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A partire dalla celeberrima quartina sulla fotografia di Paul Valéry (1924), in cui il pensatore francese si interroga sull’ambiguità del ritratto fotografico quale strumento per determinare la reale personalità del soggetto rappresentato, il contributo analizza il ruolo che il rapporto tra volto e la sua rappresentazione fotografica svolge per la costituzione dell’identità. Infatti la difficoltà (sino quasi all’impossibilità) di riconoscersi nel ritratto fotografico, notata dal pensatore francese, dipende dalla inesauribilità dell’io che caratterizza radicalmente l’uomo: il ritratto fotografico non fa altro che manifestare in maniera efficace la situazione di alterità che ogni narrazione autobiografica necessariamente produce. Ripercorrendo la riflessione di Valéry sul tema del ritratto fotografico e sulla natura plurale dell’io, il contributo evidenzia il ruolo che svolge la fotografia nella determinazione della soggettività: tra sguardo e rappresentazione identitaria infatti si gioca la possibilità di narrare il proprio io e di giungere a una sua comprensione superando, senza tuttavia annullarlo, l’ineliminabile scarto tra immagine, parola e realtà, e sfruttando così sino in fondo il potere della fotografia.

In the Quatrain on Photography (1924) Paul Valéry reflects on ambiguity of the photographic portrait and on its power to determine subjectivity. This paper examines how the photographic portrait can define the self: it shows the situation of otherness that every autobiographical narration produces. Valéry’s reflection is useful to understand how photography can show the gap among image, word and reality between gaze and self-representation.

 

 

Tutta la filosofia e la scrittura di Paul Valéry sono leggibili sotto il segno della ricerca dell’io al fine di comprenderne e dispiegarne le potenzialità attraverso una serie di ‘esercizi’: esse sono un laboratorio, una palestra, un continuo addestramento dell’io che si svolge attraverso l’universo dei Cahiers, l’attività poetica e la riflessione su di essa e gli innumerevoli scritti d’occasione che compongono il corpus vivo della riflessione di Valéry.

Questa scepsi ha luogo per mezzo di strumenti che pongono l’io e le sue raffigurazioni faccia a faccia con il pensatore stesso: i Cahiers innanzitutto ma anche l’immagine, in prima istanza quella riflessa dallo specchio, ma subito dopo anche il ritratto fotografico. L’immagine fotografica infatti rispetto a quella dello specchio ha una dimensione sociale ed è concreta manifestazione dell’io come altro da sé, come tentativo di oggettivizzazione della soggettività, come tentativo di messa in forma ‘oggettiva’, chiara e condivisa, dell’io.

Il ritratto fotografico, l’immagine del volto – il volto è ciò che ci definisce e ci identifica ma al contempo è escluso dalla nostra vista se non attraverso l’artificio del ritratto o di uno specchio – è necessariamente sotto il segno dell’ambiguità e ha sempre dato luogo a fondamentali riflessioni sia per la definizione dell’io stesso sia per la comprensione del ruolo e della funzione che la fotografia svolge.

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Quadro

di

     

Ma la bella pittura deve essere piatta, come voleva Degas (che la faceva); e la piattezza è divina – cioè peculiare alla pittura, essenza, necessità ineffabilità – come commentava Valéry (che se ne intendeva). E qui vien fatto di dire che la parola «tableau» rende meglio, a connaturare la pittura alla piattezza, della parola «quadro»: quasi che allo «empâtement» sia impossibile sfuggire di fronte a una tavola, mentre è possibile attraversare un quadro, che è poi un perimetro, una cornice.

L. Sciascia, Presentazione a P. Guccione, Catalogo della mostra (1973-1974)

Negli scritti sulla pittura, la scultura o il disegno, rare volte Sciascia interviene nel merito dello statuto delle arti, preferendo alle vesti del critico quelle di un uomo che con altri mezzi si adopera a rappresentare la realtà. Tuttavia, anche se raramente, in alcune delle note dedicate agli amici, è chiara l’intenzione di un approccio ‘estetico’, e in tali occasioni i punti di riferimento sono Alain, Diderot, Baudelaire, ma anche Savinio e Degas, chiamati a suffragare le sue riflessioni. Spesso le pagine teoriche scaturiscono dalla visione di opere che lo colpiscono particolarmente. È quel che accade di fronte ai dipinti di Piero Guccione; proprio in uno scritto destinato ad accompagnare una sua mostra Sciascia utilizza il termine «quadro» e così il primo incontro con le tele dell’artista di Scicli induce lo scrittore a riflettere sull’essenza stessa della «bella pittura che deve essere piatta, come voleva Degas». Riga dopo riga, il discorso si fa estremamente complesso, e riflessione estetica e letteratura sembrano tenersi per mano. Nella prospettiva di Sciascia il miglior supporto per raggiungere la piattezza (carattere che rende divina la pittura) è la tavola, volutamente distinta dal quadro che invece chiude il dipinto dentro una cornice.

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