Spazi, scene, visioni: la regia lirica per Emma Dante*

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Nel teatro di Emma Dante i suoi «individui scenici», abitano uno spazio completamente vuoto, privo (o quasi) di scenografia, con pochi oggetti evocativi a disposizione. Diverso è il caso quando la stessa Dante deve misurarsi con l’opera lirica che si confronta con uno spazio scenico molto grande, con cantanti e masse di coristi e con libretti che riportano precise indicazioni. La collaborazione, a partire dal 2010, con Carmine Maringola, attore, architetto e compagno di vita, ha consentito a Dante di lavorare su un’idea di spazio scenico sempre più prossimo a un luogo delle visioni, ispirato a scorci reali ma aperto alla fusione di suoni, corpi, animalità, tragico e comico.

In Emma Dante’s theatre, her «scenic individuals» inhabit a completely empty space, with no (or almost no) set design and few evocative objects at their disposal. The case is different when Dante herself has to measure herself against opera, which is confronted with a very large stage space, with singers and masses of choristers and with librettos that contain precise indications. Since 2010, the collaboration with Carmine Maringola, actor, architect and life companion, has enabled Dante to work on an idea of stage space that is increasingly closer to a place of visions, inspired by real views but open to the fusion of sounds, bodies, animality, tragedy and comedy.

Il fenomeno di mediatizzazione del teatro[1] è uno dei processi più ambigui e interessanti da mappare per le tante contraddizioni che si sono succedute a partire almeno dalla svolta delle avanguardie storiche e che insistono ancora nel presente, se si pensa che la scena contemporanea da una parte rimane salda nella sua opposizione rispetto ai media, mentre dall’altra si caratterizza come contesto di sviluppo delle arti multimediali.

In questo contesto, Emma Dante ha pervicacemente difeso il suo essere «artigiana», continuando a impiegare tutti quegli «strumenti essenziali»[2] – compresi i ‘relitti’ di kantoriana memoria – capaci di aprire la scatola magica del teatro per mostrare allo spettatore la quintessenza di uno spazio in grado di evocare lo stupore dello sguardo. Quello di Dante è fin dagli esordi un teatro in cui le relazioni spaziali mutano in una «dialettica del fuori e del dentro, lacerante».[3] Questa spirale del dentro-fuori, della scena-sala, della ribalta-soglia, invalicabile dagli astanti (da mPalermu a Le sorelle Macaluso), rappresenta la circolarità dell’essere in tutte le sue forme; un essere entre-ouvert che qui tradurremo con ‘socchiuso’, formula che rimanda a un binomio strutturale nel quale troviamo tutti gli elementi del rapporto con il circostante e quindi con l’identità del sé.

«Chiuso nell’essere» – dice Bachelard – «bisognerà sempre che ne esca, appena uscito dall’essere, bisognerà sempre rientrarvi. In tal modo nell’essere, tutto è circuito, tutto è rigiro, tutto è ritorno, discorso, tutto è uno sgranarsi di soggiorni, tutto è ritornello di strofe senza fine».[4] Gli spettacoli di Dante, fin da mPalermu, sembrano obbedire a questa logica, assecondando una sensazione claustrofobica: manifestano sempre una suggestione opprimente di chiusura, quasi senza via di uscita, anche se non smettono di tendere verso un ‘altrove’. I suoi individui scenici si muovono in uno spazio in cui non ci sono porte o finestre, in cui non ci sono quinte, e la ragione di tale scelta è spiegata dalla stessa regista: «se non metti nessuna quinta […] abolisci il problema del dietro, del davanti, dei lati. E quindi ti trovi inevitabilmente in un “altrove”: sei in un altro posto e questo altro posto non ha porte e non ha finestre, e non ha tetti e non ha pavimentazione. Lo puoi fare diventare quel che vuoi».[5] L’astrazione letterale e simbolica degli ambienti è un segno ricorrente delle regie di Dante, come attestato anche dai più recenti spettacoli di prosa, Misericordia (2020) e Pupo di zucchero (2021); quel che deve e può accadere «sa di poter esistere solo su un palcoscenico spoglio»,[6] di poter tendere alla scena vuota. Il boccascena, reso invalicabile da una stretta lingua di luce (si pensi a Bestie di scena e alla collaborazione ventennale con Cristian Zuccaro i cui impianti illuminotecnici diventano in filigrana l’intelaiatura di una scenografia ‘trasparente’), spinge gli interpreti, soli o in schiera, a creare quel vis-à-vis con lo spettatore che Dante ha saputo muovere verso punte di grande intensità. Ne deriva un impianto frontale in cui i personaggi si rivolgono a ciò che hanno davanti a sé, alla platea, anche quando le dinamiche che regolano i loro rapporti si fanno più intense o concitate, come se fossero prigionieri di una relazione con un aldilà scenico. In ogni caso l’invisibilità delle strutture viene superata dalle traiettorie degli interpreti, dal ‘farsi corpo’ delle parole, dalla scarna materialità di oggetti-feticcio che insieme costituiscono una vera e propria «scenografia degli organismi»,[7] secondo l’icastica definizione di Rodolfo di Giammarco.

Le dinamiche compositive cambiano, e si complicano, quando la regista migra verso l’opera lirica,[8] che per statuto si confronta con ampi spazi, con cantanti e masse di coristi e con libretti che riportano precise indicazioni didascaliche. Con il suo personale tocco Dante ha sicuramente contribuito ad accrescere «l’entropia del sistema operistico»[9] teorizzata da Guccini, che, entrando a sua volta in relazione con le «entropie del mondo contemporaneo»,[10] non sottrae il teatro lirico a un processo eclettico di costante trasformazione.

Tra le «strade interpretative potenzialmente percorribili da un regista che voglia mettere in scena un’opera lirica»,[11] quella che potremmo affiancare a Dante sarebbe la stessa prediletta da Strehler, ovvero quella dell’«interpretazione dello spirito»,[12] intesa come la riproposta della verità sostanziale dell’opera nel tempo, in sintonia con i cambiamenti di epoche e stili. Per Strehler d’altro canto l’opera lirica «si rivela un gioco di compromessi tra musica e parola, tra possibilità reali degli interpreti e spazi che talvolta non hanno quasi riferimenti se non esteriori con il lavoro critico del teatro drammatico».[13]

Le regie musicali di Dante ci sembra che ben si collochino lungo il solco tracciato dal regista milanese che per primo aveva rotto gli schemi desueti delle consuetudini degli allestimenti d’opera sostenendo la necessità di una recitazione che abbandonasse la staticità dei cantanti e la presenza di un apparato scenografico e costumistico originale, che entrasse in dialogo con la partitura da rappresentare. Dante arriva alle regie liriche costruendo le tappe in un tempo lungo (solitamente un anno), fatto di riflessioni e ripensamenti sulle scelte artistiche a partire da un inventario esistente fondato sui corpi, sui riempimenti spaziali e temporali della scena, e sull’ascolto della musica («se riesci a stare dentro al dialogo che la musica ti propone, la regia è fatta»[14]), che anche per Strehler era il «passe-partout» in grado di consentire «di accedere alla comprensione del testo».[15] Il suo avvicinarsi all’opera nasce dall’esigenza di rapportarsi alla musica, attraverso quegli elementi che sono propri alla scena, senza tuttavia passare dalla mediazione librettistica («trovo i libretti delle opere abbastanza improbabili. Sono spesso dei pretesti per il canto. Facendomi guidare dalla musica provo a reinterpretare la storia, cercando di sfuggire a passaggi a volte grotteschi della storia»),[16] anzi, sostituendo quest’ultimi con una narrazione di secondo grado (un libretto non scritto), ispirata a particolari cifre estetiche e a riletture interpretative svolte nel solco di una regia critica.

 

1. Una scena per due

Dante non ha mai amato parlare di scenografie in sé a cui addirittura preferisce il lemma ‘scena’, parola forse più visionaria ma legata a quel carattere di autenticità che l’artista privilegia rispetto a un termine di origine classica e finzionale; per lei vale piuttosto l’idea di uno spazio in continua trasformazione, in cui oggetti poveri e spesso trouvé, si muovono come gli stessi attori, diventando a loro volta protagonisti. Tale approccio sarà sistematizzato e ampliato da Carmine Maringola, architetto di formazione, attore, nonché compagno di arte e di vita di Dante che, messosi in rapporto con le sue visioni registiche, a partire da La Muette de Portici del 2012 firma i successivi apparati scenici, in un work in progress ininterrotto che ha svelato conferme o nutrimenti per le rispettive poetiche ed estetiche.

Con Cani di bancata (2006) – spettacolo-ponte per il quale Dante chiede per la prima volta a Maringola di occuparsi delle ‘scene’– lo spazio performativo si dilata, si estende, risultando il frutto di contaminazioni, o vere e proprie ‘disambientazioni’. Complice il tema, l’aumento del numero di personaggi e artigianali macchine sceniche con valenza drammaturgica, che narrano e recitano, Maringola recupera la manualità e la artigianalità del teatro sette-ottocentesco dove carrucole e funi riconsegnano l’imperfezione della tradizione, denunciando la finzione, mai mimetizzata.[17] D’altronde Dante è avvezza nel suo teatro a ‘svelare’ l’ambiente, una consuetudine che senza troppe difficoltà trasla nel suo universo lirico. Lo spettatore viene invitato – fin dai primissimi istanti dello spettacolo – a vivere quell’«avventura dello sguardo» di cui ci parla Giorgio Vasta riferendosi a mPalermu e a Bestie di scena, ma più in generale a tutto il teatro dantiano.[18] Si osservi il Feuersnot con gli spettatori accolti, durante l’overture, dal sipario aperto durante il montaggio dello spettacolo, mentre nel golfo mistico si accordano gli strumenti con una scena che tende a farsi specchio deformante della sala. Maringola proietta in questo spettacolo non solo i caratteri identitari di un luogo, Palermo, città dalle mille anime tante volte raccontata da Dante, ma trasferisce in scena la Compagnia Sud Costa Occidentale: «siamo noi che entriamo a teatro, che attacchiamo luminarie tra le pareti e i pilastri del Massimo. Siamo noi […] che arrivati a Palermo ci sistemiamo in teatro per fare spettacoli con una scenografia simbolica calata dalla torre scenica».[19]

Dante e Maringola continuano a lavorare in tandem,[20] sperimentando in occasione delle regie liriche nuovi modi di elaborazione dello spazio scenico, sempre più prossimo a un luogo delle visioni, ispirato a scorci reali ma aperto alla fusione di suoni, corpi, animalità, tragico e comico. Maringola procede a ‘sentire’ lo spazio in una doppia veste, da architetto e attore; nel primo caso conta la qualità delle materie, l’organicità delle strutture e delle macchine, nel secondo la relazione dinamica con forme e pareti, la distanza fra uomini e cose. Dante, dalla sua, sviluppa una personale ‘tecnica della vita’ e va costruendo – anche per le regie liriche – uno «spazio gestuale»,[21] per dirla con Pavis, che è generato dalla ‘presenza’ e può essere plasmato e modificato. La regista all’interno dell’opera si muove sempre più a proprio agio e, pur dovendosi confrontare con altri riferimenti artistici e con i tanti paletti posti dalle produzioni liriche, è rimasta coerente alla sua identità. Nel costruire le sue scritture operistiche, infatti, non ha rinunciato all’autenticità immaginifica delle sue invenzioni e ha lasciato fermentare una pratica teatrale in cui l’apparato scenico nasce in sala prove grazie allo scambio tra gli attori, i cantanti e gli oggetti, essi stessi corpi recitanti.

Nell’universo registico dantiano l’opera lirica diventa allora il concentrato di tutte le sue riflessioni e scoperte al punto che i due repertori negli anni si sono contaminati, intrecciando segni e strutture simboliche. È così che bambole, tessuti, sedie, cripte, edicole votive – elementi e temi di ricerca che occupano un posto di rilievo nell’immaginario di Dante – attraversano entrambi i generi. In alcuni casi le citazioni e i richiami sono addirittura espliciti: si pensi alle configurazioni di sedie ‘degradanti’ utilizzate in Cani di bancata e rifunzionalizzate per il Macbeth (2017), che dettano un tracciato scenico imprescindibile, quasi una nuova forma di schiera (qui però all’ascesa di Mammasantissima si contrappone l’auto-imprigionarsi di Macbeth sul trono più alto). O ancora, il tessuto damascato utilizzato nella scena del bordello de Le Pulle (2010) torna a essere recuperato ne La Muette de Portici per rendere l’idea di essersi spostati da Portici a Napoli nel Palazzo Reale. Non si tratta di casi sporadici ma di una logica di sistema, che rende la co-creazione artistica di Dante e Maringola un caso decisamente interessante.

Un approccio così radicale ha permesso di modellare delle regie capaci di rifondare visivamente la narrazione musicale e di tracciare nuovi modi di partecipazione. La presunta ricerca di semplicità a cui tende Dante consente l’incontro tra i suoi attori e il pubblico e la costruzione di un legame che interroghi quest’ultimo sulla sua condizione di spettatore attivo. D’altra parte se i registi sono maestri di riconosciuto valore, le soluzioni da loro ideate «producono effetti durevoli sulla cultura e sulle attese dello spettatore».[22]

 

2. Vestire gli spazi

Fin qui si è cercato di individuare le coordinate del lavoro registico di Dante, a cavallo fra teatro di prosa e regia lirica. Adesso occorre recuperare, attraverso qualche esempio paradigmatico, la specifica declinazione di ambienti e soluzioni sceniche in rapporto a partiture operistiche per rendere più chiaro lo scarto rispetto ad altri stili contemporanei. Ciò che rende peculiare l’approccio di Dante all’opera è innanzitutto il legame con i cantanti, a cui la regista chiede un autentico sforzo di riposizionamento: «poi, finalmente, in sala prove, arrivano gli interpreti e quindi i personaggi. Credo che questa sia la tappa più importante del mio processo di creazione […] essi sono tutto, sono i riempimenti spaziali e temporali della scena».[23] Nel provare a spiegare loro l’interpretazione del testo e dunque la traiettoria di senso dello spettacolo Dante riesce ad attivare quell’integrazione fra persone fisiche e identità drammatiche che Verdi aveva auspicato e che ci riporta a uno dei quesiti proposti da Wolfgang Osthoff nel saggio intitolato L’opera d’arte e la sua riproduzione: un problema d’attualità per il teatro d’Opera, ovvero: che collegamento intercorre tra la musica e l’occupazione dello spazio scenico?[24]

Nel Coro Patria oppressa (atto IV) del Macbeth,[25] cantato a mezza voce dagli scozzesi affranti psicologicamente e fisicamente stremati, Dante mette in scena, in fila, ventidue cadaveri vestiti di nero (anche il coro è vestito di nero e sul fondo del palcoscenico lo si intravede appena), che lentamente vengono ricoperti, uno ad uno, da lenzuola bianche. È interessante notare come qui scelga nei sette minuti a disposizione di limitare qualsiasi azione fisica lasciando che a parlare sia l’evidenza dei cadaveri esposti. Come ci ricorda Massimo Fusillo, «la presenza corporea è dunque l’elemento propulsivo della regìa fin dal dettaglio».[26] Nell’economia registica del Macbeth Dante punta su una tensione fisica ininterrotta, che a tratti si scioglie o si scompone in movimenti acrobatici (si pensi alle due grandi scene dedicate alle streghe), ma in altri si frammenta in una varietà di micro gesti che anche il coro e i cantanti arrivano a padroneggiare. La dialettica fra tempo della musica e spazio dell’azione si risolve pertanto in un principio di reciproca convergenza e armonizzazione, non prive di strappi ma potentemente espressive.

Macbeth, regia Emma Dante, Teatro Massimo, Palermo, 2017

Anche per L’angelo di fuoco[27] Dante si trova a dirigere, nello spazio di Prokof’ev, una massa notevole (dodici cantanti, otto attrici e sette attori della Compagnia, 44 artiste e 8 artisti del Coro),[28] con soluzioni variegate che trovano un punto di equilibrio nella studiata geometria tra figure, sfondi e ritmi musicali. Basterebbe solo menzionare l’orgiastica scena finale del quinto atto che si svolge in un’architettura cimiteriale maestosamente simmetrica e opprimente, con il palcoscenico affollato da personaggi in cupo velluto rosso (suore quasi sepolte vive), che imprimono all’azione scenica una sensualità primordiale. La maestosità di tale composizione non può prescindere da una rinnovata disposizione dei cantanti, come rivela la stessa regista:

i cantanti, talora ingiustamente fatti oggetto d’un rigore dettato dagli schemi della convenzione del belcanto da fermi, sono ben predisposti a movimenti, ad articolazioni, e partecipano con serenità a una drammaturgia operistica che è da abitare, che ha richiami suggestivi già insiti nella musica e nel libretto, linguaggi da parte mia assolutamente non scalfibili ma affrontabili con la libertà espressiva che viene trasmessa da un capolavoro raro, che s’adotta non di frequente, senza alcun decalogo di incombenze.[29]

Dante concilia il metodo sviluppato nel teatro drammatico con le peculiarità dello spettacolo operistico e dei suoi interpreti (a cui affianca, come detto, gli attori della Compagnia Sud Costa Occidentale). Ciò aumenta l’intensità interpretativa dei cantanti, disposti a forzare i canoni esecutivi e consapevoli di una ritrovata mobilità gestuale e fisica. Per la regista risulta necessaria la conquista di un nuovo gesto attoriale, raggiungibile soltanto con un approfondito lavoro sul corpo, elemento primario della narrazione. Una strada, questa, già battuta da Strehler, che tentò a partire dagli anni Sessanta d’introdurre nel mondo dell’opera il metodo sviluppato nella prosa: «non basta che cantino bene, immobili con l’occhio sbarrato e che ti piacciano musicalmente. Io ho bisogno di animali teatrali, anche. Entro certi limiti, si intende. […] devono anche “recitare” e dare non solo suoni».[30]

La calibratura del gesto in rapporto alla dimensione spaziale è un elemento che Dante enfatizza grazie anche all’uso dei costumi firmati da Vanessa Sannino, collaboratrice fissa fin dal debutto con Carmen. Si pensi alle fogge ispirate al pop surrealism de La Cenerentola, in cui uno stuolo di epigoni della protagonista si muove con una chiave caricata a molla sulla schiena, come automi all’interno di un ampio salone di stampo neoclassico immaginato da Maringola: qui i movimenti meccanizzati ricalcano l’andare e venire di Cenerentola, secondo un singolare effetto di raddoppiamento e straniamento delle azioni fisiche. In Macbeth i costumi valgono a completare la scena: aderiscono all’impianto generale dell’allestimento, che proietta l’ambientazione in un tempo oltre la storia, ma senza rimuovere del tutto le insegne di un Medioevo ancestrale, fatto di armi, corazze e mantelli di pelliccia.

L’angelo di fuoco, regia di Emma Dante, Teatro dell’Opera, Roma, 2019, © Yasuko Kageyama

Ne L’angelo di fuoco il costume candido, quasi da ballet blanc ottocentesco, di Madiel’ – i costumi suggestivamente atemporali sono di Sannino – traduce in maniera originale il principio della verticalità aerea, lasciando che il personaggio volteggi con le gambe invece di volare. Renata è inizialmente vestita di rosa, come Rosalia Lombardo, la bimba palermitana imbalsamata la cui morte sembra sospesa per sempre. Anche l’orgia nel convento assume tratti d’insolito decorativismo, complice la preziosità dei sontuosi costumi scarlatti in grado di evocare sfarzosi tableaux vivants, che approderanno al rigore ascetico della scena dell’Assunzione: alla fine del quinto atto compare nella nicchia centrale un Cristo scheletrico con un viso di donna, ai piedi del quale Renata, giunta al martirio, s’inginocchierà; in sostituzione del rogo, invece, Renata assume le sembianze e la nera veste della Madonna dei Sette dolori, rinnovando l’incidenza del sacro nell’immaginario della regista.[31] L’angelo di fuoco è attraversato da una certa libertà espressiva, che si manifesta anche attraverso l’aggiunta di personaggi muti, non sempre previsti dal libretto, che hanno l’effetto di amplificare e rafforzare le atmosfere prevalentemente misteriose e inquietanti; o con la creazione, nel corso degli intervalli, di siparietti senza musica, compendi di gymnopédie in proscenio che, complice l’inventiva coreografica di Lo Sicco, si traducono in un ampliamento fisico della scenografia.

Dante, coadiuvata da Maringola, Sannino, Zuccaro e dagli attori e dalle attrici di Compagnia Sud Costa Occidentale, crea una serie di testi e mondi paralleli che si incrociano con quelli primari, ora potenziandone alcuni aspetti, come la commistione tra comico e tragico, grande costante della sua ricerca drammaturgica, ora rispondendo al suo personale gusto per l’autocitazione, mai fine a sé stesso ma necessario strumento di sublimazione e rafforzamento del senso.

 

3. Palermo dentro

Probabilmente il teatro di Dante nasce nel momento in cui comincia a inscenare il proprio ambiente, restituendo una speciale, quanto disorientante, «cartografia antropologica».[32] Palermo è doppiamente intrinseca alla sua imagery; lo è in senso materiale, basti pensare allo spazio della Vicaria, e lo è in senso simbolico, perché si pone come metafora concreta dell’esistenza umana e perfino del teatro stesso. Trasferendosi dalla prosa alla lirica, la sua riflessione sui caratteri identitari del luogo compie però un passo in più: concreta l’immaginario di una terra che non ha mai ricostruito nel dettaglio sulla scena, ma che ha lasciato sempre confinata al solo spazio del testo.[33]

L’immaginario lirico di Dante trae origine allora «da una concezione comune dei luoghi dell’anima»,[34] e così non può stupire il ricorso a simboli e segni che recuperano l’essenza di un Sud amato e deformato, secondo un procedimento che potremmo definire di ‘disambientazione’ perché la relazione con i territori e le forme ricostruite aspira ad essere più dinamica e inquieta, più dialogica e interrogante. L’atteso Les vêpres siciliennes vedrà Palermo, città in cui è ambientata la vicenda, trasformarsi in una via crucis attraverso il Mosaico della memoria, che riporterà i volti di 63 vittime di Cosa nostra con un impianto scenografico che partirà da piazza Pretoria. Lungi dal costituire un semplice ritorno a casa, lo spettacolo rappresenta un rischio per Dante: «sembrerebbe un vantaggio ma raccontare la mia città nel teatro della mia città è una sfida grandissima che mi mette un po’ in agitazione. Ma da palermitana cercherò di non raccontare una cartolina di quegli anni, semmai cercherò una reinterpretazione: la dominazione non sarà certo quella dei soldati francesi ma quella mafiosa».[35] Difficile ipotizzare con largo anticipo le soluzioni architettoniche e visive della messa in scena, ma di certo sarà un colpo d’occhio questo esperimento di rimediazione di una Palermo al quadrato, riflessa due volte – fuori e dentro il testo.

Per concludere questo primo affondo sul carattere spaziale delle regie liriche di Dante non resta che ragionare su due esempi in cui il transfert a Sud sembra risultare particolarmente efficace. Macbeth è stato concepito da Dante e Maringola come una festa mediterranea, tramite una forte dislocazione della ambientazione originaria, necessaria al disegno di un atroce rito di morte e rinascita. La dimensione folklorica, di un Sud aspro e pregante, viene veicolata attraverso oggetti, segni e partiture dinamiche, in un sovraccarico barocco di grande potenza. Se i movimenti dei soldati di Duncano richiamano la meccanica gestualità dell’Opera dei Pupi, l’entrata di Macbeth su uno scheletro di cavallo ci proietta davanti al magnifico Trionfo della morte esposto a Palazzo Abatellis, mentre la foresta di trecento pale di ficodindia che scende dall’alto sul palcoscenico sancisce definitivamente lo slittamento delle brume scozzesi nell’accesa solarità meridiana.

Macbeth, regia di Emma Dante, Sferisterio Macerata, 2019, © TabocchiniMacbeth, regia di Emma Dante, Teatro Massimo, Palermo, 2017

La difficoltà di rendere il movimento della foresta di Birnam per mano dei soldati di Malcom è spiegata dalla regista nel video prodotto dal Teatro Massimo di Palermo nei termini simbolici di una natura crudele, ma è innegabile la presenza di un effetto anti-tragico, che raggiunge altresì una punta di fiabesco. La foresta diviene così figura di disambientazione: la sua connotazione selvaggia, mortale, cambia segno grazie a un sortilegio (gli attori portano su di sé le pale provocando il miraggio del movimento) e in questo modo si determinerà una sorta di rovesciamento, di inarcamento verso la soglia del carnevalesco mutare delle forme.

Ne L’angelo di fuoco si assiste allo spostamento da Colonia (suggerita da compatte pareti di libri di magia) alle Catacombe dei Cappuccini di Palermo sotto la chiesa di Santa Maria della Pace; come in uno stato mentale, o forse, spirituale – senza parametri di luogo e tempo – tale riconversione lascia precipitare lo spettatore in un ventre uterino dove i personaggi vivono ostaggi della morte, quasi a voler ricordare che il confine tra terreno e ultraterreno è sottile o forse non esiste affatto. In questa scelta, frutto della feconda collaborazione con Maringola, possiamo rintracciare, ancora una volta, il riverbero di tutto l’immaginario personale di Dante, fatto di cattolicesimo, di superstizione ma soprattutto di morte (il cui ultimo fotogramma è rappresentato dallo spettacolo Pupo di zucchero), che si pone in dialogo con le trame grottesche, esoteriche e simboliste del Prokof’ev di inizio Novecento, azzerando così ogni distanza tra Russia e Sicilia e trasformando i favolistici luoghi medievali originari in quelli metaforici di una città «super affascinante, piena di speranze e sogni perduti, gloria e munnizza, […] con la sua forza incredibile di produrre bellezza e miseria».[36]

L’angelo di fuoco, regia di Emma Dante, Teatro dell’Opera, Roma, 2019, © Yasuko Kageyama

Tutta l’opera aleggia in una dimensione senza tempo, ma ben connotata: dalla «locanda per viaggiatori» che offre loculi come alloggi, alla casa di Colonia di Ruprecht o alla dimora del mago Agrippa con i muri fatti di libri, dai quali può derivare sia il Bene che il Male. L’angelo di fuoco instaura un corto circuito non soltanto all’interno della teatrografia di Dante[37] ma anche, come sempre, tra sala e scena: i loculi e le nicchie create da Maringola si fanno prolungamento degli ordini dei palchi del teatro.

Lungi dall’essere un mero divertissement, come poteva sembrare all’inizio, la produzione lirica di Dante è la conferma del suo personale talento visuale e performativo nonché della capacità dell’opera di rimodellare i coefficienti scenici dello spettacolo alla luce di nuove, magnifiche ossessioni.

 

*Questo articolo nasce nell’ambito del progetto di ricerca A.R.I.E. – Audience, Remediation, Iconography, Environment in Contemporary Opera (redatto all'interno del “PIAno di InCEntivi per la RIcerca di Ateneo - PIA.CE.RI. 2020/2022” linea 2) coordinato dalla Professoressa Stefania Rimini (Università degli Studi di Catania).


1 Sull’argomento si vedano almeno gli studi di N. Couldry, A. Hepp, The mediated construction of reality, Cambridge, Polity press, 2017; C. Salter, Entangled: Technology and the transformation of performance, Cambridge, MA: MIT Press, 2010; S. Dixon, Digital performance: A history of new media in theater, dance, performance art, and installation, , Cambridge, MA: MIT Press, 2007; F. Chapple, C. Kattenbelt, Intermediality in theatre and performance, Amsterdam-New York, Rodopi, 2006. Sul fronte italiano si segnalano: A. Balzola, A.M. Monteverdi, Le arti multimediali digitali: Storia, tecniche, linguaggi, etiche ed estetiche delle arti del nuovo millennio, Milano, Garzanti, 2004; L. Gemini, ‘Post-Novecento e mediatizzazione. Appunti mediologici sulle arti performative’, in C. Tafuri, D. Beronio (a cura di), Ivrea Cinquanta. Mezzo secolo di Nuovo Teatro in Italia 1967-2017, Genova, AkropolisLibri, 2018, pp. 216-223; V. Del Gaudio, Théatron. Verso una mediologia del teatro e della performance, Milano, Meltemi, 2020.

2 A. Barsotti, ‘Postfazione. La drammaturgia come scrittura vivente’, in E. Dante, Bestiario teatrale, Milano, Rizzoli, 2020, p. 440.

3 Cfr. G. Bachelard, La poetica dello spazio, trad. it. a cura di E. Catalano, Bari, Dedalo, 1957 [4 ristampa 1993], pp. 247-266.

4 Ivi, p. 235.

5 E. Dante in Palermo Dentro, a cura di A. Porcheddu, Civitella in Val di Chiana (AR), Editrice Zona, 2010, p. 47.

6 A. Camilleri, ‘Prefazione’ in E. Dante, Carnezzeria. Trilogia della famiglia siciliana, Roma, Fazi Editore, 2007, ora in E. Dante, Bestiario teatrale, p. 12.

7 R. di Giammarco, ‘Emma Dante, rito e messa a fuoco’, in G. Distefano, Il teatro di Emma Dante, Castel Gandolfo (RM), Infinito edizioni s.r.l., 2011, p. 10.

8 Con la Bohème Dante è giunta nel 2021 alla sua ottava regia musicale, mentre Les vêpres siciliennes di Verdi che debutterà il 20 gennaio al Teatro Massimo di Palermo inaugurerà la sua prima regia operistica targata 2022 nel trentennale delle stragi di mafia.

9 G. Guccini, ‘Editoriale’, in G. Guccini, N. Lupia (a cura di), Per/formare l’Opera. Arti viventi, spazi, costumi, Prove di Drammaturgia, XX, 1, novembre 2015, p. 3.

10 Ibidem

11 A. Bentoglio, Invito al teatro di Giorgio Strehler, Milano, Mursia, 2002, p. 140. A questo prezioso strumento oggi possiamo affiancare il volume pubblicato nel 2021 per i tipi CUE Press: A. Bentoglio, 20 lezioni su Giorgio Strehler, lavoro indispensabile per comprendere la portata rivoluzionaria del Padre fondatore del teatro di regia in Italia.

12 Le quattro linee portanti individuate da Strehler sono quella «quasi tradizionale e storica», quella che consiste nella «ricostruzione possibilmente di gusto della scena primitiva, dell’impianto primitivo dell’opera», la terza «finta-moderna» e l’ultima che predilige e definisce «interpretazione dello spirito». Anche per l’opera lirica non esiste per Strehler una regia ‘totale’; si deve provare a individuare e riesprimere scenicamente il carattere essenziale e il tono del testo. Per far ciò è necessario rivolgersi non soltanto al libretto ma alla sua musica, «un meraviglioso passe-partout che consente di accedere alla comprensione del testo»; sarà grazie alla sintonia con il maestro concertatore che si potrà dare vita a uno spettacolo in cui l’opera trovi piena realizzazione di sé (G. Strehler in A. Bentoglio, Invito al teatro di Giorgio Strehler, pp. 139-142).

13 Ivi, p. 141.

14 E. Dante in H. Failoni, ‘La spazzatura di Verdi’, La Lettura, Corriere della Sera, 19 dicembre 2021, p. 63. Decisiva in tal senso la diretta collaborazione con compositori e musicisti di prim’ordine: Daniel Baremboim (2009), Gustavo Dudamel (2010), Massimo Zanetti (2015) per Carmen; Alain Guingal per La Muta di Portici; Gabriele Ferro per Feuersnot e Macbeth; Constantin Trinks per Gisela!; Alejo Pérez per La Cenerentola; Michele Mariotti per Cavalleria Rusticana-La voix humaine; Juraj Valčuha per Bohème e Omer Meir Wellber per Les vêpres siciliennes.

15 G. Strehler in A. Bentoglio, p. 142.

16 A.C. Smaldone, ‘Macerata Opera Festival 2019: Macbeth #rossodesiderio secondo Emma Dante’, Le Salon Musical, 20 luglio 2019, <https://www.lesalonmusical.it/macerata-opera-festival-2019-macbeth-rossodesiderio-secondo-emma-dante/> [accessed 2 january 2022].

17 Cfr. V. Fiore, Carmine Maringola, scenografo/attore. La scena recitata per Emma Dante, Siracusa, LetteraVentidue Edizioni, 2020.

18 G. Vasta, ‘Bestie di scena di Emma Dante: il discorso dello sguardo, Minima&Moralia, 18 ottobre 2017, <https://www.minimaetmoralia.it/wp/teatro/bestie-di-scena-di-emma-dante/> [accessed 29 october 2021].

19 C. Maringola in V. Fiore, Carmine Maringola, scenografo/attore. La scena recitata per Emma Dante, p. 48.

20 La storia recente del nostro teatro è costellata di collaborazioni stabili tra scenografi e registi, sviluppatesi grazie all’incontro tra modi di pensare, progettare e immaginare lo spazio scenico. Una «scenografia di regia», come la definì Quadri negli anni Settanta, che aderiva e dava forma alle ricerche dei principali registi sulle idee dello spazio, diventando, cito sempre Quadri «cardine delle rivoluzioni del Novecento teatrale». A cominciare dal rapporto tra Giorgio Strehler e Luciano Damiani, che ha portato a visioni dirompenti, fino alla destrutturalizzazione dello spazio teatrale operata da Ronconi (in collaborazione con Gae Aulenti, Margherita Palli e Marco Rossi), si arriva poi alle molteplici collaborazioni stabili che hanno segnato il passaggio al nuovo millennio: Federico Tiezzi e Pier Paolo Bisleri, Davide Iodice e Tiziano Fario, Serena Sinigaglia e Maria Spazzi, Damiano Michieletto e Paolo Fantin.

21 P. Pavis, L’analisi degli spettacoli. Teatro, mimo, danza, teatro-danza, cinema, trad. it. D. Buzzolan, R. Cortese, Torino, Lindau, 2004, pp. 191-192.

22 G. Guccini, ‘Direzione scenica e regia’, in L. Bianconi, G. Pestelli (a cura di), Storia dell’opera italiana. I sistemi, Torino, EDT, 1988, p. 170.

23 A.C. Smaldone, ‘Macerata Opera Festival 2019: Macbeth #rossodesiderio secondo Emma Dante’.

24 Cfr. W. Osthoff, ‘L’opera d’arte e la sua riproduzione: un problema d’attualità per il teatro d'opera’, in L. Bianconi (a cura di), La drammaturgia musicale, Bologna, il Mulino, 1986, p. 388.

25 Macbeth. Melodramma in quattro atti. Musica di Giuseppe Verdi. Libretto di Francesco Maria Piave. Direttore Gabriele Ferro. Regia Emma Dante. Scene Carmine Maringola. Costumi Vanessa Sannino. Coreografia Manuela Lo Sicco. Maestro d’armi Sandro Maria Campagna. Light designer Cristian Zucaro. Assistente regia Giuseppe Cutino. Assistente scene Roberto Tusa. Assistente costumi Sylvie Barras. Orchestra, Coro e Corpo di ballo del Teatro Massimo. Maestro del Coro Piero Monti. Macbeth: Giuseppe Altomare, Roberto Frontali. Banco: Marko Mimica. Lady Macbeth: Anna Pirozzi, Virginia Tola. Dama di Lady Macbeth: Federica Alfano. Macduff: Vincenzo Costanzo. Malcolm: Manuel Pierattelli. Medico: Nicolò Ceriani. Domestico. Sicario/Araldo: Antonio Barbagallo. Apparizioni: Marko Mimica, Emanuela Ciminna/Federica Quattrocchi, Riccardo Romeo. Duncano: Francesco Cusumano. Fleanzio: Nunziatina Lo Presti. Attori della Compagnia di Emma Dante e Allievi della Scuola dei mestieri dello spettacolo del Teatro Biondo di Palermo. Nuovo allestimento del Teatro Massimo di Palermo in coproduzione con il Teatro Regio di Torino e con l’Associazione Arena Sferisterio/Macerata Opera Festival. Vincitore dell’Angel Herald Award di Edimburgo nel 2017.

26 M. Fusillo, ‘Il corpo, il rito, il tragicomico. Emma Dante e il “Macbeth” di Verdi’, Arabeschi, n. 10, luglio-dicembre 2017, p. 34, <http://www.arabeschi.it//uploads/pdf/07%20Fusillo.pdf> [accessed 4 january 2022].

27 L’angelo di fuoco. Opera in cinque atti. Musica Sergej Prokof’ev. Libretto del compositore da un romanzo di Valerij Brjusov. Direttore Alejo Pérez. Regia Emma Dante. Scene Carmine Maringola. Costumi Vanessa Sannino. Movimenti coreografici Manuela Lo Sicco. Luci Cristian Zucaro. Maestro del coro Roberto Gabbiani. Maestro d’armi Sandro Maria Campagna. Orchestra e Coro del Teatro dell’Opera di Roma diretto da Roberto Gabbiani. Ruprecht: Leigh Melrose. Renata: Ewa Vesin / Elena Popovskaya. Madiel’: Alis Bianca. Conte Heinrich: Ivano Picciallo. Padrona della Locanda: Anna Victorova. Indovina / Madre superiora: Mairam Sokolova. Agrippa di Nettesheim: Sergey Radchenko. Johann Faust: Andrii Ganchuk. Mefistofele: Maxim Paster. Inquisitore: Goran Jurić. Jakob Glock: Domingo Pellicola. Mathias Wissman: Petr Sokolov. Medico: Murat Can Guvem. Servo: Andrii Ganchuk. Padrone della Taverna: Timofei Baranov. Prima giovane monaca: Arianna Morelli / Carolina Varela. Seconda giovane monaca: Emanuela Luchetti / Silvia Pasini.

28 I movimenti sono di Manuela Lo Sicco, così come a fare da maestro d’armi per il duello è Sandro Maria Campagna.

29 E. Dante in R. di Giammarco, Tragedia spirituale di una martire erotica, 2019, <https://www.naxos.com/mainsite/blurbs_reviews.asp?item_code=NBD0113V&catNum=NBD0113V&filetype=About%20this%20Recording&language=Italian> [accessed 4 january 2022].

30 G. Strehler in M. Paoletti, ‘«Io ho bisogno di animali teatrali». Giorgio Strehler e la recitazione nel teatro’, Mimesis Journal, 7, 2, 2018, <https://journals.openedition.org/mimesis/1471#ftn1> [accessed 5 january 2022]. La ricerca di Paoletti si sviluppa a partire dalla ricca e inedita corrispondenza privata di Strehler con il musicolo Carlo de Incontrera, con il direttore generale dell’Orchestra e coro Giuseppe Verdi Luigi Corbani, e con lo scenografo Ezio Frigerio tra il settembre e il dicembre 1997. Qui un frammento tratto da una lettera in cui il regista dava indicazioni a Carlo de Incontrera per la selezione degli interpreti del Così fan tutte, spettacolo postumo che inaugurerà nel 1998 la nuova sede del Piccolo Teatro di Milano. Nelle prove della maturità – e in particolare in quelle verdiane – Strehler sfrutterà le masse corali per evidenziare alcuni snodi della drammaturgia musicale e intraprenderà dei veri e propri corpo a corpo con i cantanti (si pensi ad esempio all’efficace chiusura del prologo nel Simon Boccanegra del 1971 in cui il popolo – così ci raccontano i piani di lavorazione – invade il palcoscenico inghiottendo Simon, risultato raggiunto grazie all’uso dei mimi istruiti dallo stesso regista; o ancora al Macbeth ripreso dalla Rai nel 1978 in cui il protagonista sacrifica in Fatal mia donna! un murmure l’emissione vocale a favore del gesto e della mimica).

31 Sulla forza dei motivi visuali della tradizione sacrale al femminile si rimanda a D. Bonanno, I. Buttitta (a cura di), Narrazioni e rappresentazioni del sacro femminile, Palermo, Edizioni Museo Pasqualino, 2021.

32 R. di Giammarco, ‘Emma Dante, rito e messa a fuoco’, in G. Distefano, Il teatro di Emma Dante, p. 10.

33 Cfr. A. Barsotti, La lingua teatrale di Emma Dante, Pisa, ETS, 2009.

34 A. Barsotti, ‘Lo spazio e gli oggetti nel gioco del teatro di Maringola&Dante’, in V. Fiore, Carmine Maringola, scenografo/attore, p. 16.

35 E. Dante in M. Di Caro, ‘Emma Dante: «La mia Palermo di bellezza e miseria resta più forte di chi l’amministra», la Repubblica, 30 settembre 2021, <https://palermo.repubblica.it/societa/2021/09/30/news/emma_dante_la_mia_palermo_di_bellezza_e_miseria_resta_piu_forte_di_chi_l_amministra_-319995811/> [accessed 5 january 2022].

36 Ibidem

37 Dai cani pelosi del laboratorio di Agrippa di Nettesheim, proiezione del fantastico-animalesco delle streghe del Macbeth, al combattimento a colpi di stampelle tra i due storpi che anticipano gli avventori dell’osteria che troviamo ancor prima in Cavalleria rusticana (2017). Fino al confrontarsi con un personaggio completamente muto, Madiel’, cosa che già Dante si era ritrovata a fare ne La Muette de Portici (2012), con la straordinaria Elena Borgogni nel ruolo di Fenella.