1. Il corpo della madre, la voce della figlia
Le persone che amai e mi videro stanno andando via, e io non ho nessuna intenzione di vivere senza la mia storia. I nostri morti sono i testimoni di quello che vivemmo…E si può continuare a vivere senza la propria storia? Forse, ma è orribile; gli amici sono i testimoni del nostro essere vivi, ci videro vivere creando lo specchio delle nostre azioni.
Goliarda Sapienza, La mia parte di gioia. Taccuini 1989-1992
Le personagge di Maria Rosa Cutrufelli trovano spesso un radicamento tra le carte di archivi polverosi o sulle targhe memoriali scovate per caso e semi-dimenticate in qualche città di provincia. La sua ultima opera, intitolata Maria Giudice (2022), affronta un processo per molti versi contrario alla consueta pratica di scavo e rilegittimazione di figure femminili ben presente sin dall’esordio, con il romanzo di ambientazione risorgimentale La briganta (1990).
La ricostruzione narrativa della vita di Giudice presenta un movimento se possibile ancora più scandito da un’urgenza personale, ben innestata nel femminismo delle relazioni che contraddistingue Cutrufelli, i cui romanzi e racconti inscenano spesso rapporti di affinità e di alleanze tra donne, con l’effetto di sfaldare e aggiungere complessità alle certezze identitarie di ciascuna. Con Maria Giudice il punto di vista è quanto mai intimo e nutrito dell’esperienza personale dell’autrice: se al centro del racconto vi è una figura ben radicata nella storia del socialismo e delle lotte dei lavoratori in Italia – dunque un avvio autentico, verificabile dalle carte e dalle biografie storiche consultate – la vita della protagonista si concretizza e si riscatta anche a partire da più di un precedente letterario, intrecciandosi con il percorso stesso della narratrice che ne ricostruisce il filo.
Socialista, tra le prime sindacaliste italiane ed europee, giornalista e attivista instancabile, Maria Giudice (Codevilla, 27 aprile 1880 - Roma, 5 febbraio 1953) ha infatti attraversato la mente di Cutrufelli già molti anni fa, sin dal 1991, quando l’autrice si confrontava con la figlia della sua futura personaggia, ovvero la scrittrice Goliarda Sapienza. Entrambe si incontravano circa due volte al mese durante intense e appassionate riunioni informali tra scrittrici, come racconta una delle partecipanti, Adele Cambria, rievocando le sue «ultime dimissioni».[1] Era questo un gruppo nato dalla passione della scrittura, «cresciuta senza costrizioni di nessun tipo, nel senso che ci siamo lasciate guidare, per una volta, dal vecchio Principio del Piacere».[2]
Il libro di Cutrufelli fa eco al racconto autobiografico di Cambria, prendendo l’avvio proprio da una di queste cene annesse a lunghe discussioni, con il titolo «Premessa: gruppo senza cornice».[3] La formula non è casuale, in quanto suggerisce l’assenza voluta di un recinto referenziale omogeneo, oltre che evocare un momento privato che riesce a esercitare un certo impatto emotivo su chi legge. L’aspetto affettivo del racconto testimoniale di Cutrufelli apre la strada a una tensione che si reitera nel corso di tutto il testo, ovvero la tensione tra il visuale e il narrativo, messi in costante interazione e confronto reciproco.
La scena si apre in una serata del gennaio 1991, all’interno di un animato salotto romano, con la potente e semplice immagine di un gâteau di patate, gustato da un gruppo di amiche scrittrici, «un sole giallo, impastato con mani ancora svelte dalla madre ottantenne di Adele Cambria».[4] Emerge un contrasto immediato tra il giallo del cibo appena sfornato e «i pozzi petroliferi in fiamme, i soldati scalzi nel deserto, i giornalisti con la maschera antigas. E la televisione accesa notte e giorno sul Grande Spettacolo: la guerra trasmessa in diretta mondiale, per la prima volta nella storia».[5] Adele, anche lei intima amica di Goliarda Sapienza, lancia l’idea di un testo collettivo teso a esprimere la voce delle donne contro la guerra, ma non tutte concordano.[6]
Con grande rammarico di Adele, che l’amava in modo totale e incondizionato, Goliarda Sapienza non era una pacifista. ‘E come potrei esserlo?’, obiettava. ‘Anche la parola pace mente.’ C’è inganno e menzogna anche là dentro.
Su questo ero d’accordo con lei. Però m’impressionava sentirglielo dire con tanta disinvoltura. Mi pareva quasi un tradimento: in fondo, era figlia di una donna che nel 1917 aveva incitato le operaie allo sciopero contro la guerra. Una sindacalista che dal balcone della Camera del Lavoro di Torino aveva gridato, battendo il ritmo: Prendi il fucile, gettalo per terra, vogliam la pace, mai più la guerra!
Ma questa non era che una parte della storia. […] Poi però ne era venuta un’altra. E contro questa seconda, l’antica maestra, ormai militante a tempo pieno, aveva mosso a sua volta una guerra. Che tuttavia si proclamava di resistenza. Resistenza antifascista.[7]
Figura complessa e sfaccettata, Maria Giudice abita le parole e le movenze di Goliarda osservata da Maria Rosa. Molti anni più tardi, questa giovane maestra, pacifista ma fermamente antifascista (come, del resto, Goliarda stessa), avrebbe ispirato le pagine dell’ambizioso romanzo storico D’amore e d’odio (2008), dove Cutrufelli la trasfigura non in una, bensì in due figure complementari, le sorelle Nora ed Elvira Gribaudo. Ciascuna impersona i diversi pezzi della vita di Giudice: il sindacalismo, il pacifismo, l’amore (di Nora) per Matteo Fenoglio, il quale – al pari di Carlo Civardi, primo compagno di Maria Giudice e padre dei suoi primi sette figli – viene descritto nel romanzo di Cutrufelli come dapprima socialista, poi interventista nella Prima Guerra Mondiale; o, ancora, in D’amore e d’odio è presente l’amore tra Elvira e Giovanni Mottura, avvocato siciliano che evoca chiaramente Peppino Sapienza, futuro padre dell’autrice de L’arte della gioia. Una volta divenuta Signora Mottura, anche Elvira, come la sua controparte storica Maria, digrada la propria attività politica e diventa «una profuga dentro la sua stessa vita»,[8] soprattutto a causa dell’imperante regime fascista.
Il gioco delle somiglianze, di per sé, potrebbe costituire un motivo di interesse relativo. Tuttavia, la necessità di riproporre la figura di Maria Giudice fuori da un contesto apertamente finzionale pone, a mio parere, qualcosa di molto più articolato. Il filo del tempo attraverso cui si snoda il rapporto tra Cutrufelli e Maria Giudice è anche un percorso di maturazione letteraria ed estetica in cui la figura storica e la personaggia hanno continuato a esercitare la propria potente capacità di influenzare la narratrice. Questa evoluzione emerge, in modalità diverse, per entrambe le scrittrici, Maria Rosa e Goliarda. Basta ripercorrere le pagine dei Taccuini di quest’ultima per comprendere che, esattamente un anno prima di quella serata del gennaio 1991, la figura di Maria Giudice è già al centro di un progetto biografico, intensamente desiderato e intrecciato a un ancora più complesso rispecchiamento verso la creazione della propria ‘autobiografia delle contraddizioni’. Questo infatti Sapienza scriveva nel gennaio 1990:
Maria Giudice: un amore sotto il fascismo.
Questa è l’idea che bimba avevo di mia madre.
E se il XX Congresso del Partito Comunista Sovietico mi liberò dal dovere di scrivere solo del proletariato (il privato era peccato), gli ultimi avvenimenti – oggi – liberano completamente la donna che si nascondeva in Maria, e finalmente da donna a donna posso raccontarla. Le pulsioni che mi nacquero da lei quando io ero bambina non le rinnego. Ma col tempo hanno creato in me quell’ambivalenza che possiede tutti noi, sempre. È proprio questa ambivalenza che mi spinse trent’anni fa a iniziare il ciclo Le certezze del dubbio, incentrato sulla mia persona ma ‘in progress’, e cioè non letta – come in tutte le biografie – a una specifica età, avanzata o giovanile non importa, invece raccolta man mano ogni decennio e nell’arco di tutta una vita, sempre con l’idea cardine di afferrare piú le contraddizioni che le coerenze.[9]
In qualche modo, come aveva già intuito bene Giovanna Providenti, biografa di Goliarda Sapienza, Cutrufelli parte dall’ipotesi che Maria Giudice sia rimasta una figura isolata: che non soltanto sia stata in qualche modo ‘divorata’ dalla sovrapposizione con la figlia (visione corroborata dagli automatismi delle cronache), ma che sia stata anche lasciata da parte da una storiografia del socialismo italiano piuttosto distratta. La narrazione intima e originale di Maria Giudice compensa e integra l’aporia storica perpetratasi per decenni, e nel contempo accoglie in sé il desiderio incompiuto di una biografia materna quanto più possibile ‘liberatoria’ espresso dalla voce di Goliarda stessa. Nell’interpretare i pensieri di quest’ultima, la compatta biografia di Providenti aveva già ripercorso il filo che unisce la madre-personaggia alla figlia scrittrice per mezzo dell’eroina dell’Arte della gioia (dentro cui si intravedono parecchi tratti di Maria Giudice), affermando che «la sindacalista Giudice [è] rimasta indietro quando, finito il fascismo e la guerra, i suoi ex compagni di lotta erano saliti sul carro del vincitore, con una diversa idea di vittoria. Lei aveva orizzonti di speranza molto più ampi. In quale fraintendimento era incorsa sua madre? Perché dopo avere tanto lottato con fede e abnegazione per un mondo migliore era finita in manicomio? Modesta non sarà come lei».[10]
Pur appoggiandosi a testi storici (in particolare, la biografia di Vittorio Poma Una maestra fra i socialisti: l’itinerario politico di Maria Giudice, 1991), Cutrufelli si insinua tra la dimensione biografica e quella trasfigurata in cui la figlia scrittrice riprenderà la figura materna attraverso le sue personagge – in primis, la Modesta del romanzo-mondo L’arte della gioia (2008). Ponendosi accanto e negli interstizi delle narrazioni di Goliarda (per la quale Maria Giudice rappresenta una figura sovrastante, con cui fare i conti sin dagli esordi con Lettera aperta), la scrittrice messinese aggiunge un pezzetto di verità che sono insieme storiche e letterarie, mossa dal desiderio di riempire i vuoti di memoria sulla vita generosa e tormentata di Maria. Parallelamente, la tessitura profonda tra il proprio romanzo storico D’amore e d’odio e il racconto di Maria Giudice viene svelata a metà di quest’ultimo testo, con una confessione senza mezzi termini da Cutrufelli:
Sì, ho scritto quel libro pensando a lei, attingendo al serbatoio della sua vita. È il modo di procedere dei narratori, gazze ladre per vocazione, che rubano frammenti e ritagli di storie. Chi narra è sempre in debito verso le vite degli altri. Ma la vita di Maria Giudice è così…così tanta, così sovrabbondante che da un’unica persona, dalla donna in carne e ossa che era, be’, sono riuscita a ricavare due personaggi! Due sorelle, da cui prende avvio la storia del mio Novecento. Ed è questo, alla fin fine, il motivo per cui sono qui: per cercare di sdebitarmi con lei e raccontarla, se possibile, nell’unicità della sua vita. Nella sua singola esistenza.[11]
In questo suo racconto, Cutrufelli fa nuovamente i conti con la vita in eccedenza di Giudice; tuttavia, il nuovo obiettivo, non esplicitamente dichiarato ma presente in filigrana nell’intero testo, è quello di riprendere il prezioso filo interrotto dell’affetto personale e generativo per Goliarda Sapienza. Quando scrive che intende sdebitarsi, la natura medesima di quel debito è polivalente, perché in controluce alla «singola esistenza» di Maria si staglia l’esistenza altrettanto unica di Goliarda, che la stessa Maria Rosa non esita a definire «osservatrice molto lucida» della madre.[12] Tutti questi elementi sostanzialmente mancavano dal progetto narrativo di D’amore e d’odio, dove tuttavia la capacità di ricomporre intere generazioni femminili in Italia si accompagnava già a una contaminazione continua tra ideologie e storie private, tra le frammentazioni e le urgenti continuità di microstoria e Grande Storia. Se Maria Giudice esprime chiaramente l’intenzione di far emergere dentro la propria scrittura la figura di un’altra donna (principio ispiratore della collana Mosche d’oro in cui il volume Maria Giudice è incluso), la scrittura di Cutrufelli già nel 2008 spingeva verso una dimensione di memoria relazionale, espressa nella scelta di ricongiungere le due sorelle di D’amore e d’odio in un’unica figura che l’aveva sempre affascinata. Nel più recente racconto biografico di Giudice interviene una dimensione alquanto inedita per Cutrufelli, ovvero l’uso di fotografie innestate nel corpo del testo, oppure narrativizzate tramite ekphrasis.
Come cercherò di illustrare nelle prossime pagine, prendersi carico della vita di Maria Giudice significa uscire dalla categorizzazione vaga e semplicistica del suo ruolo di ‘madre di…’, ma significa ridarle una memoria, riproposta nella doppia chiave di diegesi verbale e visuale. A questo scopo, non risulta affatto scontato l’accento posto, sin dalle prime pagine, sul carattere dialogico della narrazione, che si apre con il cenacolo delle scrittrici menzionato sopra; è proprio la voce di Goliarda che ispira e quasi indirettamente sollecita una risposta dell’amica Maria Rosa. In maniera sorprendentemente attuale per la nostra contemporaneità, la figura di Giudice si aggancia al momento in cui il gruppo di scrittrici assiste a uno scenario di guerra, stabilendo una congiuntura tra il passato di Maria Giudice, caratterizzata da un instancabile impegno politico, pacifista e antifascista, e il presente del racconto, in cui le amiche osservano attonite lo spettacolo cruento della Prima guerra del golfo sullo schermo televisivo. Dalla voce e dagli occhi di Goliarda, Maria Rosa osserva – quasi come in un film proiettato a suo esclusivo beneficio – un tempo storico che si contrae e apre la strada a un nuovo progetto letterario dove lei, nel ruolo di amica-tessitrice di storie, può scavare e recuperare ciò che Goliarda stessa inseguiva già in quella serata del 1991, ossia la memoria materna:
Per un attimo ebbi l’impressione che Goliarda, con il suo sguardo distratto, fosse scivolata dietro al muro del tempo. Che non fosse più lì con noi. Si era persa in un’altra epoca e ora andava camminando per le strade di una Roma deserta, occupata dai tedeschi. Nella tasca interna della giacca nascondeva fogli su fogli di stampa clandestina: era una giovane staffetta partigiana della Brigata Vespri. […] Non saprei dire a cosa stesse lavorando Goliarda, in quel periodo. Ma ricordo bene il modo in cui disse: ‘Io vengo dalle memorie… sì, dalle memorie di un’epoca fascista’. E questo mi fa pensare che fosse immersa nella stesura del suo grande progetto incompiuto, di quel libro di cui già possedeva il titolo: Amore sotto il fascismo. Il romanzo di sua madre e di suo padre. Un lavoro che la proiettava oltre la memoria personale e la costringeva a scavare nella storia. A salire le scale dell’Archivio di Stato per ripescare documenti inediti, vecchi giornali, ciclostilati ormai stinti e fotografie in bianco e nero.[13]
Il corpo e la memoria di Maria Giudice si plasmano così a partire da una suggestione dialogica, da una memoria di affetti che sarebbe stata spezzata dalla successiva assenza della voce di Goliarda, morta nel 1996. L’interlocutrice diretta del racconto materno, così come della congrega amicale, è allora Maria Rosa stessa, narratrice interna ed esterna che risponde, seppure in differita, alla sollecitazione dell’amica e al suo stesso desiderio di raccontare. Dentro tale desiderio va inteso dunque l’innesto di una cornice testimoniale ‘reinventata’ a partire da due fotografie, che introducono rispettivamente il primo e l’ultimo capitolo, rispettivamente intitolati «Foto numero uno. Ritratto di Maria» (p. 17), e «Foto numero otto. Passeggiata romana» (p. 125).
Va osservato che ciascuno degli otto capitoli del testo contiene il termine ‘Foto’, nonostante solo i due sopraccitati includano effettivamente delle immagini, prive di didascalia e stampate su una pagina isolata che precede il testo. Sono loro le cornici visive entro cui si esplicita il dispositivo intermediale della vita di Maria Giudice. L’accostamento tra le due foto mostrate ai capitoli primo e ottavo e le altre immagini evocate tramite ekphrasis costituisce uno degli aspetti più interessanti di questo andirivieni continuo dentro e fuori dalla cornice del racconto più strettamente storico e biografico, mentre si lascia correre, oltre al filo della memoria ricostruttiva, quello del racconto coadiuvato dal supporto fotografico, in cui Maria Giudice si lascia immaginare attraverso vari flash di vita abilmente ricomposti.
Sempre nella premessa, Cutrufelli srotola il filo dei ricordi e ricorda (non senza titubanze), che le fotografie di Goliarda, nella casa romana di Via Denza, erano poche e per lo più senza cornice: «Del resto cos’è, nella sua più segreta sostanza, una cornice? Nient’altro che una chiusura. […] La fotografia, piccolo taglio di realtà, conferisce a ciascuna forma o figura un carattere di mistero, stimola l’immaginazione. Ma solo se andiamo oltre la cornice possiamo comprendere quel mistero. Solo se aboliamo i confini».[14] La memoria di Giudice è supportata sia dall’affetto vivo per l’amica perduta Goliarda, sia dalle tracce visive di un’esistenza chiaramente elevata a modello di resistenza etica e politica. Essa sostiene, per Cutrufelli, una necessità impellente di ribadire la forza storica dei rapporti tra donne. L’autrice, che appartiene alla generazione del neofemminismo degli anni Settanta, riesce a raffigurare la vita di Maria con l’aiuto di poche fotografie che le consentono di operare quella che Adrienne Rich ha magnificamente descritto nel suo celebre saggio ‘Quando noi morti ci destiamo’, ovvero la spinta a decodificare le vite di donne con un gesto di re-visione creativa, «l’atto di guardarsi indietro, di vedere con occhi nuovi, di affrontare un vecchio testo con una nuova disponibilità critica – è per le donne più di un capitolo di storia culturale; è un atto di sopravvivenza».[15]
2. Ritratti del desiderio
Ri-vedere e ri-conoscere Maria Giudice è qui, per Cutrufelli, praticare una parola riflessiva che traccia un ponte tra passato e presente, opacizzando i confini tra i generi narrativi. Prendiamo l’inizio del primo capitolo:
Il volto forte, squadrato, esce con prepotenza dal fondo scuro. Lo sguardo si alza verso un interlocutore invisibile e l’accenno di un sorriso, simile a una curiosità trattenuta, lo rende vivo. La donna è ancora giovane, nonostante i capelli striati di bianco, ben appiattiti dietro le orecchie. […] È sempre la stessa fotografia, sempre questa a comparire negli articoli o negli scritti che parlano di lei. Si direbbe quasi una scelta obbligata. Per mancanza di alternative? O per via di quello sguardo espressivo, così difficile da catturare e trattenere sulla carta? […] Non so quanti anni avesse, all’epoca. Non sono riuscita a scoprirlo. Ma certamente, come dichiarano le rughe attorno agli occhi, aveva già vissuto abbastanza da conoscere le battaglie politiche, l’esilio, il carcere, la maternità. Non sto guardando un’immagine muta, bensì il ritratto intimo di una donna reale, così com’era in un dato momento della sua esistenza.[16]
Pescatrice di vite, Cutrufelli utilizza spesso questo tono confidenziale, accentuando la co-dipendenza tra testo e immagine, decretandone così la potenza espressiva e diegetica. La sua è una didascalia intima che serve a legittimare l’appropriazione dell’immagine a fini letterari. L’utilizzo di una foto già pubblicata altrove (la stessa utilizzata quasi sempre per raffigurare Giudice in contesti ufficiali) consente all’autrice di appigliarsi a un contesto di ricostruzione d’archivio in cui si afferma la propria responsabilità nella consultazione delle fonti. Nel contempo, così commentata, la fotografia abbraccia un’esistenza ben più stratificata in cui Maria si staglia come entità straordinaria nelle pieghe di eventi e incontri epocali e decisivi non solo per la figlia Goliarda, ma per la medesima Maria Rosa e la sua generazione. Nell’avviare una diegesi distesa e affettuosa, il ritratto – di cui non si conosce peraltro l’autore/l’autrice – viene re-inscritto in un contesto più creativo e ricco di possibilità, perché prelude allo storytelling intimo: è in questo riutilizzo del medium fotografico che si colloca l’interazione feconda tra immagine, dispositivo e sguardo.[17] Come afferma Giuseppe Carrara rispetto alla qualità intrinseca delle opere fototestuali, nell’analisi di queste ultime «non si tratterà di ragionare in termini di prelievi, intertestualità, funzioni, ma di sguardo, dialogo, scontro, collaborazione, co-implicazione, perché il fototesto è un organismo i cui elementi andranno considerati nelle vicendevoli relazioni».[18] In questo senso, l’organicità dell’opera fototestuale di Cutrufelli si inserisce nell’intuizione di adottare le immagini di Giudice entro una dimensione narrativa e testimoniale di affezione reciproca, in cui ciascun elemento diegetico esercita un’influenza sull’altro, con un effetto complessivo di piano dialogico continuo, poroso, rizomatico. I legami di affetto tra la madre e la figlia, così come tra le due amiche di un tempo, sono al cuore di questo progetto, e le fotografie sono lì a testimoniarlo.
A riprova del coinvolgimento emotivo e personale, il racconto di Cutrufelli si affolla di momenti di autoriflessività in cui la voce narrante si ferma e soppesa, aprendo volentieri alla soggettività plurale di quel ‘noi’ radicato nella letteratura di matrice femminista, entro cui emerge il ‘voi’ di chi legge e scopre la figura di una donna recuperata da un passato obliato, marginale: «Il popolo del libro sa per esperienza che l’istruzione è il più sicuro degli investimenti. […] E questo, a pensarci bene, vale pure per le donne. Pure per noi la cultura è stata la prima forma di emancipazione o, se preferite, una vita di fuga dalla subalternità. Ma evadere non è mai facile…».[19] Si tracciano poi numerosi fili invisibili e analogie tra la vita della narratrice partecipe Maria Rosa e il percorso della «incomparabile donna Maria, intelligente più di un uomo», come usa sempre definirla lo zio di Goliarda, Nunzio, in Lettera aperta.[20]
Uno di questi fili è la pratica di scrittura di Giudice, sviluppata in parallelo all’attivismo politico; pur muovendosi in un contesto che certo non favoriva l’autonomia intellettuale femminile, ancora giovane maestra a Voghera e appena iscrittasi al Partito Socialista, Giudice collaborò e redisse giornali e riviste storiche. Basti menzionare i periodici ‘Su compagne!’ e ‘La parola dei lavoratori’, la rivista fondata dall’esule ucraina Anna Kuliscioff ‘La difesa delle lavoratrici’, o ancora ‘La donna che piange’, appendice femminista de ‘L’uomo che ride’, diretto da Ernesto Majocchi.[21] Per descrivere l’impegno di Maria, già animata da mille interessi e ambizioni nonostante la giovane età, Cutrufelli adotta la narrativizzazione di foto d’epoca, accompagnate da stralci degli articoli firmati dalla sindacalista in erba. Soprattutto, ai suoi occhi di narratrice, l’ekphrasis del corpo di Maria ribelle e determinata diventa funzionale a stabilire la tensione tra dato documentale e pathos narrativo:
Due uomini stanno con i pugni poggiati sui fianchi, come a chiedersi: e ora? Una donna, di spalle, ha le mani che si alzano in un gesto d’impotenza. Sulla strada davanti a loro, tre passanti in bicicletta e la lunga tonaca di un prete. Nel mezzo, a spartire i gruppi, una figura femminile semisdraiata sul selciato. A differenza degli altri, è tutta vestita di bianco. […] È lei, naturalmente. Maria che oppone resistenza passiva all’arresto: una forma di protesta usata spesso durante gli scioperi e le manifestazioni.[22]
Lo statuto costantemente fuori fuoco di Giudice viene evidenziato dall’accento posto sulla fotografia che, come dichiara Cutrufelli in un’intervista, non è stata inserita per ragioni di qualità di stampa e di scelte editoriali.[23] Eppure, man mano che il racconto si addentra nella vita di Maria giovane innamorata di Carlo Civardi, poi madre dei suoi sette figli e in seguito esule in Svizzera (ospite di Angelica Balabanoff), si comprende come lo stile narrativo medesimo si pieghi favorevolmente a una scrittura figurativa, ricca di suggestioni e momenti episodici. Si può allora pensare come il dispositivo fotografico abbia assunto una funzione di trigger del racconto, senza però farsi del tutto fagocitare da esso. L’ekphrasis si trova infatti in una porzione di testo staccata da brevi spazi bianchi: la sua è una funzione introduttiva del racconto, che poi si scioglie liberamente, dando luogo a congetture narrative nel tipico stile dell’autrice, la cui voce rilegge e interpreta stralci degli articoli di Maria alternandoli alla progressione diegetica vera e propria. Ciò che sta al cuore della narrazione è il desiderio di cogliere la vita dell’altra, di raccontarne le anomalie e l’estraneità al proprio tempo:
Insomma, una ragione c’è se Maria detesta il matrimonio. Il suo rifiuto non è frutto di un condizionamento ideologico o l’ulteriore conferma di una personale stravaganza. A me sembra piuttosto un’autodifesa. Una prova di pragmatismo. Ma non tutti la pensano alla mia stessa maniera, tant’è che questa fama di eccentrica la seguirà lungo l’intero corso della sua vita e oltre. […] Una protagonista di spicco della storia dal basso, d’accordo, ma cos’è mai questa storia dal basso? Una storia minore e quindi eccentrica per definizione. Cioè distante dal centro, etimologicamente parlando.[24]
Se, da un lato, il racconto mette in luce la forza e la fragilità di Maria in un dispositivo dinamico di immagini e parole, dall’altro esso serve a espletare una serie di funzioni metanarrative che gettano luce a posteriori sull’opera di Cutrufelli nel suo complesso, da La briganta in poi.[25] L’autrice conferma apertamente che l’intento del racconto non è mai didascalico, né esaustivo, ma piuttosto teso a svilupparsi mentre ci si trova di fronte a diverse lacune, «a precipizi che ti danno le vertigini o a piccole domande moleste, simili a strappi che vorresti ricucire con l’ago della fantasia. Ma poi ti accorgi che la domanda è più affascinante di ogni possibile risposta, e allora rinunci all’ago».[26] Non importa, dunque, stabilire se Giudice sia stata realmente una proto-femminista, o enucleare le ragioni della sua «ingordigia di maternità».[27] Nello spazio del racconto fototestuale di Cutrufelli si ritrovano così «i se e i ma» delle aporie documentarie, una dimensione già sperimentata altrove dalla scrittrice e ben esplicitata da altre sue conterranee, come la calatina Maria Attanasio, anche lei autrice di romanzi storici in cui le donne sono spesso al centro del racconto.[28]
Ritrarre Maria Giudice a partire dalle immagini produce, nel testo di Cutrufelli, un dinamismo che non si limita a rielaborare un ricordo contingente nel tempo e nello spazio, magari eccedendo l’intenzione di chi ha scattato la fotografia. Rispetto a questa prospettiva barthesiana, l’accesso a una realtà che si presenta tanto stratificata quanto incompleta avviene, come si è visto in precedenza, grazie al fatto che ciascuna immagine espleta il proprio significato spingendosi oltre l’originale funzione retorica del ‘mostramento’, ma piuttosto accentuando la propria soggettività incarnata, in-generata, riacquistata grazie all’immagine. Questo aspetto pertiene dunque all’esperienza specifica di una postura femminista che opera un autentico reframing visivo e testuale nei confronti della biografia, così sottratta a un’ideologia dominante.[29] L’operazione biografica di Cutrufelli appare allora come un’entità porosa, ricca di domande lasciate in sospeso, tesa al recupero e alla manipolazione narrativa dei pezzi di vita di Giudice, le cui foto ritrovano una forma animata grazie alle parole del commento testuale. Così ci appare sotto una luce inusitata e preziosa l’ekphrasis del ritratto a busto intero di Carlo Civardi, «dall’espressione fiera e insieme malinconica, in uniforme da ufficiale».[30] La foto serve a colmare il vuoto delle lettere inviate da Maria a Carlo durante la Prima Guerra Mondiale, quando già le loro differenze di vedute si rendevano evidenti e dolorose. Già prima del 1914 il tenente Civardi si stava allontanando dal socialismo per abbracciare l’ideologia interventista e poi fascista; sarebbe morto in zona di guerra nel 1917, lasciando Maria con sette figli, dichiarati orfani per via dell’assenza di un matrimonio tra i genitori. Sottoporre a ulteriore verifica documentale le tracce storiografiche sparse che Cutrufelli seleziona e assembla non avrebbe molto senso; esse perdono qualsiasi funzione epistemologica, a favore di un racconto genuinamente ibridato. In queste pagine Cutrufelli ritrova piuttosto i toni e le atmosfere vivaci del romanzo D’amore e d’odio, descrivendo la vita di Maria a Torino, il ribollire delle idee dentro le redazioni dei giornali e per le strade, gli scioperi, le lotte per il pacifismo e il disarmo, nonché gli incontri fondamentali (come quello con il giovane Antonio Gramsci, che l’avrebbe difesa durante il processo nel 1919, decisamente contrapposto al tetro Benito Mussolini conosciuto e disprezzato ancora durante l’esilio svizzero).
3. Una narrazione di maternità
Il punto forse più organicamente completo di questa strategia affabulatoria è l’inserimento in filigrana del tema della maternità, decisivo per la conclusione. Questa è dedicata soprattutto al recupero testuale del nome e del corpo di Goliarda nel racconto della madre. Se, alla morte di Carlo, Maria non merita alcuna menzione da parte delle autorità, né il riconoscimento dello statuto di vedova di guerra, la sua sparizione come madre viene controbilanciata dall’ekphrasis della ‘Foto numero cinque’, che ritrae Maria insieme ai figli:
Lo spazio è tutto, in una fotografia.
È l’assetto dello spazio, la sua ripartizione, a raccontarci la storia che vogliamo sentire.
In questa fotografia c’è lei, la madre, che occupa il centro del palcoscenico. I figli, in piedi o a gambe incrociate per terra, le fanno da contorno disegnando un’orbita quasi perfetta. Questa non è un’istantanea, ma un’immagine accuratamente composta, studiata. Un’icona che non stonerebbe dentro una cappella votiva. […] Un quadro religioso. […] Ed ecco allora cos’è questa foto: la versione profana di una Sacra famiglia.[31]
Affettuosa e partecipe, la descrizione rovescia e contraddice il processo delegittimante di cui Giudice è stata oggetto al momento della morte di Civardi, quando è avvenuta la sua ‘sparizione’ simbolica in quanto madre di Josina, Licia, Cosetta, Olga, José, Ivano e Danilo.
Questo rovesciamento avviene proprio grazie al recupero testuale della fotografia di famiglia, la cui funzione normalizzante viene sfidata in virtù della centralità inevitabile di Maria, madre ‘libera’ di sette figli fuori dal matrimonio.[32] Questa porzione di vita privata viene infatti consacrata – uso questo verbo non a caso – da un ritratto di parole che restituisce completezza all’esperienza storica e privata di una vita complessa, indefinibile entro ruoli fissi (‘sindacalista’, ‘moglie di…’, ‘madre di…’, ‘militante’ ecc.). Lo spazio verbale dedicato a questa foto coincide con una libertà sia mentale, sia generativa espressa da Maria nei confronti delle istituzioni borghesi o delle ideologie, inclusa quella socialista: sarà questa la caratteristica cruciale che la accomuna alla figlia Goliarda, una libertà che «significava il ripudio del matrimonio, inteso come contratto d’acquisto di una moglie, e la difesa della libertà per quanto concerne gli affetti umani […] Maria vuole essere madre, madre e ancora madre. È una sua scelta, afferma Vittorio Poma, e anch’io non ho molti dubbi a questo proposito».[33]
Con molte domande lasciate aperte sulla doppia passione di Giudice per i figli e per la politica, il libro si avvia a passo sempre più veloce verso la porzione di vita siciliana della sindacalista pavese. In questa parte del testo, la congiunzione simbolica tra il Nord di Maria Giudice e il Sud di Peppino Sapienza esercita la funzione di un omaggio trasfigurato alla stessa esperienza autobiografica di Maria Rosa Cutrufelli, nel cui Meridione letterario esiste da sempre una dimensione di alterità da reinventare a partire dallo sguardo estraniato e nomade di chi guarda al Sud da una posizione di distanza critica e consapevole.[34] Ma è soprattutto in questa densa e ultima parte che si esplicita maggiormente la prospettiva diegetica che attraversa l’intero testo di Cutrufelli, ovvero uno sguardo multiplo in cui gli occhi della narratrice-amica che immagina e mette insieme pezzi di vita non sono mai davvero separati da quelli di Goliarda stessa, che era partita dai dossier giudiziari dei genitori e dai loro ritratti per dedicarsi alle ricerche per il suo incompiuto Amore sotto il fascismo, come evoca in modo struggente in vari passi dei suoi Taccuini.[35] Il bisogno di rispecchiamento nei confronti della vita di Maria Giudice attraversa in maniera profonda, totale, il progetto di romanzo in cui «dovrà – forse – intravvedersi una figlia Goliarda, ma solo nella tessitura di fondo – molto di fondo – della trama delle sue avventure».[36] Ricordiamo che, all’altezza dei primi anni Novanta (ossia quando, in base ai Taccuini, Goliarda inizia a recarsi all’Archivio di Stato per fare ricerche sui suoi genitori), L’arte della gioia è stato già completato, rivisto e ha già subìto numerosissimi rifiuti. Se una Maria Giudice trasfigurata è già ben presente sotto la pelle della protagonista Modesta, con la sua esistenza ‘eccedente’ (i molti figli, la politica, la fluidità sessuale, il coraggio e la sete di libertà), dal diario di Goliarda si comprende un desiderio di esaustività nel ripercorrere la vita dei genitori affondando mani e occhi nei documenti che li riguardano. Sono proprio i ritratti apposti ai dossier giudiziari ritrovati a sconvolgerla:
Devo farlo, l’ho detto e ridetto anche in questi fogli e per questo mi sono sobbarcata lo strazio di rivoltare la sua tomba cartacea là, in quel dell’Archivio di Stato: quella fotografia sulla sua cartella, o lapide. È noto, mai ricordiamo i nostri morti attraverso un dipinto o un ritratto preso da un fotografo, ma vederla là, afferrata dal fotografo giudiziario e sbattuta su un negativo feroce di captività… Sia lei che mio padre presi e consegnati alla storia nudi, quasi costretti a sembrare gli assassini che il fotografo giudiziario voleva essi fossero. Terribile, ma almeno questo primo passo di obiettività verso le loro storie è stato fatto. (…) Devo onorare i morti, seppellirli con decoro, e cantarli, perché anche loro abbiano ancora qualche attimo di terrestrità prima di scendere, o salire a mangiare nel silenzio armonioso del Nulla-Tutto del Creato.[37]
Rileggendo i riferimenti al progetto letterario mai finito di Goliarda, si comprende ancora maggiormente il senso simbolico di riparazione del lavoro di Cutrufelli, la cui voce e i cui occhi si muovono nella direzione di quel monito che Goliarda aveva imposto a sé stessa, ovvero ‘onorare i morti’. È come se, idealmente, le due amiche, sedute l’una accanto all’altra, avessero ri-visto – nel senso della ‘re-visione’ di Adrienne Rich – le fotografie di Maria Giudice per poi tessere un racconto capace di ricoprire amorevolmente quella nudità cruda alla quale la Storia ufficiale l’aveva consegnata, insieme al compagno siciliano.
Gli ultimi due capitoli del testo sono dedicati al periodo siciliano di Maria Giudice e alla breve e intensa felicità accanto a Peppino e ai figli riuniti, poco prima che il fascismo costringa la madre della piccola Goliarda a rischiare continui arresti e il frequente allontanamento dalla vita pubblica (a causa del regime, Giudice non poteva nemmeno insegnare nelle scuole perché considerata sovversiva). La Sicilia è inframmezzata da Roma, dove la giovane Goliarda va a studiare recitazione, accompagnata dalla madre; se questa sezione viene introdotta dall’ultima fotografia che ritrae solo Peppino e Goliarda, una ben più pervasiva immagine di Maria si distende in chiave testuale attraverso numerosissimi riferimenti alle carte della ‘Samaritana’ (come gli affezionati contadini e sindacalisti siciliani soprannominavano Maria Giudice). L’innesto di Goliarda consente a Cutrufelli di riconnettere idealmente le parole dei Taccuini a quelle di Giudice, tracciando un percorso affettivo in cui il tema della maternità – notoriamente al centro della poetica di Sapienza – si arricchisce con l’aggiunta della voce in prima persona di sua madre nel racconto biografico: «Oh, io mi vergogno di essere una madre felice. Oh, io mi adiro con tutte le madri felici. E dico che è una maternità sorda e cieca, questa, che pensa, s’affanna e provvede soltanto alla propria creatura…E torno a casa e bacio la mia piccola bambina e tremo d’angoscia perché penso che non ho il diritto di essere una madre felice».[38] La strumentalità delle immagini rispetto al testo diventa palese nel precipitare verso la fine, in cui si descrive come Maria morirà a Roma, a casa di Goliarda e Citto Maselli, con i quali viveva. Inglobate tutte le fonti e i frammenti possibili, la ritrattista di Goliarda e Maria rimane, più che mai, l’amica-testimone Maria Rosa, capace di visualizzare una madre e una figlia ricongiunte nelle parole.
1 A. Cambria, Nove dimissioni e mezzo: le guerre quotidiane di una giornalista ribelle, Roma, Donzelli, 2010, p. 269.
2 Ibidem.
3 M.R. Cutrufelli, Maria Giudice. La leonessa del socialismo, Roma, Giulio Perrone Editore, 2022, p. 9.
4 Ibidem.
5 Ivi, pp. 9-10.
6 Il testo redatto dal collettivo di scrittrici uscì con il titolo La guerra, il cuore e la parola, Siracusa, Ombra Editrice, 1991.
7 M.R. Cutrufelli, Maria Giudice, p. 12.
8 M.R. Cutrufelli, D’amore e d’odio, Milano, Frassinelli, 2008, p. 135.
9 G. Sapienza, La mia parte di gioia. Taccuini 1989-1992, Milano, Einaudi, 2013, pp. 25-26, e-book.
10 G. Providenti, Goliarda Sapienza. La porta della gioia, Roma, Nova Delphi, 2016, p. 33.
11 M.R. Cutrufelli, Maria Giudice, pp. 88-89 (corsivo dell’autrice).
12 Ivi, p. 113.
13 Ivi, p. 13.
14 Ivi, p. 14.
15 A. Rich, ‘Quando noi morti ci destiamo: la scrittura come revisione’, in A. Rich, Segreti silenzi bugie. Il mondo comune delle donne, Milano, La Tartaruga, 1985, p. 25.
16 M.R. Cutrufelli, Maria Giudice, pp. 17-18.
17 M. Cometa, ‘Fototesti. Per una tipologia dell’iconotesto in letteratura’, in V. Del Marco, I. Pezzini (a cura di), La fotografia. Oggetto teorico e pratica sociale, Roma, Edizioni Nuova Cultura, 2011, pp. 63-101. Il significato che si spinge oltre la funzione indessicale della fotografia riporta naturalmente a Barthes e allo spostamento del punctum descritto ne La camera chiara (1980). Ringrazio la cara amica e rinomata studiosa di G. Sapienza, Katrin Wehling-Giorgi (Durham University), per questo suggerimento prezioso.
18 G. Carrara, Storie a vista. Retorica e poetiche del fototesto, Milano, Mimesis, 2020, e-book.
19 M. R. Cutrufelli, Maria Giudice, p. 19.
20 G. Sapienza, Lettera aperta, Milano, Einaudi, 2017, p. 27.
21 Nei decenni successivi, sarebbe stata anche autrice di testi poetici e teatrali, evento che stabilisce la relazione con la figlia Goliarda. Cfr. A. Trevisan, ‘La “voce” di Maria Giudice tra giornalismo e letteratura’, in D. Cerrato, A. Schembari, S. Velázquez García (a cura di), Querelle des Femmes. Male and Female Voices in Italy and Europe, Szczecin, Volumina, 2018, pp. 161-172.
22 M.R. Cutrufelli, Maria Giudice, p. 39.
23 M. Maugeri, ‘Maria Rosa Cutrufelli con Maria Giudice (Perrone) in radio a Letteratitudine’, <https://www.letteratitudine.it/maria-rosa-cutrufelli-maria-giudice/> [ultimo accesso 7 aprile 2022]
24 M.R. Cutrufelli, Maria Giudice, p. 43.
25 Anche in quel caso, le fotografie di briganti e brigante scovate da archivi storici dimenticati erano servite a stimolare l’immaginazione di una narratrice che si era, sino alla fine degli anni Ottanta, dedicata alla saggistica d’impegno, in particolare dedita al nodo donne/Sud. È nel fatidico anno 1990 che Cutrufelli infatti esordisce con il racconto storico di Margherita, ribelle meridionale che si traveste da uomo per combattere tra le file dei briganti di Carmine Crocco; sempre nello stesso periodo, la vena narrativa andrà a riverberare in un’intensa attività editoriale con la fondazione della rivista Tuttestorie (1990-2001).
26 Ivi, p. 52.
27 Ivi, p. 87.
28 S. Todesco, Tracce a margine. Scritture a firma femminile nella narrativa storica siciliana contemporanea, Patti-Gioiosa Marea, Pungitopo, 2017, pp. 360-372.
29 Cfr. L. Stanley, The Auto/biographical I: The Theory and Practice of Feminist Auto/biography, Manchester-New York, Manchester University Press, 1992, pp. 20-55.
30 M.R. Cutrufelli, Maria Giudice, p. 62.
31 Ivi, pp. 84-85.
32 Cfr. A. V. Bliss, ‘Share Moments, Share Life: The Domestic Photograph as a Symbol of Disruption and Trauma in “The Lovely Bones”’, Women’s Studies: An inter-disciplinary journal, 37, 7 (2008), pp. 861-884. Devo questo riferimento sempre alla Katrin Wehling-Giorgi.
33 M.R. Cutrufelli, Maria Giudice, pp. 86-87.
34 La vita di Maria Giudice è talmente generosa da consentire alla sua narratrice-biografa di inserirsi direttamente, proprio nel passaggio testuale che adotta l’ekphrasis di un ritratto dell’avvocato Sapienza per raccontare i vent’anni siciliani di Maria (‘Foto numero sei. Peppino Sapienza, l’avvocato dei poveri’). Nel chiedersi come Maria sia giunta fino in Sicilia (in aereo o in nave), Cutrufelli si concede un excursus autobiografico in cui descrive i viaggi in treno e le traversate lungo lo Stretto di Messina o fino al porto di Palermo quando, ancora bambina, abitava a Bologna.
35 Ad esempio vedasi G. Sapienza, La mia parte di gioia. Taccuini 1989-1992, p. 74, e-book.
36 Ivi, p. 77.
37 Ivi, p. 77 (corsivo mio).
38 Ivi, p. 112.