Quadro

di

     

Ma la bella pittura deve essere piatta, come voleva Degas (che la faceva); e la piattezza è divina – cioè peculiare alla pittura, essenza, necessità ineffabilità – come commentava Valéry (che se ne intendeva). E qui vien fatto di dire che la parola «tableau» rende meglio, a connaturare la pittura alla piattezza, della parola «quadro»: quasi che allo «empâtement» sia impossibile sfuggire di fronte a una tavola, mentre è possibile attraversare un quadro, che è poi un perimetro, una cornice.

L. Sciascia, Presentazione a P. Guccione, Catalogo della mostra (1973-1974)

Negli scritti sulla pittura, la scultura o il disegno, rare volte Sciascia interviene nel merito dello statuto delle arti, preferendo alle vesti del critico quelle di un uomo che con altri mezzi si adopera a rappresentare la realtà. Tuttavia, anche se raramente, in alcune delle note dedicate agli amici, è chiara l’intenzione di un approccio ‘estetico’, e in tali occasioni i punti di riferimento sono Alain, Diderot, Baudelaire, ma anche Savinio e Degas, chiamati a suffragare le sue riflessioni. Spesso le pagine teoriche scaturiscono dalla visione di opere che lo colpiscono particolarmente. È quel che accade di fronte ai dipinti di Piero Guccione; proprio in uno scritto destinato ad accompagnare una sua mostra Sciascia utilizza il termine «quadro» e così il primo incontro con le tele dell’artista di Scicli induce lo scrittore a riflettere sull’essenza stessa della «bella pittura che deve essere piatta, come voleva Degas». Riga dopo riga, il discorso si fa estremamente complesso, e riflessione estetica e letteratura sembrano tenersi per mano. Nella prospettiva di Sciascia il miglior supporto per raggiungere la piattezza (carattere che rende divina la pittura) è la tavola, volutamente distinta dal quadro che invece chiude il dipinto dentro una cornice.

Di quadri lo scrittore ne ammira tanti durante la sua vita, molti li colleziona, poiché solo guardandoli trova un rimedio per gli affanni giornalieri; molti li dissemina qua e là tra le pagine dei suoi romanzi, quasi come chiavi di volta per aprire i suoi gialli. Sciascia però rifiuta le cornici o i perimetri chiusi, preferisce fare in modo che il suo occhio penetri dentro il quadro o scardini la cornice di un romanzo. Per questo è proprio nelle tavole ‘piatte’, e il più delle volte prive di figure, dipinte da Guccione, nel particolare modo in cui egli impasta i colori e li sovrappone insieme, che lo scrittore scorge l’essenza della pittura. I suoi tableaux spalmati di azzurro permettono la fuga dai sensi e perfino Sciascia, che non ama particolarmente il mare, quando si sofferma dinanzi a quelle tele si perde nell’azzurro «che eternamente ricomincia», per dirla con Valéry, e si ritrova immerso in un colore che Mallarmè (poeta citato proprio in quest’occasione) invocava come fine delle sensazioni.