Lacombe Lucien. Lo schermo opaco della memoria

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Magistrale opera a due mani realizzata nel 1974 da Louis Malle e Patrick Modiano, Lacombe Lucien, è sunto della poetica di memoria e ombra del romanziere e manifestazione esemplare di una modernità cinematografica che si rapporta in modo inatteso e perturbante alla storia recente. Anti declamatorio e non argomentativo, costruito sulle azioni puramente istintive di un personaggio che blocca ogni possibile forma di empatia, il film si offre al pubblico in tutta la sua accecante immediatezza visiva e narrativa, ma oppone una sorta di schermatura all’implicazione razionale e sentimentale. Non esiste, però, barriera che non spinga al proprio superamento: l’opacità costitutiva di Lacombe Lucien chiama in causa lo spettatore e il critico. La resistenza che il film oppone alla comprensione è all’origine della nostra indagine: dalla questione della paternità dell’opera al dibattito ideologico sulla moda rétro, l’articolo studia la corrispondenza tra due forme distinte di ‘messa in scena’ dell’opacità e s’interroga sull’ambiguità insita nel recupero testimoniale attraverso il mezzo filmico, per giungere, infine, ad affrontare la questione decisiva dello sguardo cinematografico sull’orrore della storia e sulla responsabilità individuale.

A masterpiece co-created by Louis Malle and Patrick Modiano in 1974, Lacombe Lucien summarizes the novelist’s poetics of memory and shadow, and is an exemplary manifestation of the ways in which cinematic modernity relates to recent history in unexpected and disturbing ways. Avoiding declamatory and argumentative stances, the film is centred on the purely instinctive actions of a character who blocks any possible form of empathy. As such, it offers the public a visual and narrative construct that is blindingly immediate yet also raises a barrier against rational and emotional involvement. However, since all barriers arguably seek to be overcome, the constitutive opacity of Lacombe Lucien challenges spectator and critic alike. The resistance the film opposes to its own understanding constitutes the basis of this essay. Exploring issues from the question of authorship to the ideological debate on retro fashion, it examines the correspondence between two distinct forms of ‘staging’ of opacity, and interrogates the ambiguity inherent in acts of testimonial recovery through film in order to consider the decisive question of the relationship between the cinematic gaze, the horror of history, and individual responsibility.

 

Belle fonction à assurer, celle d’inquiéteur.

André Gide

 

Frutto della collaborazione tra il romanziere Patrick Modiano e il regista Louis Malle, Lacombe Lucien esce nel 1974, al termine di una complessa fase di gestazione che ha inizio più di dieci anni prima e che giunge a compimento solo con l’intervento tardivo dello scrittore. Nasce da tale incontro una magistrale opera a due mani, che è al contempo sunto della poetica di memoria e ombra del primo Modiano e manifestazione esemplare di una modernità cinematografica che si rapporta in modo inatteso e perturbante alla storia recente.

Ambientato nella provincia agricola del sud-ovest della Francia nell’estate del 1944, il film, che porta il nome del protagonista, mette in scena la collaborazione con la Gestapo di un contadino diciassettenne privo di consapevolezza politica e l’ambiguo rapporto che il giovane instaura con la famiglia di un sarto ebreo nascosta nel paese. Se il personaggio principale, la storia narrata e il contesto storico rappresentato fanno appello, nel loro insieme, all’adozione di un ‘punto di vista’ ideologico, sembrano, cioè, domandare al regista e allo sceneggiatore di relazionarsi in modo chiaro al passato recente, il film, nella sua forma compiuta, non risponde a tali richieste, o perlomeno non nel modo atteso. Non assertivo, né argomentativo, Lacombe Lucien svela brutalmente frammenti di una realtà storica scomoda e difficile da assumere, quale la partecipazione ‘dal basso’ alle azioni repressive dell’occupante, ma evita la formulazione esplicita di un giudizio etico e politico sui fatti narrati. Si discosta, dunque, dalla retorica verbosa delle forme più convenzionali di un cinema di denuncia – rassicuranti poiché invitano a un mutuo riconoscersi nell’indignazione e nella rivolta – e resta un’opera oscura, a tratti irritante. La pellicola recupera il passato con dovizia documentaria, eppure tace l’essenziale. Blocca il fremito emozionale dei volti, riduce la parola e la sottomette ai fatti, non esplicita la ragione delle cose e la realtà psicologica che la sottende, non motiva gli atti individuali e le vicende collettive. Nessuna fede ideologica guida i protagonisti, vittime consenzienti o istintivi carnefici di una fatalità storica incarnata in una gomma bucata o in un orologio rubato.

Il percorso filmico è tracciato in modo lineare, seguendo il movimento – fisico innanzitutto – del personaggio principale, ma è disseminato di vuoti inquietanti: il regista occulta le zone oscure in cui ha origine la violenza e gioca apertamente sull’assenza, su quelli che lui stesso definisce come «Dérapages, hiatus psychologiques».[1] La difficoltà di fruizione e il senso di fastidio alla visione vengono dall’incapacità di colmare tali vuoti. Lacombe Lucien si offre al pubblico in tutta la sua accecante immediatezza visiva e narrativa, ma la ‘superficie’ indagata erige ostacoli alla profondità, e non offre risposte. Costruito attorno a un personaggio che blocca ogni possibile forma di empatia, il film oppone una sorta di schermatura alla comprensione razionale e all’implicazione sentimentale. Non esiste, però, barriera che non spinga al proprio superamento: proprio in quanto forma di resistenza alla comprensione, Lacombe Lucien ha come primo risultato quello di provocarla, chiamando in causa lo spettatore. Se lo depista, è per indurlo a tracciare percorsi indiziali. In questo senso, potremmo attribuire alla pellicola il neologismo inquiéteur, coniato provocatoriamente da André Gide per descrivere la propria funzione nel mondo delle lettere. Tramite un gioco di parole che viene dalla somiglianza tra i termini enquêteur (colui che conduce un’inchiesta) e inquiétude (inquietudine), lo scrittore evoca un’investigazione delle persone e delle cose da realizzarsi tramite forme di turbamento, destinata, cioè, a sollevare disagio, a colpire laddove non si può o non si riesce a capire, portando alla luce tranquillizzanti ipocrisie sociali e menzogne individuali.

Louis Malle e Patrick Modiano si pongono come inquiéteurs del proprio tempo, facendo di Lacombe Lucien lo spazio di un’ostinata ‘opacità’ cinematografica che sembra esigere e, al contempo, impedire ogni sforzo interpretativo.

 

1. Una questione di paternità

Per fare effrazione nelle zone d’ombra di Lacombe Lucien è necessario affrontare i presupposti ‘genetici’ di ambiguità del film, legati alla difficoltà di attribuirgli una paternità autoriale univoca e d’identificarne la natura. Di comprendere se il regista, Louis Malle, e il co-autore della sceneggiatura, Patrick Modiano, hanno avuto eguale incidenza sul risultato finale, oppure se una delle due figure si è rivelata dominante nel corso della gestazione del film, al punto di ricondurlo alla propria poetica. A lungo è prevalsa una lettura parziale di Lacombe Lucien, come opera esemplificativa – seppur elaborata in un linguaggio diverso da quello letterario – dell’estetica di Patrick Modiano, quasi si trattasse della filiazione cinematografica della cosiddetta «trilogia dell’occupazione»,[2] una singolare triade di romanzi d’esordio centrati sulla rievocazione della Francia occupata.

Nato nel 1945, Patrick Modiano non vive in prima persona l’esperienza della guerra, ciononostante non cessa di dipingere la rete complessa di relazioni equivoche e contraddittorie intessuta tra l’occupante e l’abitante, il persecutore e il perseguitato, in una sorta di opera-palinsesto costruita su stratificazioni successive: di romanzo in romanzo tornano situazioni, figure, luoghi, reali o immaginari, costruiti su documenti precisi o su frammenti di labile memoria, ciascuno identico all’altro oppure distinto, parte di un mosaico storico dove finzione e verità non conoscono confini. La sovrapposizione caotica d’identità fittizie e veritiere, i nebulosi profili psicologici dei personaggi, le incerte barriere sociali che li separano, fanno da tela di fondo all’epoca storica su cui lo scrittore non cessa di riflettere in modi e in tempi diversi. In piena rivolta studentesca, il giovane autore sembra ignorare il fermento ideologico legato all’attualità politica e si concentra sul recupero della memoria, rovistando

instancabilmente nelle cronache degli anni Quaranta, riportando alla luce i personaggi ora loschi ora tragici che avevano denunciato (o salvato) amici ebrei, partecipato a orge e torture e praticato a volte il doppio gioco tra la Gestapo e la Resistenza nell’atmosfera sinistra di una Parigi da Crepuscolo degli Dei.[3]

Quest’attenzione esclusiva rivolta alla Francia di Pétain non cessa di destare sospetti e la prima produzione romanzesca di Modiano pare «a molti attraversata da torbide simpatie per il mondo del collaborazionismo».[4]

A Lacombe Lucien, per una sorta di ‘evidenza transitiva’, sono trasferite quelle ambiguità di cui lo scrittore è accusato, e, all’epoca dell’uscita del film nelle sale, il suo ruolo è sopravvalutato rispetto a quello del regista. Tale lettura, fondata sulla fama di cui gode il romanziere, perdura nel tempo e corrobora la diatriba mediatica sollevata dalla pellicola.[5] Il film non solo attiva un acceso dibattito attorno alla responsabilità del singolo come ingranaggio del potere, ma contribuisce alla messa in discussione di quello che Jacques Siclier definisce le «mythe d’une France presque unanimement résistante»,[6] che si afferma progressivamente attraverso il trattamento eroicizzante del periodo della liberazione nel cinema e nelle altre arti. Lacombe Lucien riapre una piaga non sanata e dà espressione a un senso di colpa collettivo a lungo taciuto. Louis Malle stesso parla di una «remise en cause de l’histoire officielle»,[7] da leggersi come demistificazione di un’epica resistenziale secondo la quale «il était inconcevable qu’un membre de la classe ouvrière ait collaboré».[8] Considerazioni di questo genere, su cui ritorneremo, provocano critiche tendenziose che sfociano in accuse di stampo ideologico rivolte agli autori.[9] Per i sostenitori di un’idea d’opposizione che viene dalle classi popolari, Lucien è descritto con pericolosa indulgenza, troppo ambigua è la sua relazione con la famiglia ebraica degli Horn e troppo labili i confini tra carnefici e vittime. Il film, d’altro canto, non può soddisfare l’opposto schieramento ideologico, poiché mostra miserie e lugubri retroscena di una guerra ormai al suo termine ed evoca l’inarrestabile dissoluzione del potere, la sua orgiastica condanna a morte.

Non stupisce, in tal senso, che la pellicola possa essere ricondotta all’universo spettrale della trilogia dell’occupazione, dove, in toni esacerbati, talvolta grotteschi, Modiano scava nella memoria storica e familiare, tratteggiando le maschere dei suoi futuri revenants, in bilico tra verità e menzogna. Tale ipotesi è però smentita dai fatti, poiché lo scrittore interviene esclusivamente sulla stesura conclusiva della sceneggiatura, nella fase finale di un progetto elaborato e riproposto da Louis Malle nell’arco di più di dieci anni, in occasioni e in forme diverse, ciascuna di esse legata a una determinata esperienza di vita e alla scelta della collocazione geografica dell’azione. Questo non fa che infittire il mistero d’appartenenza autoriale e a imporre, nell’analisi, il dialogo costante tra le due componenti creative. La partecipazione di Modiano, lungi dall’essere accessoria, è evidente nella specificità della pellicola, nel suo essere recalcitrante a ogni forma di delucidazione psicologica, nel suo sistematico incorporare la contraddizione e l’enigma. Come se all’opacizzazione dei personaggi e alla complicazione dei loro rapporti nella fase di elaborazione testuale fosse corrisposta un’opacizzazione della messa in scena e l’estetica dello scrittore avesse pervaso una forma in divenire, a lungo pensata e rimaneggiata da quello che resta il suo primo autore.[10] Se Lacombe Lucien è a tutti gli effetti un’opera di Louis Malle, il discorso filmico del regista è modellato sulla base non di semplici indicazioni date in sceneggiatura, ma su di una più vasta percezione della storia, delle sue idiosincrasie, dei suoi fantasmi irrisolti, che appartiene specificatamente alla poetica di Modiano.

 

2. Una lunga gestazione

La prima fase di elaborazione del soggetto di Lacombe Lucien è datata all’inizio degli anni Sessanta e nasce da una riflessione sulla tortura in relazione ai conflitti coloniali[11] che conduce il regista a interrogarsi sul coinvolgimento del singolo nell’esercizio della violenza strutturata in un sistema. Tale riflessione partecipa di un più vasto dibattito attorno alla natura del male incentivato dall’uscita del saggio di Hannah Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme:[12] al fascino luciferino di un crimine che esce dall’ordinario ed è compiuto coscientemente da creature di eccezionale malvagità, l’autrice oppone la banalità di un male perpetrato sistematicamente per «eseguire gli ordini». Ordini che «incidentalmente» coincidono con la violenza, la tortura e la morte. In questo «incidentalmente» Louis Malle sceglierà di collocare Lacombe Lucien. Brutalmente calato in una realtà di cui non ha alcuna consapevolezza critica, privo di strumenti intellettuali e morali per scegliere, il protagonista della pellicola compie atti di estrema crudeltà, non prova empatia dinanzi al dolore altrui e diventa l’ingranaggio attivo di una violenta vicenda collettiva. La seconda fase, di una decina d’anni successiva, porta a una prima sinossi dal taglio marcatamente ideologico: Malle, testimone, in Messico, della repressione violenta delle manifestazioni studentesche in opposizione alla presidenza di Luis Echeverria Alvarez, scrive il soggetto di Le Faucon, il cui protagonista, Chucho, sottoproletario incolto, viene assoldato dagli halcones, uno “squadrone della morte”, costituito da giovani appartenenti perlopiù agli strati più bassi della popolazione e, di conseguenza, facilmente manipolabili.[13] Il regista riprende, in quest’occasione, la riflessione marxista sul Lumpenproletariat urbano, privo di coscienza di classe e destinato per questo a divenire braccio armato del potere, concetto che rielaborerà nel corso delle redazioni successive di Lacombe Lucien in rapporto alle diverse situazioni storiche e geo-politiche in cui deciderà di collocare l’azione. Chucho anticipa Lucien, contadino senza istruzione alla ricerca di una rivincita sociale, segnato dall’assenza della figura paterna e dalla povertà, miliziano non per scelta ideologica, ma per caso e per opportunismo. Incidentalmente, appunto. Malle stesso, ribadisce, in relazione alla versione conclusiva di Lacombe Lucien, di aver adottato un approccio «marxista»,[14] fornendo al proprio film un sotto-testo eminentemente politico e una possibile chiave di lettura.

Nelle sei stesure successive, Malle mantiene l’impostazione iniziale, ma traspone il soggetto nella Francia rurale della seconda guerra mondiale, raccoglie testimonianze di episodi realmente accaduti[15] e affronta la propria memoria personale. Il personaggio di Lucien prende forma: nelle prime versioni è il miliziano responsabile della denuncia e dell’arresto di alcuni alunni ebrei nascosti in un collegio,[16] ma nell’ultimo soggetto scritto di propria mano dal regista collabora direttamente con la Gestapo (è gestapiste) e l’episodio del collegio è abbandonato a favore della relazione ambigua intessuta con una famiglia ebrea nascosta in paese. Già in queste sinossi, il coinvolgimento del singolo è l’esito fortuito di vicissitudini individuali. Il nucleo fondante della vicenda, cioè la negazione del principio ideologico come motore della storia, è presente in nuce prima ancora dell’intervento di Modiano nella scrittura e converge in una più vasta rilettura storica dell’occupazione che prende corpo tramite diversi linguaggi artistici tra il 1969 e il 1976.

Sono questi gli anni in cui un paese intero riflette sulla propria responsabilità storica, svelando progressivamente l’ambiguità della propria posizione fino a smentire l’idea di un’unanime opposizione all’occupante tedesco da parte della popolazione, unita alle truppe alleate in uno sforzo congiunto per la libertà. Al cinema tendono progressivamente a scomparire le epopee militari costruite attorno ai due episodi cardine della liberazione, lo sbarco in Normandia e la presa di Parigi da parte degli alleati,[17] e s’impongono storie di civili, spesso di classi medie o proletarie, ambientate, sul finire della guerra, in zone rurali lontane dal fermento ideologico della capitale. La chiusura della prospettiva geografica nei confini dell’esagono permette di evitare la rappresentazione diretta dei campi di concentramento, ma interpella lo spettatore e focalizza il suo sguardo sul volto familiare della repressione, costituito da miliziani e da ausiliari francesi assoldati dalla Gestapo. La rappresentazione inconsueta di delazioni, tradimenti, omertà ha come risultato di evidenziare, per antitesi, il precedente utilizzo strumentale della mitologia resistenziale, finalizzato ad una legittimazione del potere gaullista.[18] Louis Malle non è estraneo a queste trasformazioni: nel 1971 la N.E.F. (Nouvelles Editions Des Films), società di distribuzione del regista e del fratello Vincent Malle, porta nelle sale il documentario di Marcel Ophuls Le chagrin et la pitié, che avvicenda testimonianze e immagini di repertorio per evocare frontalmente il periodo dell’Occupazione in una città di provincia, Clermont-Ferrand. Il film mostra una collettività che sopravvive in uno stato di attesa, di passiva accettazione degli eventi, e riporta l’orrore alla partecipazione quotidiana del singolo, che va dalla collaborazione diretta al silenzio, costringendo lo spettatore comune a fare i conti con se stesso.

Malle prende la stessa strada sul fronte della finzione. Circoscrive la vicenda di Lacombe Lucien nello spazio («une petite préfecture du sud ouest de la France», come indica il cartello d’apertura del film) e nel tempo (lo stesso cartello designa come data d’inizio il giugno del 1944 mentre quello conclusivo decreta l’esecuzione di Lucien nell’ottobre dello stesso anno), allo scopo – esplicito – di svelare il fenomeno di «collaboration ordinaire, en province dans les petites villes».[19] Il regista inizia, dunque, la ricerca di un co-sceneggiatore che lo aiuti a trascrivere l’atmosfera sordida del collaborazionismo provinciale e sceglie di collegare il proprio progetto, già in fase avanzata, alle istanze culturali del presente, etichettate in seguito, per facilitarne la lettura complessiva, come «moda rétro».[20] Il termine, che sarà poi esteso al cinema, non designa una vera e propria corrente letteraria, ma definisce la proliferazione, tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta, di romanzi e di film[21] che abbandonano la lettura eroica data in precedenza al conflitto mondiale per assumere le contraddizioni implicite della storia e rievocare frammenti di memoria occultata poiché ontosa. Collocata sulla nebulosa linea di confine che si disegna tra colpa e innocenza, centrata sui morbosi rapporti che uniscono carnefici e vittime, e sulle reazioni inattese che scaturiscono dalla violenza e dalla paura della guerra, tale voga narrativa conduce a una rappresentazione della storia che incorpora e supera la rievocazione documentaria. Lo sguardo che cinema e letteratura rivolgono a un passato doloroso si apre al ‘disturbante’ e rappresenta ‘l’irrappresentabile’, colloca la sofferenza e la perdita nello spazio ambiguo dell’ossessione individuale e della decadenza collettiva, urtandosi all’opacità delle intenzioni e all’impossibilità di designare colpevoli.[22]

È all’interno di questo clima culturale che Louis Malle cerca di portare a termine il proprio progetto.[23] Patrick Modiano, considerato, suo malgrado, uno dei maggiori esponenti della moda rétro, accetta d’intervenire nella scrittura, restringe la vicenda attorno al nucleo dei personaggi principali, elimina l’episodio del collegio a favore di una più forte presenza della famiglia ebraica, della caratterizzazione di France Horn e del rapporto che la lega a Lucien. Il titolo del film passa da Le Petit Lucien a Lacombe Lucien, prendendo a prestito una battuta del protagonista.[24] Viene inoltre aggiunta, in esergo, la traduzione francese di una citazione dallo scrittore e filosofo americano George Santayana[25] che esplicita la portata allegorica del film e lo collega ulteriormente alle teorie marxiste: «ceux qui ne se souviennent pas du passé sont condamnés à le revivre».

La condanna a rivivere un passato incerto, a farne memoria filmica e letteraria è, se vogliamo, la necessità d’origine di Lacombe Lucien. Il cognome e il nome del protagonista ne riassumono la natura specifica, la sostanza. Tutto, in un certo senso, è già detto dall’inizio.

 

3. Cognome e nome Lacombe Lucien

L’esergo pone l’accento sul rischio dell’oblio e sulla condanna storica alla ripetizione. Aprendosi sull’evenienza inquietante di un Sisifo deprivato di memoria – e per questo colpevole – Lacombe Lucien immette da subito lo spettatore entro la riflessione di Modiano sul manifestarsi del passato nel presente, sulla nebulosa circolarità delle cose e dei volti e sulla necessità del recupero indiziale della memoria storica e personale.

L’intera produzione dello scrittore affronta le varianti di una tematica binaria. È centrata sulla ricerca di un’identità (individuale e collettiva) che si percepisce – e si legge nelle scelte di scrittura e di costruzione dell’intreccio – come indefinita, frammentaria e incompiuta. Talvolta perduta nel nulla, oppure occultata, mascherata dietro identità fittizie, talvolta solo ‘fantasmata’ e ritrovata laddove non la si cercava. Tale ricerca partecipa dell’impossibilità di comprendere appieno il movimento della società e i disordini della storia, le intermittenze e le idiosincrasie del passato e di un presente a esso speculare, disseminato di tracce che invitano a percorrere sentieri già battuti. Questo fa spesso del narratore uno spettatore che invece di provocare situazioni ed eventi ne subisce gli effetti, una ‘presenza’ in scena che si limita ad osservare i fatti cercando di dar loro un senso per procedere a un’investigazione della memoria e giungere a una delucidazione che è destinata, nella quasi totalità dei casi, a restare tentativo, e a reiterare la condanna alla ripetizione. Già nella trilogia dell’occupazione, Modiano inserisce, come figure chiave di un grottesco teatro urbano, gli spettri ‘finzionalizzati’ del proprio passato: un padre di origine ebrea, misterioso e assente, che vive di traffici oscuri ed entra in contatto con i gestapistes francesi della rue Lauriston a Parigi e una madre starlette di cinema alla ricerca di brandelli di notorietà. Il tema dell’identità paterna occultata e l’ambigua posizione dei genitori nel corso del conflitto, sviluppati all’interno di una narrazione-inchiesta che alterna occultazione e svelamento, sono il cuore di tutta una rete di motivi secondari, quali il tradimento, l’assenza e il dualismo ideologico e morale, motivi questi che, nel loro insieme, vengono a convergere in Lacombe Lucien.[26]

Il titolo del film è asserzione di appartenenza alla tradizione del ritratto e del romanzo di formazione: la narrazione si concentra attorno al personaggio principale, vettore dell’azione e specchio riflettente la realtà circostante, e ne racconta l’esperienza di accesso alla – breve – vita adulta. È inoltre rimando esplicito alle modalità di scrittura di Patrick Modiano, come, in un certo senso, spiega il titolo italiano dato al film: Cognome e nome Lacombe Lucien. La pellicola si definisce tramite una dichiarazione d’identità declinata con ufficialità burocratica attraverso il cognome seguito dal nome proprio. Modiano moltiplica, nei suoi scritti, i dati anagrafici e topografici con un’attenzione al dettaglio e uno scrupolo di attinenza al dato oggettivo che potrebbe leggersi come scelta di scrittura iperrealista: descrive designando in maniera precisa e introduce costantemente nella narrazione indirizzi e numeri di telefono, targhe automobilistiche e cartelli stradali, documenti d’identità e nomi di vie. L’enumerazione reiterata, l’attenzione rivolta alla realtà nominale e la puntuale e precisa referenzialità non devono però trarre in inganno: se da un lato ancorano la narrazione a quelli che sembrano essere punti di riferimento riconoscibili, dall’altro moltiplicano i referenti fittizi – gli indirizzi sbagliati, i dettagli mancanti, i nomi propri su documenti falsi, gli angoli inventati, tutta una geografia dell’inganno e delle identità celate – e «aprono su prospettive sfuggenti, estranee, vertiginose, irreali».[27] Se lo scrittore ‘nomina’ lo fa perché ricerca «un’intima compenetrazione tra passato e presente», una «fitta circolazione di figure fantasmatiche che ripetono il loro destino in un tempo sospeso».[28] Modiano non accumula dati ma indizi per preservare l’esistenza di creature che vivono nel ricordo o nell’immaginazione, la propria, quella del narratore, quella del lettore. Nomina, per dar loro una legittimazione, gli spettri di un’esistenza che l’ha preceduto, ma sembra abitarlo. Dà forma ‘anagrafica’ alle ombre.

Louis Malle agisce con la medesima accortezza referenziale, per poi dare, a sua volta, corpo filmico a un passato spettrale. Intraprende una vera e propria investigazione geografica e documentaria nel Figeac, dove ha acquistato una residenza secondaria che verrà in parte utilizzata per le riprese, e procede a un’accurata ricostruzione filologica degli ambienti tramite l’introduzione di oggetti e di costumi d’epoca e l’utilizzo di documenti sonori del tempo. Durante le riprese, la manipolazione scenografica e luminista dello spazio – in particolare degli esterni – è ridotta al minimo e la prossimità al reale è alimentata dalla frequenza del piano sequenza e dalla scelta della presa diretta. L’impressione di realtà è accentuata dalla presenza fisica del protagonista, Pierre Blaise, giovane contadino alla prima esperienza cinematografica, che, nella totale assenza di una formazione attoriale, si limita a essere in scena e a ripetere le battute con un riconoscibile accento della zona.[29] Già dalle prime scene del film, Pierre/Lucien è inserito, come blocco fisico in movimento, all’interno di un contesto rurale aspro, rozzo, incolto, e verosimilmente mostrato attraverso sequenze poco dialogate centrate sulla ripetizione di un’attività ludica (la caccia), di un lavoro fisico (all’ospizio e nei campi) o della violenza legata alla guerra.

Al pari, però, delle modalità di scrittura di Modiano, le scelte di regia di Louis Malle fanno sì che la precisione documentaria, l’attinenza al vero storico e la prossimità al vero geografico, così come la veridicità fisica, non attoriale, del protagonista, non siano vettori di un «foto-realismo»[30] filmico destinato allo svelamento puntuale del reale e alla comprensione esaustiva dello spettatore, ma contribuiscano all’esasperazione dell’inquietudine e all’immissione del dubbio nella ricezione.

In Lacombe Lucien, l’identità assunta nel titolo con precisione ‘amministrativa’ viene negata in tutto il corso dell’azione filmica, poiché l’individualità psicologico-affettiva di Lucien, quella destinata a fare di lui una persona, non si manifesta mai in modo intelligibile, è offuscata dalle scarse parole che pronuncia e dai primi piani neutri che gli sono dedicati. Come se l’identità sostanziale fosse taciuta a vantaggio di quella nominale. Si tratta del paradosso di una pellicola che, in termini zavattiniani, segue il personaggio principale ‘dal buco della serratura’, coinvolge i sensi del fruitore, ma non gli permette di assumere intellettualmente ed emotivamente una visione mantenuta passiva e neutra, e finisce col provocare nello spettatore sensazioni contraddittorie di estraneità morale e d’inquietante implicazione nelle azioni rappresentate. Nonostante la scarsa frequenza dell’ocularizzazione interna, il regista riesce a imporre costantemente la presenza fisica di Lucien, facendone non una fonte di svelamento, ma un blocco ‘ottuso’ e ‘ottundente’ sul reale.

 

4. Lo sguardo ‘ottuso’

La pellicola si apre sul vuoto alienante di una corsia d’ospizio (alcuni letti con anziani sdraiati, due suore sedute), la cui connotazione funerea, implicita, a prescindere dalla contingenza storica, anticipa la fatalità mortuaria che scandirà la storia a venire. Due giovani entrano in scena e una panoramica segue lo spostamento del secondo da sinistra, Lucien. Da questo momento, la cinepresa resterà a ridosso del personaggio, pedinandolo e imponendo allo spettatore la condivisione dei suoi tempi d’azione, degli spazi che attraversa e dei personaggi che incrocia. Il movimento di macchina permette la focalizzazione di alcuni dettagli tra cui la fotografia del maresciallo Petain posta su di un comodino e accompagnata dal discorso che Philippe Henriot, segretario di stato a Vichy per l’informazione e la propaganda, sta facendo alla radio, mostrata in piano ravvicinato pochi istanti prima. Non si tratta, però, del punto di ascolto di Lucien: la voce di Henriot passa presto in secondo piano sonoro rispetto al cinguettio che si ode dalla finestra (in fuori campo) e che distrae il giovane, inducendolo a guardare fuori (soggettiva) e a colpirlo con una fionda. La soggettività è marcata sottilmente dal dosaggio sonoro. Lo sguardo del ragazzo, il suo gesto violento e il brusio della natura si sovrappongono alla parola radiofonica, quasi a volerla mettere a tacere, ed evocano, in tal modo, l’indole di un personaggio impermeabile al discorso ideologico così come ad ogni altra forma di concettualizzazione. Nulla spiega per quale ragione Lucien uccida – se per crudeltà infantile, per rabbia o per gioco – e in quest’assenza di motivazioni è anticipata la logica di una pellicola che affronta la problematica del male scavando in pulsioni ancestrali. Una scena costruita in modo simile a quella d’apertura vede Lucien partecipare, con altri miliziani, all’attacco di una postazione partigiana, per poi distrarsi all’apparizione di un coniglio e sparare all’animale senza riuscire a colpirlo. La cinepresa segue, ancora una volta, la ‘distrazione’ di Lucien che esercita la violenza in modo del tutto casuale, senza distinzioni tra uomo e natura e senza ragioni che non siano puramente istintive. Impermeabile al linguaggio come a un discorso sociale (maniere e senso civico), incolto e disinformato politicamente, il giovane agisce o reagisce agli eventi in modo maldestro o inatteso e, di conseguenza, spiazzante. Non utilizza la parola se non costretto e riassume la sua presenza scenica nell’esercizio congiunto dello sguardo e della forza fisica, in un contesto rurale di cui sembra incarnare l’asprezza e la chiusura. Lo spettatore è immesso, suo malgrado, all’interno di una zona oscura della conoscenza, dove prevalgono l’assenza di empatia e il silenzio.

I due casi citati sono tra le rare soggettive che Malle concede al suo personaggio, ciononostante, ad eccezione di due brevissime scene, lo inserisce sempre all’interno dell’inquadratura, anche come semplice figurante. Benché non introduca, quindi, un’esplicita focalizzazione interna, egli impone allo spettatore una prossimità inquietante con un personaggio inintelligibile che prende parte a eventi cruenti per effetto di un’agghiacciante casualità. A guidare le scelte di Lucien, e con esse il movimento narrativo, non è il fato, espressione di una necessità sconosciuta che guida il susseguirsi degli eventi, e nemmeno il destino, inteso in senso cristiano come intervento divino sulle sorti umane, sono i banali esiti di una serie di percorsi fisici. Due guasti meccanici – la ruota della bicicletta forata e l’arresto del motore – concorrono all’apertura dell’azione filmica e alla conclusione agreste; nei due casi, uno spostamento in atto subisce un brusco arresto e provoca una svolta narrativa. La concatenazione ‘casuale’ e non ‘causale’ della vicenda e l’ermetismo psicologico del personaggio attorno a cui l’azione filmica è costruita sono i principali vettori della sua ambiguità .

L’opacità cognitiva che caratterizza la visione di Lucien tocca inevitabilmente la visione del pubblico: se spettatore e personaggio condividono l’apprensione della realtà diegetica, il primo possiede un sapere critico (strumenti d’analisi e riferimenti storico-culturali legati ai fatti narrati) che il secondo ignora, e una sorta di ‘disproporzione’ nella conoscenza viene ad instaurarsi. Tale distanza disorienta, poiché spettatore e personaggio sono inseparabili nella progressione finzionale ma assolutamente estranei l’uno all’altro. L’estraneità è rinforzata dall’accesso negato a un’intimità non esclusivamente fisica.

Il corpo massiccio di Lucien è il centro gravitazionale delle inquadrature, ‘determina’ l’organizzazione del piano, il movimento scenico e lo sguardo sul fuori campo, ma non fornisce loro una ‘determinazione’ psicologica. Prevalgono, nelle scelte di campo, le figure intere e i primi piani, intesi però in un’accezione moderna che li svincola dal retaggio dello psicologismo tardo ottocentesco. Il volto non è espressione visiva di un’interiorità preclusa alla parola, ma la traccia di un’impressione sensibile e non razionale che rende difficoltoso ogni tentativo aprioristico di costruzione di senso. Non una geografia di sentimenti, emozioni e tratti caratteriali che un battito di ciglia può svelare, ma una cartografia del dubbio. Tale assenza partecipa tanto della lingua essenziale e oggettivante di Modiano, che indaga la superficie e il dato lasciando indovinare un’interiorità celata, quanto della messa in discussione delle convenzioni filmiche da parte del cinema della modernità. La scelta di un attore non professionista ricorda quella del ‘modello vergine’ nel cinema di Bresson:[31] Lucien ‘apprende’ e riflette la realtà in senso fisico, ma non la rielabora e non la esprime, è superficie che non si lascia indagare, schermo posto alla comprensione. È fatto filmico che agisce e reagisce perché immesso nello spazio e confrontato ad altri, secondo schemi non immediatamente comprensibili o condivisibili. È dialetto del posto e assenza di verbalizzazione del pensiero, è gesto pesante, movimento compulsivo e lenta traiettoria sullo schermo.

Negli sguardi insistiti che Lucien scambia con gli altri personaggi, resi attraverso la frequenza di lunghi primi piani in assenza di dialogo, leggiamo un rapporto di forze altalenante. Il giovane approfitta del potere che la contingenza storica gli permette di esercitare, e tenta, al contempo, di trovare consenso e familiarità presso gli Horn, cogliendo l’occasione di introdursi impunemente nel loro privato. Ragioni distinte possono indurre il giovane a stabilire un contatto privilegiato con France e il padre (la frustrazione sociale, l’occasione di colmare, con la forza, un divario di classe, di cultura e di ricchezza, l’ebbrezza del potere sulle sorti altrui, il desiderio sessuale verso la ragazza, l’attrazione che il sarto, come possibile padre sostitutivo, esercita su di lui) ma, di fatto, nessuna di queste è mai resa esplicita. Una lettura analitica del personaggio, deprivato socialmente e segnato dall’assenza paterna, è plausibile, ma accessoria: Lucien, fulcro della pellicola, resta un personaggio opaco, la sua interiorità un enigma. La frequenza di piani ravvicinati su di un volto respingente, il pedinamento di gesti e di azioni che si sottraggono alla comprensione e l’assenza di esplicazioni verbali compensatorie, modificano radicalmente la visione dello spettatore, interpellandolo specularmente, ma impedendo i movimenti psichici che producono la sua implicazione emozionale.

 

5. Barriere e corpi

I rapporti interpersonali nel film, che tanto devono all’intervento di Modiano nei pesanti ‘vuoti’ di sceneggiatura, sono fondati essenzialmente sul non detto e sull’ambiguità. I personaggi principali, benché incarnati da attori professionisti in grado di esprimere sentimenti ed emozioni attraverso la recitazione, sono caratterizzati dal medesimo ermetismo psicologico che connota Lucien. Presenze silenziose, compiono azioni che non trovano spiegazioni univoche e non manifestano mai la propria intimità sentimentale. La rappresentazione della famiglia ebraica degli Horn, costretta a celare la propria identità e a patteggiare con l’occupante, è inattesa e, per questo, destabilizzante: non c’è in Lacombe Lucien una partecipazione accorata alla condizione delle vittime, non una denuncia specifica dell’ingiustizia che conduce alla loro persecuzione, non una possibile intesa tra lo spettatore e il perseguitato. La presenza di Lucien a casa Horn provoca forme tacite di dissenso o di ostilità (l’insistenza e la ripetizione del gesto di chiusura della stanza di France da parte del padre, gli scambi verbali di circostanza, gli sguardi muti carichi di tensione), ma lascia intravedere aperture verso forme di complicità e di scambio che potrebbero essere ricondotte al tiepido nascere di un sentimento d’affetto, al tentativo di farne un alleato e un complice in grado di assicurare loro la salvezza o addirittura a una sorta di passività nei confronti dei persecutori (in questo senso si potrebbe leggere la scena in cui Albert Horn decide di denunciarsi). Le frequenti irruzioni di Lucien all’interno dell’appartamento, da una stanza all’altra o da un luogo all’altro, spesso introdotte da una doppia inquadratura che lo vede incorniciato da una finestra o da una porta, drammatizzano, da un lato, l’immediatezza istintiva di ogni suo gesto, e dall’altro esemplificano la facilità e la rapidità del passaggio da un campo all’altro, da una situazione all’altra. Rappresentano, in senso lato, la deriva contingente delle scelte etiche e la vanità delle ragioni che spingono l’individuo, in situazioni estreme, a passare da uno schieramento all’opposto. La fragilità della frontiera che separa il bene dal male è evocata da numerose inquadrature in profondità di campo dove la visione prospettica è realizzata attraverso una serie di barriere manovrate in scena dagli attori (le porte semichiuse, le finestre, il gesto reiterato di apertura e di chiusura) o scelte precise di costruzione spaziale (il bagno destinato alla tortura di fianco alla camera di Marie), che provocano una vicinanza contrastiva, specchio della connivenza inquieta con il nemico. È emblematica, in tal senso, la singolare simmetria tra la figura di Lucien, ermetico al mondo circostante, e quella della nonna, chiusa in un mutismo che è probabile espressione di disprezzo e di opposizione, ma che resta fondamentalmente inspiegato (simmetria resa esplicita dal solitario del giovane con le banconote, analogo al gioco di carte dell’anziana signora). Lungo il binario scenico su cui corrono distanza e prossimità, si muove la protagonista femminile, France, spesso ‘presente’ in ‘assenza’ visiva, nell’atto di suonare il piano dietro una porta chiusa. Quando entra in scena, la giovane sembra a sua volta subire passivamente la situazione esterna, fino ad accettare una relazione ambigua con il nemico. L’origine del suo avvicinarsi a Lucien, mai verbalizzata o esplicitata, permane oscura (potrebbe trattarsi di un’attrazione fisica o di un innamoramento che supera le barriere sociali, del tentativo di farne un alleato per fuggire la persecuzione o della sfida lanciata alla propria identità ebraica). Come a Lucien, a France sono dedicati numerosi primi piani, nessuno dei quali sembra esprimere sentimenti di amore, paura, complicità, disgusto, attrazione. Si tratta ancora una volta, di un volto liscio e di un corpo che esiste di per sé, a prescindere da un’interiorità mai palesata e da una collocazione sociale-religiosa attribuitagli dall’esterno (nella sequenza del ballo cui viene invitata da Lucien rinnega un giudaismo che le viene rinfacciato come un’infamia). Il parallelismo con Lucien è presente anche in una realtà ‘nominale’ che emerge per la sua incongrua specificità: il nome proprio della ragazza corrisponde a quello del paese che la perseguita come straniera ed estranea, al quale, di certo, ella non può riferirsi per affermare un’appartenenza identitaria.

La scena della notte d’amore tra Lucien e France, che ha luogo nella vasca da bagno utilizzata per le torture ai resistenti cui il giovane ha assistito senza intervenire, è esemplificativa di quella che abbiamo definito come prossimità contrastiva (tra luoghi, oggetti, personaggi e opposti schieramenti) e di una fisicità trionfante che provoca fastidio e ambiguità interpretativa. Sola la giovinezza anagrafica di France e Lucien sembra permettere il loro incontro fisico, malgrado il silenzio affettivo in cui entrambi sono chiusi e la distanza intellettuale che li separa.

Il corpo – diversamente sottoposto a un’azione filmica che ha la violenza come punto d’incontro (corpo denudato nelle scene erotiche e in quelle di tortura, inseguito e ucciso in analogia con le scene di caccia animale) – è dunque centro gravitazionale di forze e di direzioni nello spazio. Lucien è principalmente forza e giovinezza, è legato dalle prime inquadrature alla terra, alla natura e al mondo animale. Partecipa alla caccia come prende parte alle rappresaglie armate, per emulazione e per sete infantile di sangue e di sopraffazione. Risponde, allo stesso modo, a un istinto di protezione e alle meccaniche dell’attrazione.[32]

L’emergenza della corporeità a discapito di fattori psicologico-emozionali, radicalizza l’espressione filmica, eccede la ricostruzione storica, vanifica la denuncia ideologica diretta e la narrazione empatica. Offusca, in tal modo, la dimensione interpretativa, ma concede al fruitore la possibilità d’accesso a una dimensione allegorica.

 

6. La veste allegorica della provincia

La brutalità visiva che accompagna la presenza in scena di Lucien si estende agli altri personaggi e agli ambienti, agendo come “marcatura” di realtà e parallelamente come fonte di turbamento, come se la verità esteriore, la contestualizzazione arida e diretta dello spazio e degli esistenti, soppiantasse ogni forma di verità interiore. L’attendibilità documentaria della pellicola non le garantisce, infatti, quella credibilità narrativa che lo spettatore cerca essenzialmente in termini psicologici. Il trattamento realistico dello spazio in Lacombe Lucien, al pari della fisicità trionfante dei personaggi-attori, è volto a una scarnificazione emozionale e ideologica.

Tradizionalmente legata all’immagine della solidità della terra nel perenne ripetersi dei cicli naturali, la provincia francese non è rappresentata nel film come luogo di ordine e di stabilità, ma come spazio confuso di un’inutile attesa, segnato dall’incombere di un’ineluttabilità mortuaria. Se si esclude la pronuncia marcata del protagonista, la provincia di Lacombe Lucien non possiede nemmeno una caratterizzazione regionale forte, è il fantasma di una Francia rurale arcaica tendente alla soppressione dell’altro e alla paura dell’esterno, è luogo di crisi d’identità e di disgregazione di una comunità in preda alla disinformazione e alla propaganda radiofonica. L’occupazione tedesca e la guerra che volge al termine sono le varianti che fanno esplodere tensioni latenti ancorate nel tessuto sociale. Povera, inospitale, la provincia contadina è lo spazio in cui si cristallizzano mali arcaici, è il territorio di un antisemitismo viscerale, atavico (incarnato dalla serva Marie, che, tradita da Lucien, accusa France di essere ebrea) ed incorpora un orrore normalizzato, addomesticato nel quotidiano (M. Tonin, che mostra benevolenza paterna verso Lucien, si appresta fischiettando a torturare il maestro di scuola, la segretaria, Mlle Chauvelot, legge diligentemente lettere di delazione ogni mattina). È il palcoscenico su cui la vecchia nobiltà, simboleggiata dal medico, assiste passivamente all’esercizio esasperato della forza. È infine l’universo grottesco dell’hotel des grottes dove vittime e carnefici sopravvivono in uno stato di attesa, prigionieri gli uni e gli altri di un huit clos inquietante dove nessuna forma di liberazione potrà arrivare.[33] Nonostante l’aderenza della pellicola al dato reale, a una realtà geografica ben determinata, lo spazio di Lacombe Lucien è, dunque, il luogo simbolico della prigionia e dell’attesa, come si evince dagli interni soffocanti e claustrofobici, dalle porte chiuse di casa Horn, dove i tendaggi spessi lasciano entrare una luce di fascio e il suono ossessivo del piano di France scandisce un tempo uguale a se stesso. Il regista evoca l’esasperazione irrazionale delle tensioni interpersonali e razziali in uno stato di sospensione e di stagnazione.

Eppure, gli esterni sono filmati nel pieno della vitalità estiva, fotografati da Tonino Delli Colli nella luce accecante del mese di giugno e nei toni crepuscolari dell’imbrunire nelle campagne. L’apparente dicotomia tra una natura rigogliosa, un mondo animale in movimento, brulicante di vita e di suoni propri (il cinguettio dell’uccellino, il canto dei grilli) e lo spazio umano cruento, statico e semi-deserto, sopraffatto dal calore estivo e da una guerra di cui si hanno rare avvisaglie (le strade vuote a parte qualche raro convoglio, la coda per gli acquisti alimentari, i gruppi di deportati verso la conclusione) è negata dalla percezione di una morte incombente, sempre associata alla presenza di Lucien, artefice o spettatore di una violenza distruttrice (l’uccellino ucciso, il cadavere del cavallo, la strage di conigli). Se gli interni, stagnanti, chiusi, portano in sé il marchio della dissoluzione, gli esterni sono legati tra loro dal comune denominatore della crudeltà umana che agisce nell’indifferenza del creato. L’immagine limpida, semi-documentaria, del mondo naturale, da un lato sembra mantenere una significazione primaria insita nella sua stessa materialità, dall’altro pare accogliere un presagio mortuario che ha il suo apice nella sequenza conclusiva.

Il sentore di morte prende forma, il gioco di sguardi e la problematica del punto di vista nella pellicola si fanno più complessi. La portata allegorica del film si fa evidente e rimanda, per opposizione, nell’oblio della realtà storica in cui s’immergono i protagonisti, all’esergo voluto da regista e sceneggiatore.

 

7. L’irrealtà di un altrove bucolico

Le riprese semi-documentarie in esterni, conducono a un finale paradossalmente irrealistico, che risponde alle medesime scelte di regia (luci naturali entro spazi non modificati filmati in presa diretta) ma è girato in un eden bucolico privo di coordinate geografiche che sembra ridefinire la situazione dei personaggi principali, immettendoli in uno spazio-tempo dell’immobilità, slegato dalla contingenza storica. Ricrea “dal vero” un’atmosfera impalpabile, onirica, senza alcuna pretesa di verosimiglianza.

Non a caso, l’altrove che chiude il film è introdotto da una delle sequenze più controverse della pellicola, quella dell’arresto di France e della nonna da parte di Lucien, che si converte repentinamente nell’aiuto offerto alle due donne nella fuga. Rappresentativa dell’ambiguità costitutiva della pellicola, la sequenza pre-conclusiva vede il protagonista confrontato a una scelta essenziale costruita, ancora una volta, sul silenzio degli sguardi insistiti e su di un’azione rapida, apparentemente irriflessa, che precipita l’azione e dà una svolta narrativa. La prima parte della sequenza, giocata sul ritardo dell’entrata in scena di Lucien, ha un apice di tensione nel momento in cui France scopre l’implicazione dell’amante nel proprio arresto ed è sintetizzata nel lungo, pesante, sguardo che la ragazza rivolge al fuori campo dove lo spettatore colloca il giovane. L’impassibilità dei volti esaspera l’attesa e rende ancor più enigmatico il rapido capovolgersi della situazione. I piani ravvicinati sull’orologio regalato da Lucien ad Albert Horn (che passa dalla valigia di France alle mani del ragazzo e infine all’ufficiale tedesco che dirige l’operazione) sembrano individuare nel possesso dell’oggetto la ragione che spinge il protagonista all’uccisione del proprio superiore, realizzata compulsivamente e di contro ad ogni attesa (la discesa di Lucien sulle scale, i colpi di mitraglia, il recupero dell’orologio). La rapida risalita, il braccio di France afferrato per portarla con sé e l’aiuto offerto alla nonna nella discesa – sempre in assenza di verbalizzazione e nella velocizzazione dei movimenti scenici – inducono a congetture opposte, a presumere un desiderio di protezione delle due donne da parte di Lucien. Lo scarto tra la conoscenza completa dei fatti rappresentati e l’ignoranza delle ragioni che governano l’agire di Lucien accresce la frustrazione dello spettatore e avalla l’impossibilità ideologica della pellicola, introducendo l’inquietante sequenza conclusiva che è somma ed epilogo del “disturbante” rappresentato da Lacombe Lucien.

Malle non mette in scena l’immoralità, ma l’amoralità istintiva di Lucien, la tendenza alla crudeltà fisica in assenza di coscienza critica ed etica.[34] A questo corrisponde la robinsonnade[35] finale, che vede il ragazzo, France e la nonna rifugiarsi in una fattoria abbandonata risparmiata dalla guerra, per ricostituire un anomalo nucleo familiare in un ritrovato stato di natura, nella vittoria della spontaneità animale sull'etica, sulla ragione e sul sentimento. L’introduzione musicale di un brano mistico di flauto del Bengala, registrato da Malle durante le riprese di L’inde fantome, fa da corollario sonoro al rigoglio estivo di una pacifica campagna che risulta innaturale in una situazione di guerra e contribuisce ad alimentare una sensazione di tempo sospeso in uno spazio favoloso. Sembra esprimere la regressione a uno stato d’innocenza primigenia, in contrasto con la storia narrata e con l’ambientazione del film, fino a prospettare aperture inattese sugli eventi (un lieto fine amoroso e la ricomposizione di una famiglia) smentite, però, dall’introduzione di due inserti altamente enigmatici e dalla brusca, inattesa, conclusione. Lucien è pericoloso poiché cieco e imperscrutabile. La sua vicenda porta in sé il marchio dell’irresoluto e del bivalente, e non può concedersi una chiusa sentimentale, come se il male non lasciasse traccia e fosse sufficiente allontanarsi dal consorzio umano per convertire positivamente l’energia individuale.

L’irrealtà bucolica si tinge di mistero nel corso di due scene girate da punti di vista visivi e cognitivi opposti, destinate a creare una sempre maggiore inquietudine attraverso l’alternanza di sguardi che i due personaggi principali posano l’uno sull’altro. Un’inquadratura oggettiva mostra France nell’atto di brandire una pietra sopra il capo di Lucien, ignaro del gesto accennato alle sue spalle. Lo spettatore, per la prima volta, non è al fianco del protagonista nell’apprendere la realtà e attende un gesto violento che non avrà luogo. In seguito, viene mostrato il giovane che sorveglia la ragazza, seduto in silenzio in cima a un albero, mentre lei, che non sa di essere osservata, è ripresa presso il torrente, in primo piano nella linea prospettica disegnata dall’inquadratura. Il sapere spettatoriale è maggiore rispetto a quello dei personaggi, ma viene frustrato: entrambe le scene non portano a nulla di concreto, non determinano svolte, aprono solo prospettive che si perdono nel nulla, definiscono inquietanti possibilità che non hanno seguito. Espressione cinematografica della parte buia, funerea, dei due giovani, tali scene rappresentano il corrispettivo negativo della serenità bucolica che sembra chiudere il film. Appartengono al non detto e al non compiuto, ai nodi misteriosi che legano il desiderio amoroso alla pulsione violenta, che apparentano il carnefice alla vittima. Forniscono allo spettatore un assaggio di conoscenza che non lo porterà a nessuna conclusione e non farà che alimentare la sua compulsione interpretativa.

Questa sequenza è una delle maggiori espressioni di quel che Deleuze definisce, a proposito del cinema di Malle, come un trattamento favolistico, o fiabesco, del reale[36] (lo studioso usa il termine féerie, riferito alla fiaba) ovvero la propensione ad abbandonare per istanti i cardini rassicuranti di una narrazione realistica – o perlomeno verosimile – per ascrivere il destino delle sue creature a un movimento naturale che le trascende. Si tratta della possibilità che il regista si concede di raggiungere in modo imprevedibile, più lirico e istintivo che non esplicativo o psicologizzante, le zone più intime dei personaggi, nel loro rapporto con gli altri, con se stessi e con lo spazio che li circonda. Il movimento naturale che fagocita i personaggi può condurre all’inatteso, all’orrore come alla fiaba. In questo caso subisce un brusco, imprevedibile, arresto. Le didascalie finali riportano la notizia dell’esecuzione di Lucien da parte delle forze partigiane e liquidano bruscamente, in poche righe scritte, il destino di colui che ha abitato e forgiato la narrazione.

La féerie finale e la brutale irruzione della realtà tramite la parola, pongono un termine inatteso alla concatenazione enigmatica della vicenda ed esprimono la sostanziale impossibilità di ricondurre l’azione individuale a scelte volontarie e a logiche razionali (etiche, ideali, politiche). Ribadiscono, inoltre, la difficoltà nel rendere intelligibile il linguaggio interiore, la vittoria dei silenzi e degli iati narrativi, riconducendo la pellicola alla poetica delle ombre di Patrick Modiano.

In Lacombe Lucien la bellezza emerge per poi essere cancellata. L’amore e la tortura si alternano in una vasca da bagno e la natura nel suo fulgore estivo è toccata dalla morte. L’eroismo è sconfitto nel corpo martirizzato del resistente che chiede inutilmente aiuto a Lucien, la fede ideologica non sopravvive ai bisogni contingenti. Resta solo l’appello alla memoria, che forse è solo necessità individuale d’introiezione e di trasfigurazione del passato.

 


1 L. Malle, Louis Malle par Louis Malle, Paris, éditions de L’Athanor, 1979.

2 La place de l’étoile (1968), La ronde de nuit (69), Les boulevards de ceinture (72).

4 Ibidem.

5 L’accoglienza del film è importante e globalmente favorevole (più di trecento contributi, tra articoli e trasmissioni radiofoniche e televisive) ma induce a reazioni discordanti basate su convinzioni aprioristiche che lo spogliano della sua veste allegorica, facendone un oggetto di controversa ideologica (addirittura all’interno di un’unica testata: Le Monde, inizialmente positivo nei confronti del film, ne sostiene a distanza di pochi giorni la ‘pericolosità’ etica e politica).

6 J. Siclier, La France de Pétain et son cinéma , Paris, Ramsay, 1990, p. XVI.

7 In P. French, Conversations avec Louis Malle, trad. fr. di M. Leroy-Battistelli, Paris, Denoël, 1993.

8 Ibidem.

9 J. Delmas in Jeune Cinéma di marzo del ’74, definisce il personaggio di Lucien «salaud» e «pauvre type» e denuncia la simpatia degli autori nei suoi confronti.

10 «Rudy, Albert, Patrick, une starlette qui travaille pour la Continental: Lacombe Lucien a beau être avant tout une oeuvre de Louis Malle, la famille Modiano s’y trouve au complet! Et l’écrivain reconnaît que ce qui lui tenait à coeur dans cette histoire, c’est ''cette espèce de chaos de l’Occupation'' qui fit se rencontrer des gens qui n’auraient jamais dû se croiser: un jeune paysan du Sud-Ouest et des juifs réfugiés comme ici, mais aussi son père et sa mère» (D. Cosnard, Dans la peau de Patrick Modiano, Paris, Fayard, 2011).

11 Nel ’61, Louis Malle pensa di adattare al cinema il romanzo La Grotte di George Buis, militare e scrittore francese nato a Saigon; l’anno successivo, incaricato di un reportage con Volker Schlondorff in Algeria, passa un paio di giorni al commando V13, dove ha modo di conoscere personalmente il responsabile della tortura, un giovane timido che scrive quotidianamente lettere alla fidanzata. Inizia allora la riflessione del regista sull’assenza di coinvolgimento emozionale del singolo nel perpetrare la tortura in situazioni di guerra, riflessione che proseguirà in relazione alla strage di My Lai (1969), un villaggio vietnamita dove un giovane marine, massacra quasi seicento civili, per lo più bambini, e, solo dopo essere stato decorato come eroe, è accusato di crimini di guerra.

12 Il testo, edito nel 1963, apre una pagina decisiva sul tema della responsabilità dell’individuo comune in un sistema d’orrore normalizzato ed è l’occasione di un acceso dibattito mediatico sulla natura stessa del male. Il saggio riprende i resoconti del processo ad Adolf Eichmann, gerarca nazista catturato nel 1960 e condannato a morte il 15 dicembre 1961 dal tribunale di Gerusalemme. L’atteggiamento di difesa dello stesso Eichman, che afferma più di una volta nel corso del processo di essersi occupato esclusivamente di trasporti e si mostra profondamente convinto di aver semplicemente fatto il proprio lavoro e di star pagando per le colpe degli altri, permette alla Arendt di approfondire i precedenti studi sui totalitarismi e di sviluppare la teoria secondo cui il male non sarebbe mai 'radicale', poiché non possiede né profondità né una dimensione demoniaca, non è ‘radicato’ in mostruosi impulsi o in sadiche tentazioni, rientra in un’agghiacciante normalità.

13 Il 10 giugno del 1971, uno squadrone della morte, quello degli Halcones (Falconi) compie la strage detta del ‘giovedì di Corpus Domini’, in cui trovano la morte decine di giovani universitari. A ridosso degli eventi, Malle scrive il soggetto di Le Faucon.

14 «Lacombe Lucien est peut-etre le seul de mes films où j’ai adopté un peu une approche marxiste. Vous savez, la réflexion de Marx concernant les membres du lumpenprolétariat qui collaborent avec les forces de la répression parce qu’ils n’ont aucun bagage politique... [...] Lucien Lacombe fait partie de cette sous-classe qui finit par trouver une revanche sociale et des satiffactions de toute sorte en collaborant avec les Allemands et la Gestapo», in P. French, Conversations avec Louis Malle, p. 122.

15 Tra le tante testimonianze riportate da Malle: la vicenda del fratello del comandante Cousteau, che, a differenza di quest’ultimo, si schiera con i collaborazionisti e l’aneddoto raccontato da Melville, il quale, in un tragitto in treno convince uno sconosciuto partito ad arruolarsi come ausiliario della Gestapo ad entrare nella resistenza (L. Malle, P. Modiano, Lacombe Lucien texte intégral, Folio plus, Paris, Gallimard, 2008, dossier pp. 144-145).

16 L’episodio rammenta un traumatismo d’infanzia vissuto realmente dal regista, che sarà all’origine del film Aurevoir les enfants (1987).

17 L’Armée des ombres (1969) è l’ultimo film ad associare la lotta dei resistenti alle direttive del governo di Londra ma gli eroi del film esprimono già contraddizioni interne. Vedi J.F. Dominé, ‘Les représentations successives de la Résistance dans le cinéma français’, Revue historique des armées, 252, 2008, http://rha.revues.org/3173 [accessed 10 gennaio 2016].

18 «En même temps qu'elle purge les écrans de l'idéologie vichyssoise, la censure de la Libération révise l'Histoire, renouant avec les pratiques anciennes de la damnatio memoriae, ses traîtres débaptisés, ses criminels privés de nom, ses vaincus rayés des mémoires. […] Le cinéma institutionnel cicatrise les blessures narcissiques de la nation. Il réinscrit la Seconde Guerre mondiale dans la grande tradition d'une France victorieuse sur l'ennemi d'Outre-Rhin. Il érode les singularités du conflit et tente d'effacer des mémoires le régime de Vichy». In S. Lindeperg, Les Ecrans de l'ombre, la Seconde Guerre mondiale dans le cinéma français, Paris, Editions du CNRS, 1997.

19 Louis Malle precisa: «J’hésitais à m’attaquer à cette période, parce que le cinéma français s’y était déjà intéressé à plusieurs reprises. Mais dès l’instant où j’ai commencé mes recherches, je me suis aperçu que cet aspect-là n’avait jamais vraiment été abordé, sauf dans Le Chagrin et la Pitié de Marcel Ophuls qui venait de sortir», in P. French, Conversation avec Louis Malle, p. 116.

20 «1974.Trois ans après le Chagrin , la France est de nouveau “occupée”: des films, des livres, des disques, des reportages et des croix gammées à la une des journaux. C’est le temps d’une mode dite “rétro” [.....] Elle est une rencontre datée entre des auteurs, cinéastes ou écrivains, et un public, entre une offre et une demande potentielles: les conditions idéales d’un marché. Les signes avant-coureurs n‘avaient pas manqué dans lesannées précédentes. Patrick Modiano, un des écrivains phares de ce courant, a publié La Place de l ́Etoile (chez Gallimard) en 1968». H. Rousso, Le syndrome de Vichy de 1944 à nos jours, Paris, Seuil, 1990, p. 149. Rousso analizza la moda rétro come manifestazione della terza fase della ‘sindrome’, quella che definisce come «miroir brisé», espressione del «retour du refoulé».

21 Tra i romanzi: P. Jardin, La Guerre à neuf La guerre à 9 ans (1971), M. Chaix, Les Lauriers du Lac de Constance (1974), Jean-Luc Maxence, L ́Ombre d ́un père (1978), che assumono la difficile eredità della collaborazione, e, in relazione alle vittime, il libro di Joseph Joffo, Un sac de billes (1973). Analizzata al cinema in: G. Austin, Contemporary French Cinema: An Introduction, Manchester, Manchester University Press, 1996, pp. 28-32; S. Lindeperg, p. 34; Histoire et temps présent France. Comité d’histoire de la Deuxième Guerre mondiale, Centre national de la recherche scientifique (France), 1981; P. Maillot, Le cinéma français: de Renoir à Godard, Paris, Solar, 1988, p. 144; M. Jacquet, Travelling sur les années noires. L’Occupation vue par le cinéma français depuis 1945, Paris, Alvik, 2004.

22 Non a caso, la cosiddetta «moda rétro» sarà sancita dall’uscita contemporanea di Lacombe Lucien e de Il portiere di notte di Liliana Cavani, somma psicanalitica sul rapporto carnefice-vittima. Film oscuro e a tratti morboso sulle pulsioni e sulle ossessioni, sulla ripetizione e sull’ambiguità dell’attrazione e della sessualità, Il portiere di notte narra l’incontro, a tredici anni dalla fine della seconda guerra mondiale, di una sopravvissuta al campo di concentramento e del suo aguzzino, che sotto falsa identità lavora come portiere di notte in un albergo di Vienna.

23 Nel ’72, dopo aver letto Pompes funebres, Malle si rivolge, senza successo, a Jean Genet, e in seguito contatta, sempre infruttuosamente, Pascal Jardin, di cui è appena uscito La guerre à 9 ans, e solo nel ‘73 invia il soggetto a Patrick Modiano.

24 «France : Tu ne me présentes pas ? / Horn (gêné, à Lucien) : Ma fille. / Lucien : Comment elle s’appelle ? / Horn : France... / Lucien : Lacombe Lucien...», in L. Malle, P. Modiano, Lacombe Lucien, texte intégral, p. 57.

25 «Those who cannot remember the past are condemned to repeat it». G. Santayana, The Life of Reason, Vol. I, Reason in Common Sense (1905-1906) <http://www.gutenberg.org/files/15000/15000-h/vol1.html>. Si tratta della ripresa del concetto già espresso da Karl Marx nel Manifesto del partito comunista nel 1847 in relazione alla circolarità della storia che chi non conosce è condannato a rivivere, concetto a sua volta ripreso con varianti da Primo Levi.

26 Lucien vive di pesanti assenze che ne fanno un ‘colpevole – inconsapevole’ attore della storia. Vive con la madre, amante del padrone della fattoria, mentre il padre è assente, prigioniero dei tedeschi. È ‘Deprivato’ della figura paterna, della possibilità di riscatto data dalla partecipazione alla resistenza partigiana, della coscienza politica ed etica che solo una formazione culturale gli potrebbe fornire.

27 M. Bertini, Tra oblio e memoria, la Parigi segreta di Patrick Modiano, p. 8.

28 Ivi, p. 7.

29 Quella di Lacombe Lucien resterà la sua unica esperienza cinematografica.

30 Con il termine «foto-realismo» s’indica un movimento pittorico che nasce negli anni Settanta, e si diffonde in Europa nel decennio successivo, ed è all’origine dell’iperrealismo contemporaneo. Derivato della pop art, si contraddistingue per la maniacalità nella riproduzione dei dettagli e per lo straordinario effetto di fedeltà nei confronti della realtà (tra i pittori più famosi, ricordiamo gli americani Chuck Close, Richard Estes, Ralph Goings).

31 Si tratta della scelta di portare in scena un volto e un corpo non connotati, privi di un passato filmico e liberi da precedenti incarnazioni, capaci non di esprimere emozioni, sentimenti, stati d’animo, ma di creare una rete di direzioni nello spazio e un susseguirsi di gesti nel tempo, un incrocio di realtà fisiche, fattuali.

32 In una video-intervista il regista racconta: «le personnage principal, qui s’appelle Lucien Lacombe, c’est un garçon très jeune, qui a 17 ans, et qui a en lui cette violence, cette révolte, cette brutalité, cette envie d’exploser d’un adolescent ...qui a pied dans l'age adulte, mais qui se conduit comme un enfant, et souvent d'une façon cruelle, comme un enfant, c'est un aspect très important du personnage...». Ribadisce, poi: «c’est un personnage qui est vraiment regardé, qui n’est pas expliqué dans le film, ni jugé… c’est un personnage très opaque … qui a des zones d’ombre et des zones de lumières» < http://www.ina.fr/video/I04321481 > [accessed 15 gennaio 2016].

33 L’evocazione del mondo grottesco del collaborazionismo è principalmente frutto del lavoro di scrittura di Modiano che trasfigura in senso espressionista l’universo dell’Hotel des Grottes, dove un ispettore di polizia revocato dal suo mandato, un ciclista fallito, un nobile truffatore ricercato e una starlette senza gloria sembrano attendere, senza saperlo, la fine vicina e brindare ad una condanna a morte a venire.

34 «Comme presque toujours je n’ai pas voulu porter de jugement. Je n’ai pas voulu simplifier, je n’ai pas voulu faire seulement le portrait d’un traître» (P. French, Conversation avec Louis Malle, p. 122). «J’évitais, dira-t-il encore, de porter un jugement sur Lucien, je préférais monter le comportement d’un personnage avec toutes ses contradictions et même d’une certaine manière tenter de le comprendre. C’était plus intéressant, plus utile, que de le jeter sans appel dans les bas-fossés de l’Histoire» (in L. Malle, Louis Malle par Louis Malle, Paris, éd. de l’Athanor, 1979, p. 49).

35 La critica Jacqueline Nacache definisce in tal modo la sequenza conclusiva nel saggio che dedica alla pellicola. Si veda J. Nacache, Lacombe Lucien, Paris, Atlande, 2008, p. 141.

36 «Dans la plupart de ses films, Louis Malle a procédé plus ou moins évidemment par mouvement du monde, d’où la féerie de cette œuvre [...]. Chez Malle, c’est toujours un mouvement du monde qui porte le personnage jusqu’à l’inceste, à la prostitution ou à l’infamie [...]. Dans l’ensemble du cinéma féerique, ces mouvements mondialisés, dépersonnalisés, pronominalisés, avec leur ralenti ou leur précipitation, avec leurs inversions, passent aussi bien par la Nature que par l’artif». G. Deleuze, Cinéma 2, L’Image-temps, Collection «Critique», Paris, Les éditions de minuit, 1985, pp. 81- 82.