchi, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1992, pp. 33-34. Si ricorda che la plaquette è pubblicata nel maggio dello stesso anno.
19 G. Ungaretti, introduzione a Pittori italiani contemporanei, Bologna, Cappelli, 1950; con il titolo editoriale di Pittori italiani contemporanei, il testo è riprodotto in A. Zingone, Deserto Emblema. Studi per Ungaretti, Caltanissetta-Roma, Salvatore Sciascia Editore, 1996, pp. 294-299 (la citazione è a p. 298).
20 Pubblicata per la prima volta con il titolo Frammenti in «Alfabeto», 15-31 luglio 1948, la poesia conosce un iter elaborativo particolarmente lungo e complesso, che va dalla seconda metà degli anni Trenta sino alla pubblicazione definitiva ne La Terra Promessa. Frammenti, con l’apparato critico delle varianti e uno studio di Leone Piccioni, Mondadori, Milano, 1950. Il testo è adesso consultabile in G. Ungaretti, Vita d’un uomo. Tutte le poesie, a cura di C. Ossola, Milano, Mondadori (I Meridiani), 2009 (d’ora in poi: M09), pp. 281-282
21 G. Ungaretti, Secondo discorso su Leopardi [1950], ora in SI74, p. 469: «S’era accorto che non poteva esserci poesia senza un sentimento dell’infinito […]. Ma riflettendo ancora s’era accorto che idea e sentimento dell’infinito non possono aversi che da cose finite, da cose del passato, da cose morte, dal nulla, da cose scomparse, e che l’infinito era un’illusione, originata dalla potenza evocatrice della parola».
22 B. Pascal, Pensieri [185]: «Ma alla fine, cos’è un uomo nella natura? Un nulla davanti all’infinito, un tutto davanti al nulla, qualcosa di mezzo tra il nulla e il tutto, infinitamente lontano dal comprendere gli estremi».
23 Ibidem.
24 Commentando i versi della Canzone «Più sfugga vera, l’ossessiva mira, / E sia bella, più tocca a nudo calma / E, germe, appena schietta idea, d’ira, / Rifreme, avversa al nulla, in breve salma», Ungaretti osserva: «La mira diventa così per scoperta della mente, una realtà, un’idea, una forma che prende forma corporale, una forma degradata (“breve salma”), una forma cui occorra un peso, ma forma che può essere percepita dai nostri sensi, essendo divenuta, degradandosi, corporea» e più oltre aggiunge: «Più ci sfugge, più è bella, più ci diventa immagine, simbolo di forma assoluta di calma (“tocca a nudo calma”), e seme (“germe”) da cui le umane immagini nasceranno, si sprigioneranno». (G. Ungaretti, Note a La Terra Promessa, ora in M09, p. 790).
25 Pubblicato per la prima volta come presentazione al catalogo Pericle Fazzini, nota informativa di Romeo Lucchese, Roma, Stabilimento Tipografico Carlo Colombo, 1951, il saggio è poi riproposto con il titolo Lo scultore del vento, nel catalogo della mostra personale dello scultore tenutasi a Roma, presso Palazzo Barberini nel 1951, e quindi, con lo stesso titolo, in «Il Popolo», 8 aprile 1951. Infine compare, con il titolo Fazzini, su «Alfabeto», 21-22, 15-30 novembre 1953, ed è poi parzialmente utilizzato come presentazione delle opere dell’autore in «La Biennale di Venezia», Venezia, Lombroso, 1954. Quest’ultimo testo è riprodotto in A. Zingone, Deserto Emblema. Studi per Ungaretti, cit., pp. 299-301.
26 Nel 1936 difatti Fazzini progetta un gruppo scultoreo organizzato come un Coro o Concerto «di statue in legno di cui dovevano far parte un musico, un giovane declamante, un ragazzo in ascolto, una danzatrice, e, forse, un’altra figura». Come asserisce Romeo Lucchese nell’introduzione al catalogo Pericle Fazzini, Roma, De Luca, 1952 (p. 10), l’opera non fu mai ultimata ma di essa furono portati a termine il Giovane che declama, il Ragazzo che ascolta, poi impropriamente chiamati Momenti di solitudine, e la Danzatrice, mai però del tutto finita. Il gruppo andò disperso, il Ragazzo che ascolta fa parte della collezione Maristany di Madrid, il Giovane che declama appartiene a Erminio Cidonio di Roma, mentre la Danzatrice è di proprietà dell’editore Luigi De Luca. Si ricorda inoltre che in quel periodo Fazzini aveva appena trasferito lo studio nella storica Via Margutta, dove nel ’36 esegue il Ritratto di Ungaretti.
27 P. Fazzini, Scritti 1930-1980, prefazione di Mons. P. Macchi, note biografiche di P. Sacerdoti, Città di Castello (Perugia), Edimond, 1998, p. 62.
28 Si tratta di Danni con fantasia, La Pietà, Caino, La preghiera, Dannazione, La pietà romana, Sentimento del Tempo. Il volume fu pubblicato nel 1965, e, come recita il colophon, costituisce «il IX volume dei poeti illustrati nella nuova serie. Franco Riva l’ha composto a mano con carattere Janson e sul suo torchio privato, in carta a tino di Pescia, ne ha tirato e numerato 150 esemplari».
29 Si veda ad esempio Danni con fantasia (M09, p. 207) che si apre con la domanda «Perché le apparenze non durano?», e si conclude, specularmente, con un’analoga interrogazione «Ma avremmo vita senza il tuo variare, / felice colpa?», istituendo una relazione contrastiva tra «l’idea» eterna ed inafferrabile e la costituiva variazione della vita terrena, che dà luogo a sempre nuove apparenze.
30 Si pensi a La Preghiera: «Da ciò che dura a ciò che passa, / Signore, sogno fermo, / Fa’ che torni a correre un patto»; «Sii la misura, sii il mistero» (M09, p. 214), oppure a Sentimento del tempo: «La lontananza aperta alla misura» (M09, p. 218).
31 Successivamente all’edizione della plaquette realizzata con Fazzini, Ungaretti pubblica su rivista i seguenti Cori: La Terra Promessa [cori I-III], «Campi Elisi», maggio 1946; La Terra Promessa (Frammenti) [cori I-XII], «Inventario», autunno-inverno 1946-1947; La Terra Promessa [cori XIII-XIX], «Lo Smeraldo», luglio 1947. Il titolo Cori descrittivi di stati d’animo di Didone, compare solo a partire dalla prima edizione de La Terra Promessa (1950).
32 Cori descrittivi di stati d’animo di Didone, coro VIII (M09, p. 286): «Viene dal mio al tuo viso il tuo segreto; / Replica il mio le care tue fattezze; /Nulla contengono di più i nostri occhi / E, disperato, il nostro amore effimero / Eterno freme in vele d’un indugio».
33 Cfr. M.C. Papini, Ungaretti e Virgilio. I «Cori descrittivi di stati d’animo di Didone», in Il commento. Riflessioni e analisi sulla poesia del Novecento, a cura di A. Dolfi, Roma, Bulzoni, 2011, pp. 179-181.
34 Si cita dall’edizione del saggio, pubblicata con il titolo Fazzini, sulla rivista «Alfabeto», 21-22, 15-30 novembre 1953.
35 Incontro a un pino (M09, p. 259).
36 Si pensi ad una poesia come Statua (da Sentimento del Tempo, M09, p. 179): «Gioventù impietrita, / O statua, o statua dell’abisso umano…// Il gran tumulto dopo tanto viaggio / Corrode uno scoglio / A fiore di labbra». Nei documenti conservati presso il Fondo Ungaretti dell’Archivio Contemporaneo «A. Bonsanti» del Gabinetto Scientifico Letterario G.P. Vieusseux, è inoltre presente una stesura inedita del testo (FU, XL, 1, c. 1), forse afferente al 1966, in cui il titolo è dedicato allo scultore Hans Arp: Per una statua di Hans Arp (cfr. Commento, a cura di C. Ossola, F. Corvi e G. Radin, M09, p. 949).
37 Tre riflessioni, «Il Tevere», 11-12 aprile 1929, ora in G. Ungaretti, Filosofia fantastica. Prose di meditazione e d’intervento (1926-1929), a cura e con un saggio introduttivo di C. Ossola, Torino, UTET, 1997, p. 61.
38 La poesia fa parte della sezione Inni del Sentimento del Tempo, ed è compresa nel volume degli Inni illustrato da Fazzini. Il testo è consultabile in M09, p. 211.
39 «Ripara il logorio alzando tombe, / E per pensarti Eterno/ Non ha che le bestemmie» (M09, p. 211).
40 Il quarto movimento della poesia dedicato alla notte, si conclude con il verso «È nuda anche la quercia, / Ma abbarbicata sempre al suo macigno» (Le Stagioni, da Sentimento del Tempo, M09, p. 144); ma si veda anche il coro IX dei Cori di Didone: «Nemmeno più contrasto col macigno, / Antica notte che sugli occhi porto» (M09, p. 286).
41 La Madre, da Sentimento del Tempo, M09, p. 198.
42 Si tratta della poesia Recitativo di Palinuro (da La Terra Promessa, M09, pp. 290-291) Da notare come il processo di ‘pietrificazione’ investa anche lo stesso soggetto poetico, da Sono una creatura de L’Allegria, sino alla «roccia di gridi» di Tutto ho perduto (da Il Dolore, M09, p. 241): «La vita non mi è più, / Arrestata in fondo alla gola, / Che una roccia di gridi»; nella stessa raccolta si veda inoltre Mio fiume anche tu: «E pietà in grido si contrae di pietra» (ivi, p. 269).
43 Arturo Martini, Palinuro, nell’Eneide, timoniere di Enea, 1946; l’anno seguente Ungaretti avrebbe pubblicato su «La Fiera Letteraria» (10 aprile 1947) un suo ricordo dello scultore: Testimonianza per Arturo Martini.
44 Lettera a Giuseppe De Robertis del 4 settembre 1942, LDe84, p. 30. Ma si pensi anche alle «lettere incise in fronte al macigno» di Silenzio di Edgard Allan Poe, tradotto da Ungaretti nel 1910, e ora pubblicato in G. Ungaretti, Vita d’un uomo. Traduzioni poetiche, a cura di C. Ossola, G. Radin, Milano, Mondadori (I Meridiani), 2010, pp. 7-13 (la citazione è a p. 9).
45 Il riferimento è ai ben noti versi di Commiato: «Quando trovo / in questo mio silenzio / una parola/ scavata è nella mia vita / come un abisso» (M09, p. 96).
46 Si usa il termine ‘libro d’artista’ in un’accezione ampia, comprendendo in essa un variegato spettro di realizzazioni, attualmente oggetto di un vivace dibattito tassonomico, per cui si rimanda a G. Maffei, Il libro d’artista, Milano, Edizioni Sylvestre Bonnard, 2003.
47 Mi sia permesso a questo proposito, rimandare al mio libro di prossima pubblicazione, Giuseppe Ungaretti. Poesia, musica, pittura, e in particolare al capitolo Verba Picta, dedicato a Ungaretti e il libro d’artista.
48 Si veda su questo tema, la celebre analisi di Mario Praz, in Mnemosine. Parallelo tra la letteratura e le arti visive [1970], Milano, Mondadori, 1971 (adesso: Milano, SE, 2008), in cui, confutando l’assunto di Lessing, il critico individua nelle due arti sorelle un’identità di struttura, pur nel variare dei mezzi: «Le arti figurative cristallizzano lo stato d’animo al suo punto d’arrivo, là dove esso confina con le immagini delle cose, le arti della parola sembrano invece fermare l’apparenza imprecisa che lo stato d’animo acquista in noi prima di assumere quella semplificazione che può conciliarlo con lo spazio e renderlo immagine visiva» (ivi, p. 66). Per un inquadramento generale dei rapporti tra spazio e tempo nelle due arti sorelle, si segnala il libro di Cesare Segre, Pittura, linguaggio e tempo, Parma, Monte Università di Parma, 2006; lo studio di Marcello Carlino su Gli scrittori italiani e la pittura, Formia, Ghenomena, 2011; e il saggio di Giorgio Patrizi, «Et in Arcadia Ego»: il problema teorico, in Id., Narrare l’immagine. La tradizione degli scrittori d’arte, Roma, Donzelli, 2000, pp. 3-23.
49 La redazione manoscritta testimonia di un diverso incipit della poesia: «Tra la fuga dell’ombra», che traduce in un’immagine quasi scenografica la «lontananza degli anni».
50 W.J.T. Mitchell, Spatial Form in Literature: Toward a General Theory, «Critical Inquiry», vol. 6, n. 3, Spring 1980, p. 545.
51 Mi riferisco alla distinzione operata da Mitchell (Pictorial Theory, Chicago-London, The University of Chicago Press, 1994, p. 89) tra image/text, che individua la separazione di verbale e visuale, imagetext, che allude a una possibile quanto utopica unione dei due termini, e, infine, image-text, che descrive la relazione tra testo e immagine. Una vasta antologia degli scritti di Mitchell è pubblicata in traduzione italiana da Michele Cometa nel volume Pictorial turn. Saggi di cultura visuale, Palermo, Duepunti, 2008.