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Magistrale opera a due mani realizzata nel 1974 da Louis Malle e Patrick Modiano, Lacombe Lucien, è sunto della poetica di memoria e ombra del romanziere e manifestazione esemplare di una modernità cinematografica che si rapporta in modo inatteso e perturbante alla storia recente. Anti declamatorio e non argomentativo, costruito sulle azioni puramente istintive di un personaggio che blocca ogni possibile forma di empatia, il film si offre al pubblico in tutta la sua accecante immediatezza visiva e narrativa, ma oppone una sorta di schermatura all’implicazione razionale e sentimentale. Non esiste, però, barriera che non spinga al proprio superamento: l’opacità costitutiva di Lacombe Lucien chiama in causa lo spettatore e il critico. La resistenza che il film oppone alla comprensione è all’origine della nostra indagine: dalla questione della paternità dell’opera al dibattito ideologico sulla moda rétro, l’articolo studia la corrispondenza tra due forme distinte di ‘messa in scena’ dell’opacità e s’interroga sull’ambiguità insita nel recupero testimoniale attraverso il mezzo filmico, per giungere, infine, ad affrontare la questione decisiva dello sguardo cinematografico sull’orrore della storia e sulla responsabilità individuale.

A masterpiece co-created by Louis Malle and Patrick Modiano in 1974, Lacombe Lucien summarizes the novelist’s poetics of memory and shadow, and is an exemplary manifestation of the ways in which cinematic modernity relates to recent history in unexpected and disturbing ways. Avoiding declamatory and argumentative stances, the film is centred on the purely instinctive actions of a character who blocks any possible form of empathy. As such, it offers the public a visual and narrative construct that is blindingly immediate yet also raises a barrier against rational and emotional involvement. However, since all barriers arguably seek to be overcome, the constitutive opacity of Lacombe Lucien challenges spectator and critic alike. The resistance the film opposes to its own understanding constitutes the basis of this essay. Exploring issues from the question of authorship to the ideological debate on retro fashion, it examines the correspondence between two distinct forms of ‘staging’ of opacity, and interrogates the ambiguity inherent in acts of testimonial recovery through film in order to consider the decisive question of the relationship between the cinematic gaze, the horror of history, and individual responsibility.

Belle fonction à assurer, celle d’inquiéteur.

André Gide

 

Frutto della collaborazione tra il romanziere Patrick Modiano e il regista Louis Malle, Lacombe Lucien esce nel 1974, al termine di una complessa fase di gestazione che ha inizio più di dieci anni prima e che giunge a compimento solo con l’intervento tardivo dello scrittore. Nasce da tale incontro una magistrale opera a due mani, che è al contempo sunto della poetica di memoria e ombra del primo Modiano e manifestazione esemplare di una modernità cinematografica che si rapporta in modo inatteso e perturbante alla storia recente.

Ambientato nella provincia agricola del sud-ovest della Francia nell’estate del 1944, il film, che porta il nome del protagonista, mette in scena la collaborazione con la Gestapo di un contadino diciassettenne privo di consapevolezza politica e l’ambiguo rapporto che il giovane instaura con la famiglia di un sarto ebreo nascosta nel paese. Se il personaggio principale, la storia narrata e il contesto storico rappresentato fanno appello, nel loro insieme, all’adozione di un ‘punto di vista’ ideologico, sembrano, cioè, domandare al regista e allo sceneggiatore di relazionarsi in modo chiaro al passato recente, il film, nella sua forma compiuta, non risponde a tali richieste, o perlomeno non nel modo atteso. Non assertivo, né argomentativo, Lacombe Lucien svela brutalmente frammenti di una realtà storica scomoda e difficile da assumere, quale la partecipazione ‘dal basso’ alle azioni repressive dell’occupante, ma evita la formulazione esplicita di un giudizio etico e politico sui fatti narrati. Si discosta, dunque, dalla retorica verbosa delle forme più convenzionali di un cinema di denuncia – rassicuranti poiché invitano a un mutuo riconoscersi nell’indignazione e nella rivolta – e resta un’opera oscura, a tratti irritante. La pellicola recupera il passato con dovizia documentaria, eppure tace l’essenziale. Blocca il fremito emozionale dei volti, riduce la parola e la sottomette ai fatti, non esplicita la ragione delle cose e la realtà psicologica che la sottende, non motiva gli atti individuali e le vicende collettive. Nessuna fede ideologica guida i protagonisti, vittime consenzienti o istintivi carnefici di una fatalità storica incarnata in una gomma bucata o in un orologio rubato.

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