Marco Baliani, Il sogno di una cosa

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Giornali inzuppati che scorrono nell’acqua. E poi borse, ombrelli: tanti, tantissimi ombrelli rotti, con i manici spezzati, ridotti a scheletro. Immagini feticcio che sembrano schegge di un film di Tarkowsij e suggeriscono lo scandalo di una giornata come tante, stravolta da un’ondata di violenza. Pioveva quella mattina a Brescia e i manifestanti accorsi a Piazza della Loggia per protestare contro il terrorismo neofascista avevano aperto l’ombrello. Gli altri, quelli che non l’avevano, si erano riparati sotto i portici, pochi istanti prima che una bomba, piazzata nel cestino dei rifiuti, esplodesse uccidendo otto persone e ferendone oltre cento.

A quarant’anni dalla strage di Piazza della Loggia, la città di Brescia rinnova la memoria tragica di quell’atto criminoso con Il sogno di una cosa, opera lirica composta da Mauro Montalbetti, con testo e regia di Marco Baliani, qui anche attore, e la regia video di Alina Marazzi.

Lo spettacolo si apre con gli oggetti dei morti e dei feriti proiettati su un sipario di cellophane. L’acqua in cui sembrano galleggiare non è soltanto quella della pioggia del 28 maggio 1974, ma anche quella degli idranti che meno di due ore dopo spazzarono via tutti gli indizi, obbedendo a un ordine misterioso.

Loro vengono con stivali insanguinati
idranti malati
vengono i pompieri e gli accompagnatori dei carnefici
assassinando i corpi già uccisi.

In scena, oltre a Marco Baliani, al soprano Alda Caiello e al musicista performer Roberto Dani, ci sono gli allievi del corso di teatro danza della scuola Paolo Grassi di Milano nei panni ora dei carnefici, burattini patetici e inquietanti, ora delle vittime, non solo di Brescia ma di tutte le stragi che insanguinarono quegli anni.

©umberto-favretto

Corpi inermi a terra o che si sorreggono l’un l’altro come in una Pietà di Michelangelo. Persone comuni i cui pensieri, fotografati nell’istante prima della morte, diventano l’emblema tragico della vita brutalmente assassinata.

vi sento mormorare
delicate parole
vi sento imprecare
urgenti parole
vi sento gridare
ribelli parole.

Lo spettacolo, che in autunno sarà al Piccolo Teatro di Milano, si snoda per quadri, in modo non lineare; alla maniera di Benjamin, la storia è solcata da eventi drammatici che di colpo illuminano ciò che li precede, e così la tragedia viene raccontata dalla fine, a partire dal depistaggio.

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Mentre sullo sfondo scorrono le immagini degli oggetti fradici, squarciati, in scena uomini incappucciati e deformi, con le maniche della tuta lorde di sangue, si affannano freneticamente in una danza sincopata attorno ad un corpo nudo, sdraiato su un letto d’ospedale o d’obitorio: un Cristo inerme, toccato, sospinto e infine occultato. Nel frattempo dalle finestre di un edificio grigio ed essenziale, realizzato dallo scenografo Carlo Sala, Marco Baliani e il soprano Alda Caiello, qui alter ego e allegoria della statua della Bell’Italia di Brescia, duettano in piedi, intessendo un dialogo che si snoda per tutto lo spettacolo.

Caiello: Infangare, depistare, disperdere.
Baliani: Così hanno agito sempre: a Bologna, a Ustica, a Piazza Fontana…

Testo e note si fondono in un intreccio armonico che è la fortunata cifra stilistica dello spettacolo, una miscela di teatro, musica, danza, sostenuta dalla costante presenza dei video di Alina Marazzi, realizzati in collaborazione con gli studenti dello IED di Milano che, coordinati da Paolo Solcia, Davide Sgalippa e Paolo Ranieri, sono anche autori dell’installazione multimediale I sogni capovolti che accompagna lo spettacolo e ne è l’ideale prosecuzione: una distesa di ombrelli rovesciati all’interno dei quali viene ricreato un paesaggio sonoro e visivo.

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Per tutta la durata dell’opera scorrono immagini di repertorio, nitide oppure proiettate sulla superficie ruvida di un vetro rotto. Sono i volti seri dei manifestanti e i visi attoniti al funerale, alternati a frammenti in super 8 di vita familiare della Brescia di quegli anni. Accanto alle facce risaltano le statue, le colonne, le pietre bianche dei monumenti cittadini, testimoni muti della tragedia e dei suoi esecutori.

Il mix di materiali eterogenei è da sempre la linea stilistica di Alina Marazzi e così, pur trovandosi per la prima volta alle prese con la complessità retorica dell’opera lirica, la regista ha saputo affidarsi alla polifonia del testo di Montalbetti, realizzando una colonna video pregnante e, a tratti, struggente.

Sulla scena si susseguono quadri viventi, parole, immagini rese fluide dalle note di Montalbetti, ricche di contaminazioni stilistiche, di suggestioni tratte dalla musica pop e dal free jazz degli anni ’70, ma anche dall’afflato corale delle note di Luca Marenzio, madrigalista bresciano del Cinquecento. La musica, eseguita dall’ensemble Sentieri Selvaggi diretto da Carlo Boccadoro e dal coro Costanzo Porta di Cremona diretto da Antonio Greco, è il collante dell’intera opera, melange policromatico raffinato e tuttavia sempre accessibile.

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Un intreccio di linguaggi che produce uno spettacolo denso e sferzante, che non indulge mai a facili effetti. Un’opera che nasce dall’urgenza di una città ferita. Il testo, lucido e stilizzato, come nella migliore tradizione brechtiana, non offre spiragli se non l’esortazione, alla fine, ad aggrapparsi alle parole. È un appello che ricorda l’inizio di Se questo è un uomo, privo però dell’aggressività dell’anatema e proteso in qualche modo verso il futuro. Verso quel sogno di una cosa, titolo del primo romanzo di Pasolini e dello spettacolo, che allude al miraggio di una società migliore. Non a caso l’ultimo volto che appare è quello di un bambino.

Dite i nomi degli assassini, voi che potete aprire gli archivi.
Dite i nomi.
Dite i nomi.
Dite i nomi di chi ha permesso lo scempio.
La città resterà appestata finché qualcuno non dirà i nomi degli assassini.
Proseguite le parole interrotte.
Chiamateci per nome, dite il colore dei capelli,
sorrisi, i saluti, le mani.
Mantenete intatta la rabbia.

La replica a cui assisto è riservata agli studenti delle scuole cittadine. I ragazzi prendono posto vocianti, e poi sorprendentemente tacciono per un’ora e mezzo. Alla fine, regalano agli artisti cinque minuti di applausi. La Storia li ha investiti con l’irruenza della musica, con l’immagine dei volti di chi allora era giovane e credeva che il mondo si potesse cambiare. Fuori piove, come quella mattina di maggio di quarant’anni fa, e alcuni di loro, quelli che l’hanno portato, aprono l’ombrello.

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Il sogno di una cosa

Musica Mauro Montalbetti

Libretto e regia Marco Baliani

Regia Video Alina Marazzi

Scene e costumi Carlo Sala

Disegno luci Stefano Mazzanti

Ensemble Sentieri Selvaggi

Direttore Carlo Boccadoro

Soprano Alda Caiello


Attore Marco Baliani


suono-Azione Roberto Dani

Danzatori Allievi del secondo corso del Teatrodanza - Milano

Teatro Scuola Paolo Grassi Francesca Bugelli, PierLuigi Castellini, Donato DeMita, Liber Dorizzi, Elena Fontana Paganini, Giovanfrancesco Giannini, Helena Mannella, Sara Paternesi, Filippo Porro

Coro Costanzo Porta di Cremona

Maestro del Coro Antonio Greco

Aiuto regista Barbara di Lieto


Assistente scene e costumi Roberta Monopoli

Realizzazione video Davide Sgalippa, Paolo Ranieri e gli studenti di Video design dello IED Milano

Compositing Video Michele Innocente

Esecuzione Video Paolo Solcia, IED Milano

Produzione Fondazione
del Teatro Grande di Brescia

in coproduzione con Fondazione i Teatri di Reggio Emilia

in collaborazione produttiva con Piccolo Teatro di Milano, IED Milano

con la collaborazione di Casa della Memoria – Brescia, Fondazione Milano Teatro Scuola Paolo Grassi, Milano