Lighting Light(s) #3 – Conversazione con Saburo Teshigawara e Rihoko Sato*

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Il terzo appuntamento di questa rubrica invoca ormai come rituale l’espressione della mia gratitudine alla redazione di Arabeschi, per avere accolto con entusiasmo la proposta, di Lighting Light(s) (immaginata nel 2013 e avviata lo scorso anno): una serie di interventi che dessero voce ad artisti ‘della luce’, nello specifico creatori di luci per la scena, ma con possibili sconfinamenti nelle arti vicine. Sono passati parecchi anni ma forse non è un caso che il progetto abbia avviato il suo corso recentemente. Negli ultimi tempi infatti l’interesse per la luce in scena, territorio pressoché misconosciuto dagli studi teatrali, sta acquisendo un suo spazio. Uno spazio che ‘risuona’ di voci e prospettive differenti, e che ci sembra segnato proprio da una vicinanza e un dialogo particolari tra studiosi e professionisti della luce, tra riflessioni teoriche, indagini storiche e pratiche artistiche (cosa che succede anche in altri ambiti – evidentemente un segno del tempo). Se questo dialogo si è ormai affermato anche per gli altri ‘linguaggi’ delle arti performative, com’è ovvio in un panorama di studi mutato rispetto a qualche decennio fa, nel caso della luce il desiderio di un confronto sembra farsi più urgente. Forse per la complessità della materia dal punto di vista tecnico e tecnologico, forse per la mancanza di un panorama di studi di riferimento consolidato come per altri coefficienti scenici. Ogni conversazione – che ci piace pensare come una ‘passeggiata’, evocando dei pensieri in movimento e la condivisione fisica di uno spazio di confronto – tenderà ad evidenziare temi e motivi propri dell’interlocutore/interlocutrice. Tuttavia si cercherà anche di ritornare sulle medesime tematiche al fine di dare forma ad un prisma, man mano che si procede nel cammino e ci si addentra nei diversi paesaggi, che rischiari di luce diversa questioni centrali nelle pratiche dell’illuminazione. In tal senso materia, colore, buio, spazio, architettura, percezione, relazione con le altre arti saranno delle coordinate ricorrenti.

The third Lighting Light(s) conversation invokes as a ritual the expression of my gratitude to the editorial staff of Arabeschi, which many years ago enthusiastically welcomed the proposal, conceived in 2013 and concretized last year in these ‘dialogues’, to host a series of conversations aiming to give voice to ‘light’ artists, specifically light designers for the stage, but with possible incursions into the nearby arts. Several years have passed since the proposal, but perhaps it is not by chance that the project is starting its course right now. In recent times, in fact, the interest in lighting on stage, a territory almost unknown to theatrical studies, is acquiring its own space. A space that echoes different voices and perspectives, that seems to be marked by a particular affinity and dialogue between scholars and lighting professionals, between theoretical reflections, historical investigations and artistic practices (something that also happens in other fields – a sign of the time). This dialogue has now also established for other ‘languages’ in the Performing Arts, on a backdrop of studies that has changed since a few decades ago, in the case of light the need for comparison seems to become more pressing. Maybe because of the complexity of the subject from a technical and technological point of view; maybe because of the lack of a consolidated panorama of reference studies (as it is for other languages of the performance). Each conversation – which we like to think of as a ‘walk’, evoking thoughts in motion and the physical sharing of a space of exchange – will attempt to highlight topics and subjects that are specific to the artist interviewed. However, we will also try to revisit the same themes in order to give shape to a prism, proceeding along the path and exploring the different landscapes, that will illuminate different central issues in lighting practices. In this sense matter, colour, darkness, space, architecture, perception, relationship with other arts will be recurring references.

Karas Eclipse, 2011 ©Marco Caselli Nirmal

Nel novembre del 2013, all’indomani dell’allestimento di Darkness is Hiding Black Horses all’Opéra-Palais Garnier, in un rumorosissimo bar parigino incontravo Saburo Teshigawara e Rihoko Sato.

Conoscevo alcuni lavori del coreografo e della compagnia Karas, e insieme a colleghi e colleghe del corso DAMS di Padova avevamo individuato nel suo lavoro una possibile tappa di un progetto pluriennale e interdisciplinare.[1] E difatti Teshigawara, che inizia il suo percorso artistico come artista visivo, si confronta via via con una molteplicità di linguaggi e generi: dalla danza alle installazioni, dal cinema al teatro d’Opera, oltre a portare avanti una importantissima attività pedagogica; ha fondato a Tokyo Karas Apparatus,[2] centro di creazione artistica e trasmissione.

Non sorprende che nelle sue opere per la scena rifluiscano pratiche e linguaggi diversi: ne cura costumi, scenografie, luci, scelte musicali.[3] La luce, senza dubbio insieme al gesto motivo portante del suo processo creativo, costituisce spesso anche la zona osmotica tra i vari linguaggi; pensiamo alla scena di Kazahana (2004, Fiore nel vento grossomodo la traduzione): una struttura di elementi verticali che diventa una sorta di sipario di luce[4] simile ad una installazione.

Teshigawara enumerando i suoi interessi fa riferimento anche alle peculiarità dei singoli linguaggi. Al ‘restare’ della scultura (cita Rodin) compara l’inarrestabile movimento del corpo vivente. Nel suo lavoro coreografico in più occasioni la velocità con la quale si susseguono i movimenti ci è apparsa come sfarfallio dell’immagine nella luce, nell’impossibilità per il nostro sguardo di fermarla.

La conversazione del 2013 era mirata alla preparazione di Sculture d’aria, giornata di studi tenuta a Padova in occasione della presentazione al Teatro Comunale di Ferrara di Landscape, creato con Francesco Tristano al pianoforte.[5] Alcuni momenti di quel dialogo sono rifluiti nel presente Lighting Light(s), tessuti insieme allo scambio degli ultimi mesi.

Come ci si è proposti nell’avvio di queste conversazioni, gli artisti sono invitati a tornare su alcuni dei motivi che costituiscono una griglia comune (per esempio il buio, la materia della luce, l’illusione della luce, il confronto tra linguaggi diversi).

Sculture d’aria alludeva ad una definizione della danza da parte del coreografo:[6] espressione che evoca uno dei concetti chiave del suo lavoro: il motivo del fluire delle sostanze, del passaggio di stato dei corpi e delle immagini. Non a caso materia prediletta dall’artista sono la luce e l’ombra, ma anche la polvere, il fumo, il vetro, lo specchio. Solo a scorrere i titoli delle sue creazioni,[7] sbalzano lemmi come luce, ombra, buio, nero…; il nome scelto per la sua compagnia, Karas, significa ‘corvi’.

Impossibile dare conto anche solo di una parte esemplificativa, tanto ricca e varia l’attività di Karas.[8] In questa nota ci limitiamo a ricordare qualche costante dell’arte poliedrica di Teshigawara e alcuni progetti che ci sembrano punti di riferimento, non solo per i processi e le idee messe in atto, ma anche perché fucine e motori di altre creazioni successive, variazioni su motivi simili. Il lavoro di Karas letto nel suo insieme appare infatti come un organismo in continua espansione e ridefinizione.

Glass tooth, creato nel 2006, contiene molte delle costanti del lavoro di Teshigawara e Karas: prima di tutto il lavoro sulla materia della luce, coniugato al suo approccio al segmento, al frammento sinonimo di interezza e incarnazione dell’istante.

Momento fondamentale della ricerca su movimento e tempo è la corrispondenza di questi con l’apparire e lo scomparire, dipendenti non solo dalla luce ma dalla velocità nella relazione tra tempo e visione – elementi indissociabili nel creare forme nello spazio.

Questo binomio, apparire e scomparire, sembra essere Leitmotiv del percorso di Karas e si declina nell’altra coppia di termini, stabilità e incertezza. Teshigawara cerca instancabilmente condizioni non rassicuranti: il buio e l’ombra vengono affrontati anche per la loro capacità di spaventarci.[9]

Significativo che i video scelti dagli artisti (negli estratti che accompagnano questa conversazione) rendano molto evidente questo motivo: il ritmo visivo crea una vera partitura di luce e buio, dove le presenze e le parti dei corpi si danno per bagliori.

Questi motivi assumono ulteriore rilevanza se accostati al tema sopra citato degli ‘stati di passaggio’, anch’essi forme del fluire.

Si può leggere a tal proposito in una intervista:

Per cristallizzare questo sentimento [la percezione di presenze nel buio], ho pensato di utilizzare un certo numero di fumi diversi. Che appaiono e scompaiono in pochi secondi, come i danzatori in scena. Lo spettacolo gioca totalmente su quest’idea di percezione indistinta, nebbia che improvvisamente si squarcia, notte che occulta gli sguardi. Amo molto il fumo, o il vapore che emana dal corpo in inverno ed evapora velocemente. Quando il clima è più mite, esiste comunque ma diventa invisibile e tuttavia questo fumo è effusione del corpo nell’aria. Con un po’ di immaginazione, una sorta di corpo celeste che appare e scompare, come in un ciclo di morte e rinascita. Dal punto di vista scientifico, le nostre cellule mutano ad ogni istante, muoiono e si rinnovano. È come il flusso di un fiume, o un cielo sempre in movimento, che muta incessantemente, sia in profondità che in superficie, non si arresta mai. Per gli esseri viventi, quando cessa di trasformarsi, significa la morte. Ma sempre iscritta nel ciclo della vita. Trovo questo ciclo magnifico.[10]

La ricerca indefessa sui materiali e sulla materia si accosta ad una costante aspirazione al rendere percepibile la dimensione dell’invisibile, non contrapponendola, ma contemplandola nella coesistenza con la corporeità; questa relazione tra ciò che vediamo e ciò che è nascosto si concretizza nella creazione di luce.

Saburo utilizza spesso il termine «in between», il nostro stare a mezzo, non bastandoci la sola aria, come agli uccelli, né la sola acqua, come ai pesci, dato che «abbiamo bisogno di cielo e di acqua».[11]

In questa stessa rivista pubblicavo nel 2014 un intervento che intendeva fotografare gli ultimi lavori del coreografo (Luce, suono, spazio, tempo: gli ultimi lavori di Saburo Teshigawara http://www.arabeschi.it/luce-suono-spazio-tempo-gli-ultimi-lavori-di-saburo-teshigawara-/). Vi raccoglievo alcune impressioni sui progetti dispiegati allora in un breve lasso di tempo; traccia del febbrile lavoro di Saburo, sempre all’opera su più fronti, capace di declinare una poetica molto forte in forme e contesti diversi. Parecchi anni sono corsi e Karas – Teshigawara sono una fucina di creazioni e progetti, confermando l’idea di un universo artistico come organismo pulsante e tentacolare.

Saburo Teshigawara Nasce a Tokyo, dove compie studi d’arte plastica e danza classica. Inizia la carriera nel 1981 e nel 1985 fonda Karas con Kei Miyata. Oltre alle numerosissime coreografie, ha all’attivo regie d’Opera commissionate dai più prestigiosi enti lirici internazionali (Opéra di Parigi, Opéra di Lille, per esempio); ma anche installazioni, film e opere site-specific. Dal 2006 ha collaborato con l’Università di Saint Paul (Rikkyo) e dal 2014 insegnato presso la Tama Art University, Dipartimento di scenografia, design, drammaturgia e danza. È assiduo ospite e partner di progetti in Italia e in Europa: non solo il segno di un esteso riconoscimento ma anche dell’inclinazione a collaborazioni, in particolare con musicisti; e di un forte legame con la cultura europea.[12] Molto impegnato sul fronte della pedagogia delle arti, ha creato progetti come Dance of Air e S.T.E.P.

Dal 2013 ha fondato il proprio spazio, Karas Apparatus a Ogikubo, Tokyo, laboratorio per progetti di creazione continuativi (Update Dance).

Tra i numerosi riconoscimenti, il Bessie Award nel 2007, la Medaglia d’onore dall’Imperatore del Giappone nel 2009 e la nomina francese a Chevalier de l’Ordre des Arts et Lettres nel 2017.

Rihoko Sato si forma nella ginnastica artistica in Inghilterra e negli Stati uniti, dove ha vissuto dall’età di 15 anni. Diventa membro di Karas nel 1996, assistente di Teshigawara, maître de ballet e interprete principale delle sue creazioni. Tra i numerosi riconoscimenti, in Giappone e in Europa, il Best Dancer Award per Scream and Whisper, Les Étoiles de Ballet 2000 Awards nel 2005 a Cannes, il Japan Dance Forum award 2007, il Premio Positano “Leonide Massine” per la Danza 2012, il Premio della critica di danza in Giappone (2016), The Minister of Education, Culture, Sports, Science and Technology’s Art Encouragement Prize per la danza nel 2018.

1. Afferrare l’immagine: un processo molteplice

Cristina Grazioli Saburo Teshigawara è prima di tutto coreografo e danzatore. Ma l’alfabeto del movimento si declina a partire da un universo di riferimento che non separa le differenti forme dell’espressione. La prima impressione assistendo alle vostre creazioni è quella di un’opera di scrittura nello spazio. L’idea della scena come foglio nero, del buio su cui scrivere con la luce, ricorre nei pensieri di diversi artisti (ne abbiamo parlato qui con Pasquale Mari e con Alessandro Serra). Il buio della scena è per te come un foglio non scritto o invece uno spazio pieno di materia che va tolta per rivelare qualche cosa che sta sotto? Tenendo conto della tua poetica, parleresti di scrittura per costruzione o per sottrazione? Mi sono posta queste domande assistendo a Lines oppure anche a Landscape.[13] Ma anche rileggendo alcuni passaggi relativi a Light Behind Light (2000), dove il movimento del corpo viene equiparato al «finissimo pennello» con cui disegni sulla carta e dove la coreografia non si scinde dall’incisione di «un testo poetico sulla luce».[14]

Saburo Teshigawara Creare con la luce e con il buio significa per me contemplare molteplici procedimenti; così non si può far coincidere con una sola immagine. Non si tratta necessariamente di un’unica modalità del processo di creazione. Si tratta essenzialmente dello stato fondamentale dell'espressione: cioè di pensare l’apparizione di qualcosa dal nulla, dell’occultamento di ciò che esiste, e di come rivelare tale apparizione. Svelare ciò che si vuole far apparire, come uno scultore che scava una forma da una materia.

L'approccio al fenomeno dell’apparire per me si differenzia piuttosto a seconda che pensiamo a ciò che vogliamo rappresentare come se avesse una forma limitata, oppure lo immaginiamo come qualcosa che è in movimento.

Lines, 2014, foto Akiko Miyake

2. Lasciarsi destabilizzare dal buio. Fare affiorare le forme

C.G.: Sculture d’aria (ma sarebbe potuto essere ‘sculture d’ombra’) era il titolo scelto per il progetto del 2014. E la scultura porta in sé in effetti queste due possibilità: irretire la forma oppure restituirle il movimento.

Un altro dei motivi che costituiscono delle coordinate per queste nostre Lighting Light(s) è il binomio buio/nero. I due termini, spesso coincidenti nel linguaggio ‘figurato’ o per associazione di significati, per gli artisti e light designer sono raramente sovrapponibili senza scarto. Il buio ha certamente un potenziale enorme per la creazione del disegno luci e per una drammaturgia della luce (del buio)[15]. Quale la differenza tra buio e nero[16] nella tua pratica e concezione?

S.T.: L’oscurità (il buio) è un certo stato della luce.

La luce non ha colore. Le luci al neon colorate si vedono attraverso filtri colorati, quindi percepiamo la luce stessa come colorata, ma non è così.

Il colore del filtro dell’aria ci appare diverso a seconda dell’angolo del raggio solare che riceviamo.

Il nero è un colore. Nessun ‘nero’ è visibile senza luce.

Il nero in quanto colore, o colore di qualcosa, è materia. Il colore è il riflesso della luce.

C.G.: Possiamo aggiungere che nel tuo lavoro l’oscurità si percepisce come una ‘sostanza’ particolare quando appare in relazione diretta con la musica.

Di Francesco Tristano dicevi che «è fedele allo spartito, ma contemporaneamente ha la leggerezza e l’energia di andare al di là di esso» e che quando tocca il pianoforte è come se lo strumento diventasse un’estensione del corpo.[17] In qualche modo queste parole sembrano parlare anche di te stesso.

Landscape, foto Marco Caselli NirmalLandscape, foto Marco Caselli Nirmal

Nella tua ricca e variegata attività hai esplorato linguaggi differenti: danza e coreografia, teatro musicale, cinema, installazioni… Lo spazio e il movimento evidentemente accomunano tutti questi linguaggi. Si differenziano invece rispetto al modo in cui implicano il rapporto con gli spettatori e nella loro relazione con lo spazio e nello spazio. Lo spazio è luce. E la luce è anche buio.

Ci sono affinità nel concepire il buio e la luce in scena, nel cinema o nelle installazioni? Pensi vi siano differenze tra immaginare uno spazio illuminato oppure uno spazio oscuro come origine delle forme, nello scattare del processo creativo?

S.T.: Sono vere entrambe le cose. Ci sono gradi diversi di luce e gradi diversi di oscurità come momento di origine delle differenti creazioni, ma si danno entrambe le possibilità.

La differenza tra il palcoscenico, il film e un quadro dipinto sta nel fatto che il tempo vi sia coinvolto o meno.

La differenza tra scena, cinema e pittura sta nel fatto che vi siano o meno distanza fisica e profondità.

Si tratta anche della differenza tra fenomeno e sua rappresentazione.

Ricordavo a proposito di Black Water (2006) che il nero si percepisce diversamente a seconda del punto di vista, e quindi della profondità. In scena vi erano 45 pannelli neri e guardandovi attraverso non si percepiva chiaramente se vi fosse un limite. Le luci puntate su questo sfondo nero facevano sì che da esso emanasse luminosità.[18]

C.G.: La profondità è un termomentro dello scarto tra realtà fisica e percezione. Nel concepire una creazione tieni in considerazione un principio come quello di illusione, nella forma in cui verrà vista dallo spettatore, come immagine oppure come corpo nello spazio?

S.T.: Sì, lo considero. L’illusione è una condizione necessaria all’espressione, ne è un prerequisito; utilizzo vari fattori illusori per creare una varietà di tipi di cambiamento. Penso inoltre che l’illusione possa funzionare anche in assenza di qualsiasi mutamento visivo, talvolta le persone possono crearsi (da sé stesse) sensazioni illusorie, dato che noi riceviamo non solo una sensazione visiva, ma anche una percezione uditiva, accompagnata da un senso del tempo, e tutto questo può implicare virtuosi ‘fraintendimenti’. Ognuno interpreta la stessa cosa in modo diverso, contemplando anche la possibilità di scostarsi dal punto di vista di chi ha creato una certa situazione. Quindi l’illusione può manifestarsi anche dove non vi sia un cambiamento visivo.

C.G.: E rispetto alla percezione del buio in scena, da parte dei corpi dei danzatori? Per esempio in Darkness is hiding black horses?[19]

S.T.: Lo spettatore non vede un’immagine in scena, ma un fenomeno.

Cerco di creare l’oscurità come una realtà, a partire dall’esperienza.

L’obiettivo è creare la ‘differenza’ della luce come un ambiente mutevole, in modo che vada oltre la percezione di una semplice immagine.

Non usare la luce e il buio per creare l’immagine, ma per creare tempo; ciò significa che il mutamento è continuo. Lo stato della scena non è una fotografia o un’immagine fissa, si tratta di una condizione chiamata ‘tempo’.

C.G.: Nella nostra precedente conversazione (2013) sottolineavi la questione dell’insicurezza che provoca il buio. Ma anche come esso non sia mai totale (era la condizione cui tendeva l’incipit di Darkness is hiding black horses). Se anche si chiudono gli occhi, osservavi, si continua a vedere ‘luce’…

Darkness is hiding black horses ©Agathe Poupeney-Opéra National de Paris, 2013

3. Unità per frammenti

C.G.: Luce e buio, manifestarsi e scomparire, tempo e movimento nella tua ricerca sono strettamente correlati. Hai parlato spesso di ‘frammenti nel tempo’, nel concepire il movimento, in connessione all’idea di apparire e dissolversi delle forme (Fragments of time è anche il titolo di un’installazione del 2008). Quale è la relazione tra questo concetto di frammento e il ruolo della luce?

S.T.: Se con ‘frammenti di tempo’ intendiamo ‘un tempo limitato’, allora la relazione con l’apparire e lo scomparire delle forme è stretta e dinamica. Un fenomeno creato dal tempo, un cambiamento di forma creato dal tempo in movimento.

Dall’altro lato, il cambiamento di forma guida il cambiamento di luce.

Il mutare della luce, l’apparire e lo scomparire della sostanza hanno un ruolo cruciale nella visione che si fissa.

C.G.: Si tratta, di nuovo, di rivelare le forme o di nascondere forme e lasciarne apparire altre. Mi chiedo anche in questo caso se il procedimento si basi più sull’idea di costruire o su quella di decostruire – dare forma o toglierla? Sto pensando in particolare a Eyes off (‘occhi senza sguardo’ traduceva il programma di sala) e all’importanza che in quella creazione avevano i vuoti, le pause. In consonanza con Aura, il progetto proposto dalla Biennale nel 2013 dove le precarie condizioni dell’affresco di Giorgione La Nuda, opera da te scelta come motivo ‘drammaturgico’, sembravano incontrare precisamente un tratto fondante della tua poetica: l’organicità del frammento.

Tra l’altro, lo spazio della sala delle colonne era fortemente incluso nella concezione dello spettacolo: la disomogenea condizione di visibilità (le colonne creavano ostacolo per alcuni spettatori) corrispondeva alla creazione per frammenti; e anche la luce preesistente, come il lampadario a plafoniera al centro della sala, veniva inglobata nei mutamenti chiaroscurali del luogo.

Eyes Off, Courtesy la Biennale di Venezia, 2014, foto Akiko Miyake

S.T.: Nascondere e rivelare si intrecciano simultaneamente.

Le forme sono soggette al dubbio. Voglio dire che dovremmo avere dei dubbi sulla nostra visione.

Cos’è questo dubbio?

Le forme hanno un aspetto diverso a seconda del cambiamento di luce. Questa è una ragione oggettiva (per dubitare).

Cambierà a seconda della direzione dello sguardo della persona coinvolta, o del modo in cui percepisce la forma. Questa è la ragione soggettiva (per dubitare).

L’essere umano può acquisire la sua coscienza oggettiva solo attraverso il riconoscimento soggettivo. L’oggettività è sempre soggettiva, in parole povere, un riconoscere.

Per riconoscere una forma, specialmente una forma in movimento, cerco di cogliere l’identità della forma che sto cercando di individuare, che è nata dentro di me.

È importante per me cercare di far risuonare nel mio interno simultaneamente il fenomeno, il movimento e la sostanza che esistono fuori dal mio corpo.

La risonanza è la funzione di un oggetto rispetto a un soggetto, che crea un’unica risonanza dentro di sé. È una specie di energia acustica fatta risuonare dalla sensibilità.

C.G.: Quanto dici mi fa pensare al fatto che la maggior parte degli artisti che lavorano con la luce affrontano questo ambito come un modo di mostrare come tutto sia relativo, ogni cosa non possa essere assoluta (è quel che ci insegna la luce). Questo dato, ricorrente nelle conversazioni di Arabeschi, riflette un modus di vivere il nostro tempo: non imponendo un pensiero unico, un unico punto di vista, bensì guardando alla realtà come a qualcosa che non possiamo mai interpretare, mai afferrare come ‘verità’. Nello stesso senso penso all’importanza e ai significati dell’ombra.

Non è un caso che avessimo intitolato Sculture d’ombra il progetto che abbiamo dedicato al tuo lavoro a Padova.

Tratti l’ombra come qualche cosa di materiale o di immateriale?

S.T.: Le ombre hanno naturalmente un oggetto, una sostanza materica originaria, e una fonte di illuminazione. È questo che dà origine all’ombra e che la crea in un certo modo. L’ombra non produce una forma da se stessa. Tuttavia, è più facile capirlo quando vi è una singola fonte di luce; ma per le ombre prodotte da diverse fonti di luce, ciò a cui dà luogo l’ombra sarà una combinazione di più linee rette, che si avvicinano a una curva. Alla fine diventerà una materia circondata dalla luce, senza ombra.

La tua domanda contiene la risposta...

L’ombra[20] è un fenomeno materiale chiamato immaterialità.

 

4. Luce-Materia

C.G.: Scrivevi nel presentare Glass Tooth[21]

Uncountable broken pieces of glass reflect time
Bodies collide, hesitate, and paradox multiplies
Life appears in an unknown land
Fragments of glass are fragments of time
Melt beyond meanings[22]

Nel dare conto di questo spettacolo ‘storico’ la critica ha spesso evidenziato la compresenza di poesia e crudeltà, sussurri e grida, gravità e leggerezza, tensione e fluidità; inevitabilmente, luce e buio, ma anche il contrasto tra inorganico del materiale e organico dei corpi.

Nella citazione sopra riportata la fusione «al di là dei significati» mette in relazione frammento e molteplicità.

Scriveva Marie-Christine Vernay in Liberation: «Plastiquement irréprochable, intelligente corporellement, silencieuse […] cette pièce équilibrée entre les hommes et les femmes, juste, est un joyau. Pas besoin de diamant, le moindre morceau de verre renvoie la lumière».[23] Non c’è bisogno del diamante… ogni più piccolo frammento di vetro riflette luce.

E altrove si sottolineava come i danzatori rendessero gli spettatori certi del peso, della temperatura e della consistenza dell’aria.[24] Un processo di messa a vista dell’invisibile. Un confronto fisico, massivo, con l’aria spostata dai corpi.

«A nature’s law so natural as breathing that we don’t even think about in daily life, suddenly becomes tangible to ones conscious. The continuing strong steps of the dancers tell us the fragility of the glass, and the sharpness of the glass shows us the fragility of the body».[25]

Parole che risuonano ancor più alla ‘luce’ di questi due ultimi anni dove aria e respiro sono stati compromessi e ci hanno ricordato la nostra fragilità…

A proposito della materia della luce, come utilizzi i diversi materiali, nella loro consistenza e densità, in relazione alla luce e al buio? Come li scegli, vi è una fase di sperimentazione sui materiali o un loro studio preliminare?

S.T.: Quando si utilizzano dei materiali, essi sono differenti da quel materiale che siamo noi stessi, il nostro corpo… e rendere l’ambiente in cui ci si muove qualcosa che è determinato, limitato, costretto da quel materiale, stimola la creatività in scena.

Ambienti impossibili, scomodi, instabili, non garantiti, rendono vitale l’essere umano e la sua stessa vita.

Un senso di crisi nell’essere vivi richiede una forza di vita più intensa.

Il palcoscenico a volte può essere un laboratorio per imparare a vivere.

Un regalo fortunato e poetico si prepara per colui che rischia la sua vita nel pericolo.

 

C.G.: È una bellissima immagine per quell’avventura che è la luce.

Importante lo spostamento, che altre volte hai sottolineato, del ruolo del movimento dal ‘creare forme’ al porre un interrogativo circa la propria presenza nel mondo.

Intendo anche dire che questa instabilità può essere provocata a seconda di come utilizzi la luce. A seconda di come mostri, rendi visibili le cose, le interpreti, attribuisci loro significati diversi. Scegliere di mostrare la molteplicità è una scelta importante.

Quando parli di rischio intendi anche il rischio fisico, come per esempio danzare sui frammenti rotti di vetro?

 

S.T.: Per me, il pericolo in scena non è solo il pericolo che implica danzare su vetri rotti, ma piuttosto in senso più generale il limite della sicurezza, ciò che i nostri sensi ci dicono sulle cose e i fattori che minacciano il confine entro cui la nostra esistenza è al sicuro. Il margine entro cui si svolge la nostra esistenza ‘positiva’.

C.G.: Un motivo che ricorre in queste Lighting Light(s) è la luce naturale.

S.T.: Sì, la nostra vita è insieme alla natura, e l’arte nasce dalla relazione della vita e della natura.

La luce, l’aria, la gravità, il galleggiamento, il mio e il tuo corpo sono la natura stessa.

5. Trasparenze – corpi

C.G.: Il vetro nei tuoi lavori è materia chiave. Nella direttrice di Glass Tooth si pone il progetto Broken Lights, creato nel contesto della Ruhr Triennale – colpisce l’utilizzo dello spazio per questa performance concepita ‘in progress’. Le modalità del processo creativo sembrano avere come ‘modello’ o corrispettivo la luce: le sue caratteristiche di impermanenza, di incessante mutare.

Broken Lights, Ruhr Triennale, 2013 ©Wonge BergmannBroken Lights, Ruhr Triennale, 2013 ©Wonge BergmannBroken Lights, Ruhr Triennale, 2013 ©Wonge Bergmann

Trasparenze che mutano continuamente di stato e densità.

Trasparenza è un motivo ricco di suggestioni (pensiamo a Bruno Taut, Joseph Albers, Moholy Nagy, negli anni Venti del Novecento). Il vetro è un materiale che implica tante cose diverse: che cosa significa per te?

S.T.: La trasparenza è un processo di transizione tra diversi stati di trasparenza, in movimento.

Credo che una sostanza o un oggetto trasparente non siano nati così, bensì devono aver subito un processo che li ha fatti ‘divenire’ trasparenti. E lo stato ultimo è l’assoluta trasparenza. In altre parole, una trasparenza così assoluta che nessun oggetto può darsi in tale condizione. Nel senso che per un materiale ci sono vari gradi prima della trasparenza perfetta, si tratta di un processo. ‘Trasparente’ è come il silenzio o lo zero assoluto, quindi non può mai essere perfetto, ed è per ciò che è interessante.

Breathing – power of transparency, Karas, 2012 ©Sakae OgumaBreathing – power of transparency, Karas, 2012 ©Sakae Oguma

C.G.: Come il buio, il silenzio… non si danno in modo assoluto. Ricordavi anche come i diversi gradi della luce siano determinati dal movimento, che diventa una sorta di dimmer… E come ti affascini regolare la luce, creare concretamente la metamorfosi del visibile.

A proposito delle gradazioni, ciò riguarda a maggior ragione l’ombra: ricordo in Eclipse[26] la sovrapposizione di ombre diverse.

Un altro materiale presente nelle tue opere è lo specchio, quali le sue potenzialità in scena e quali le sue possibilità di interazione con luce e buio?

S.T.: Mi interessa come lo specchio blocca la luce e come la riflette, e mi interessa anche ciò che gli specchi nascondono.

C.G.: All’epoca di Darkness is hiding black horses avevo trovato molto significativo trovare riportata nel programma di sala la citazione della frase di Pierre Soulages sulla facoltà del nero in pittura di sprigionare luce (cfr. http://www.arabeschi.it/luce-suono-spazio-tempo-gli-ultimi-lavori-di-saburo-teshigawara-/). Quale il tuo rapporto con la pittura (riguardo per esempio il chiaroscuro, il colore nero, la luce della pittura)?

S.T.: Come espressione visiva nella pittura, il nero è efficace per esprimere l’oscurità, ma per nascondere qualcosa, è efficace anche uno schermo piuttosto brillante.

Un nero più scuro nasconderà il nero precedente. E per nascondere quel nero, è necessario un nero ancora più scuro.

Ma ho capito che non il colore bensì l’oscurità è ciò che nasconde in modo cruciale. E la sua profondità. Uno spazio buio profondo può persino nascondere perfettamente il colore bianco.

Quando l’oscurità sprofonda ancora di più, al contrario, fa sentire l’esistenza di ciò che sta nascondendo.

In Darkness is hiding black horses, quello che ho cercato di vedere erano cavalli neri. Ero certo che ciò che trattiene il respiro nascondendosi nella più profonda oscurità fossero cavalli neri.

Cavalli neri con battiti di cuore nascosti.

C.G.: Mi viene in mente un’opera di Christian Boltanski, Coeur clignotant (2005), dove la luce di una lampadina nel buio si accorda al suono di un battito cardiaco.

Questo respiro e questi battiti cardiaci si fanno visibili: li possiamo sentire e vedere nello spettacolo – e in genere nei tuoi spettacoli, nello spazio ‘animato’ dai danzatori. La luce ha un ruolo importante nel trasmettere il respiro dai corpi allo spazio; uno scambio di respiro portato dalla luce e dal buio.

Penso ancora al ritmo dei corpi come scultura in movimento.

Rihoko, quale la percezione sul tuo corpo della luce e del buio? La luce diventa una sorta di performer, una presenza che danza con te?

Rihoko Sato È come sentire una temperatura al di fuori del mio corpo ma è un’estensione del mio interno.

O a volte diventa come un oggetto duro che mi respinge, o che crea costrizioni – dei limiti intorno a me.

Così la qualità del mio corpo e il mio modo di essere cambiano con il cambiamento della luce. È qualcosa che si sente e non si pianifica dall’inizio.

Saburo lo sa, quindi i suoi progetti di illuminazione sono esattamente calcolati per far sì che il mio corpo si trasformi naturalmente nello spazio, nell’ambiente.

Sì, luce e musica sono partner in scena nella danza.

Il buio, come la luce, è parte dell’intensità della luce, confine o non confine tra il mio corpo e il suo esterno.[27]

Izumi, 2019 ©KARAS

C.G.: Partecipi alla concezione della luce? Come sperimenti nel corso del processo di creazione, la ricerca sul movimento è strettamente connessa con il sentire la luce e l’ombra?

R.S.: No, la creazione è di Saburo, non partecipo a concezione e disegno luce.

Quando creiamo nel nostro piccolo teatro, mi occupo della programmazione delle luci, quindi la durata della transizione da un’illuminazione all’altra, o la dissolvenza in entrata e in uscita, di questo mi occupo spesso.

La luce ha anche molto a che fare con il modo in cui vuoi che il tuo corpo appaia o scompaia. E ha anche molto a che fare con la musica; quindi tutto è collegato. La luce è sempre creata insieme alla musica e al corpo e al movimento.

L’ordine può cambiare a seconda del pezzo, ma il movimento del corpo è creato dalla musica e dall’illuminazione. Non esiste da solo, come si può immaginare una cosiddetta ‘coreografia’.

Anche il buio è parte della luce, ed è tutto un unico flusso senza interruzione, anche quando si fa buio.

 

C.G.: In She, tuo assolo del 2009, una parete di proiezione ‘materica’ dialoga con l’ombra – o meglio il controluce del tuo corpo. Il buio tagliato da una lama di luce crea spazio che interseca il corpo.[28]

6. Cecità. Vedere con tutti i sensi - Luminous

C.G.: Nel 2013 mi parlavi della tua esperienza con persone non vedenti, di quanto si possa apprendere sulla diversa percezione e i diversi gradi di cecità, dal nulla, alla facoltà di immaginare, alla nebbia…

S.T.: La prima volta che ho lavorato con non vedenti o ipovedenti fu in S.T.E.P 2000 (Saburo Teshigawara Education Project)[29] iniziato a Londra e in Finlandia. C’erano tre partecipanti non vedenti. Il lavoro si trasformò in una performance chiamata Flower Eyes.

Questo ha portato uno dei partecipanti, Stewart Jackson, un ragazzo completamente cieco dalla nascita, a partecipare alla nostra creazione Luminous.

Poi c’è stato Prelude for Dawn, un pezzo creato a Lille nel 2004, solo con studenti non vedenti e ipovedenti (anch’io prendevo parte allo spettacolo).

Era del tutto nuovo per me vedere che vivono sfruttando ogni singolo organo sensoriale. Riconoscono naturalmente se stessi e l’ambiente integrando udito, olfatto e le sensazioni epidermiche.

E allo stesso tempo, anche se non sembravano esserne consapevoli, erano molto sensibili al tempo, al grado di velocità del movimento, e godevano della transizione di accelerazione e lentezza.

C.G.: La nostra percezione è più estesa della vista. Sei convinto che si veda con tutto il corpo?

S.T.: Vedere è un movimento sensibile, nella nostra funzione fisica.

Ma vedere coinvolge allo stesso tempo altri movimenti fisici come sentire, pensare, sedersi, camminare.

Non concentrandoci troppo sulla vista che è solo una delle nostre funzioni vitali, e non facendoci travolgere troppo dalla stimolazione visiva, possiamo conoscere l’autentico meccanismo del ‘vedere’.

La stimolazione della vista, la gioia e l’eccitazione data alle nostre emozioni e ai nostri sensi, il desiderio incontenibile, possono essere un pericolo per l’essere umano.

Dobbiamo essere consapevoli di tale rischio: uno speciale desiderio di vedere all’infinito può farci perdere l’equilibrio non solo della vista ma anche delle altre percezioni.

 

C.G.: Luminous (2001) è un progetto importante per processo creativo, motivi, e anche come esempio della continuità tra opere diverse: è legato a Light Behind Light del 2000[30] e parte della scenografia nel 2004 diventa un’installazione, consistente in pannelli di luce tra i quali vengono posti degli oggetti, creando moltiplicazione di prospettive, di luce e di ombre.

Light behind Light, 2004, photo Sakae Osuma

In chiusura mi sembra interessante riportare alcuni pensieri espressi in un testo relativo a questo progetto, dove si spiega che «la ricerca è volta alla purezza e all’essenzialità del movimento attraverso la sua relazione con la luce e con il suono. Una sostanza costante (l’esistenza del corpo umano e i suoi movimenti) percepisce, si adatta o cambia, a seconda delle informazioni variabili che la matrice ottica ci offre nello spazio insieme all’ambiente acustico». Teshigawara e Joe Banks dotano Luminous di un apparato scenico consistente di riflessi di luce diffusi, risonanti o riverberanti con il suono «ognuno dei quali influenza l’altro», creando un’atmosfera che vive della molteplicità, sia per il fruitore che per il performer.[31]

Karas, LUMINOUS, 2001 ©Bengt Wanselius

Nella prima parte un assolo di Teshigawara sviluppa Light Behind Light[32] (2000). Un mondo di riflessi che si moltiplicano a partire dal rumore e dalla luce al loro minimo stadio, dal buio. Una figura di puro biancore appare dall’oscurità, dando vita a nuove condizioni di luce. La luce si riflette in modo molteplice, getta ombre, presenze che vengono risucchiate nel vuoto. Da questo vuoto appare un altro corpo (Stuart Jackson). Il suo vorticare nello spazio è il passaggio dal visibile all’udibile.

Nella seconda parte corpi e pareti luminose emergono dall’oscurità. La luce qui non è luce che proviene da dispositivi esterni alla scena, ma luce emessa dalle pareti luminose e dagli stessi danzatori. L’energia della luce si diffonde gradualmente nello spazio. Il contrasto di questo mondo immaginario con la realtà della velocità del movimento, della luce e del suono, si fondono gradualmente.

Ad un assolo di Teshigawara segue un duetto con Stuart Jackson.

 

Jackson cerca di fondersi con l’aria come se spiegasse le ali, quasi per volare. Nessuna parola o contatto, un duetto creato dalla fiducia e dall’aria condivisa tra i due danzatori. Qui vi è l’essenza della danza di Teshigawara. La vera essenza del movimento immobile, un accadimento profondo che può essere assimilato alle idee e alla qualità delle opere di Paul Klee, nei suoi più semplici disegni di angeli imperfetti degli ultimi anni. Attraverso la loro esistenza si cerca la ricchezza nella qualità di uno spazio creato attraverso la dissipazione dei margini, lo spirito sempre errante.[33]

Leggiamo ancora nei materiali di presentazione dello spettacolo:

To let oneself play in the perceived environment.

The moment, which lets one be as it is, with its height of purity,

with no resistance, so genuine, is to arise solely from its own energy.[34]

In un ambiente di suono e luce elementari, percepiti attraverso vari livelli, dove non esistono il silenzio assoluto né il buio assoluto, dove vari gradi di irraggiamento, riflessione e assorbimento della luce funzionano insieme, si scopre uno spazio particolare «uno spazio che ha una qualità creata dal tempo, dal luogo e dalla vita».[35]

There, we encounter the life which emits light from within itself.

Itself giving light,

a luminous body.[36]

Karas, LUMINOUS, 2001 ©Dominik MentzosKaras, LUMINOUS, 2001 ©Dominik MentzosKaras, LUMINOUS, 2001 ©Dominik Mentzos

Ci sarebbe piaciuto proseguire su Klee, sulla sua concezione di vista interiore e percettiva, sui progetti ‘spaziali’ di Saburo con la Jacsa (NASA giapponese), il suo rapporto con i testi (per esempio in Illuminations, un progetto dedicato a Rimbaud), il suo impegno pedagogico, la luce nel cinema.

Ma sarà per la prossima serie di Lighting Light(s)

Grazie a Saburo e a Rihoko per la poesia delle loro illuminazioni.

Illumination (da Rimbaud), 2016 ©Akihito Abe

*Non conoscendo il giapponese, ho condotto questa conversazione in inglese, talvolta verificando il testo originale in giapponese chiedendo aiuto a un madrelingua (Hiroshi Kubo, che ringrazio per il suo consueto pronto intervento). Mi prendo tutta la responsabilità delle traduzioni.


1 Quartett, questo il nome dell’ensemble di curatrici e curatore (Cristina Grazioli, Farah Polato, Guido Bartorelli, Leonella Caprioli, rispettivamente per le aree di teatro, cinema, arte e musica), aveva organizzato all’epoca i progetti: Landscape, dedicato a William Kentridge (2009), Training for a metamorphosis, dedicato a Matthew Barney (2010); Plasmare il sensibile, dedicato a Studio Azzurro (2011); segue nel 2018 Robert Wilson con La luce sfuma il tempo (con Bob Wilson condurremo la prossima Lighting Light(s)).

2 Cfr. Karakas Apparatus, <https://www.st-karas.com/karas_apparatus/> [accessed 07.11.2021]. Tra le numerose pubblicazioni segnaliamo, per rimanere alla bibliografia in lingua italiana, i capitoli dedicati al coreografo in E. Guzzo Vaccarino, Danze Plurali. L’altrove qui, Macerata, Ephemeria, 2009; esaustiva bibliografia, anche se fino al 2008, ivi, pp. 74-80; ‘Danzare la luce. Conversazione con Saburo Teshigawara’, in E. Guzzo Vaccarino (a cura di), Danze di luce. Seminario 3, Milano, Skira, 2003.

3 Si veda per esempio un breve documentario sulle creazioni dei costumi per Solaris: Dai Fujikura, SOLARIS, <https://www.youtube.com/watch?v=dYxsLu9KVsw> [accessed 07.11.2021].

4 Se ne veda un estratto: Ravi Deepres, KAZAHANA, <https://vimeo.com/25393640> [accessed 07.11.2021].

5 L’idea del progetto era stata avviata sin dal 2013. Una proficua collaborazione con il Teatro Comunale di Ferrara ha poi portato l’anno successivo alla realizzazione.

6 «La danza è una scultura dell’aria, scultura dello spazio, scultura del tempo», Saburo Teshigawara in E. Guzzo Vaccarino, Danze Plurali. L’altrove qui, p. 63.

7 Solo a titolo d’esempio Broken lights, Black Waters, Light Behind Light, Illumination… Cfr. anche la conversazione con Vaccarino, ivi, p. 68.

8 Documentata al sito Karas, <https://www.st-karas.com> [accessed 07.11.2021].

9 Da registrazione della mia conversazione con Saburo Teshigawara, Parigi, novembre 2013.

10 ‘Obscuritè dansante’, in En scène! Le journal de l’Opéra National de Paris, septembre-octobre 2013, p. 19; sui passaggi di stato cfr. C. Grazioli, ‘Cavità di luce, riflessi d’ombra: poetiche dell’assenza e drammaturgie della luce’, Culture Teatrali, 21, 2012, pp. 41-58; sulle relazioni tra corpo, movimento e densità dell’aria cfr. E. Pitozzi, ‘Una sottile geometria di luce. La composizione coreografica di Teshigawara’, Hystrio, XXV, 1, 2012, pp. 52-53.

11 Da registrazione della mia conversazione con Saburo Teshigawara, Parigi, novembre 2013.

12 Un utile sguardo sull’arte di Teshigawara come fertile equilibrio tra Oriente e Occidente è offerto da E. Guzzo Vaccarino, Danze Plurali. L’altrove qui.

13 Lines, collaborazione Sayaka Shoji (violino), La Biennale Danza, giugno 2014; Landscape, collaborazione con Francesco Tristano (pianoforte), Théâtre de Saint-Quentin-en-Yvelines, Teatro Comunale di Ferrara, ottobre 2014.

14 Light Behind Light, in E. Guzzo Vaccarino, Danze Plurali. L’altrove qui, p. 57.

15 Cfr. Lighting Light(s) #2 – Conversazione con Alessandro Serra, a cura di C. Grazioli, Arabeschi, 17, gennaio-giugno 2021 <http://www.arabeschi.it/lighting-lights2--conversazione-con-alessandro-serra/> [accessed 07.11.2021]; F. Marchiori, ‘Macbettu ha mortu su sonnu!’, in A. Serra, Macbettu, Ilisso-Sardegna Teatro, pp. 113-114; Cristina Grazioli, ‘Scolpire il buio’, Anagata, 2, gennaio-maggio 2020, pp. 46-49.

16 In giapponese ‘nero’ come colore è ‘kuro’(黒). Per ‘buio’ esistono almeno tre parole. La prima è ‘yami’ (闇), che potrebbe anche significare ‘enigma’. Forse ‘tenebre’ in italiano. La seconda è ‘kurayami’ (暗闇), che significa soprattutto uno spazio o una situazione fisicamente senza luce. L’altra è ‘kuragari’ (暗がり), che significa ‘penombra’; da una comunicazione di Hiroshi Kubo.

17 Intervista di Francesca Pedroni in Saburo Teshigawara/Karas. Landscape, programma di sala, Teatro Comunale di Ferrara, Focus Japan, autunno 2014.

18 Cfr. in merito Black Water, in E. Guzzo Vaccarino, Danze Plurali. L’altrove qui, p. 60.

19 Darkness is hiding black horses, Opéra National de Paris, 2013.

20 La parola ‘ombra’ si può tradurre in due modi in giapponese: 影 (kaghe o ei), equivalente all’inglese ‘shadow’ (l’ombra di un corpo); 陰 (kaghe o in), che equivale a ‘shade’ (l’ombra diffusa); da una comunicazione di Hiroshi Kubo.

21 Glass Tooth, Prima dicembre 2006, New National Theater Tokyo.

22 «Innumerevoli frammenti di vetro riflettono il tempo / i corpi collidono, esitano, e il paradosso si moltiplica / la vita appare in una terra sconosciuta / frammenti di vetro che sono frammenti di tempo / fusi al di là del significato», Saburo Teshigawara, materiali da cartella stampa dello spettacolo.

23 M.C. Vernay, ‘En verre et contre tous’, <https://www.liberation.fr/culture/2008/02/16/en-verre-et-contre-tous_65201/> [accessed 07.11.2021].

24 Sae Okami, in Dance Magazine (da cartella stampa fornita dalla compagnia).

25 «Una legge della natura così naturale come la respirazione a cui non pensiamo nemmeno nella vita quotidiana, diventa improvvisamente tangibile alla coscienza. I passi potenti e incalzanti dei danzatori ci dicono la fragilità del vetro, e l’affilatura del vetro ci mostra la fragilità del corpo» (ibidem).

26 Eclipse, Teatro Comunale di Ferrara, 2011.

27 Cfr. anche l’intervista: Triennale di Milano, 2019-2020, Saburo Teshigawara, Rihoko Sato/KARAS, <https://www.youtube.com/watch?v=FE29pYNEoTI>, da minuto 2’34’’.

28 Maison de la culture du Japon, SHE - Rihoko Sato, 2009, <https://www.youtube.com/watch?v=1O_yt3xu8R4> [accessed 7 novembre 2021], in particolare minuto 1’03’’.

29 In Luminous danzano anche lo stesso Teshigawara e danzatori di KARAS, oltre a Stuart Jackson, che aveva partecipato a S.T.E.P 2000, e un attore inglese, Evroy Deer.

30 Documentato in parte in Danser l’invisible, il film del 2005 di Elisabeth Coronel.

31 «Throughout the whole piece, there is a search for the purity and essentials of movement through its relation with light and sound. How an invariant substance such as the existence of the human body and its movements, perceive, adapt, or change, depending on the variant information the optic array affords us in space, together with acoustic environment. Research on these matters was proceeded between Teshigawara and artistic research collaborator Joe Banks through the creating process of Luminous. This is also apparent in the stage apparatus, created with light and its scattered reflections, resonant or reverberating with sound, each influencing one another, providing a multiple atmosphere for the receptor, the dancer» (da materiali dello spettacolo forniti dalla compagnia).

32 Creato nel 2000, su commissione di Dansens Hus, Stockholm, e altri co-produttori.

33 «Jackson tries to melt into the air as if spreading his wings, almost to fly. No words or touch, a duet created from the trust and air shared among each other. Here lies the whole essence of Teshigawara’s dance. The true immobile essentials of movement, a profound fact which can be seen in the ideas and qualities in the works of the painter Paul Klee, in his most simple drawings of imperfect angels in the later years. The richness in the quality of the space created through the dissipation of edges, the ever wandering spirit, is sought for through their existence. As if heading beyond joy and fear together with them» (da materiali dello spettacolo forniti dalla compagnia).

34 «Lasciarsi agire nell'ambiente percepito. / Il momento in cui ci si lascia essere così come si è, con la propria elevata purezza, / senza resistenza, in modo così genuino, significa nascere unicamente dalla propria energia» (ibidem).

35 «In the basic environment of sound and light which can be perceived through various levels of medium where there is no such thing as absolute silence or absolute darkness, where various levels of radiation, reflection and absorption of light function together, our life behaves repeatedly, discovering a particular space, a qualitative space created by time, place and life» (ibidem).

36 «Lì incontriamo la vita che emette luce dal suo interno. / Essa stessa dando luce, / un corpo luminoso» (ibidem).