Il fenomeno di mediatizzazione del teatro[1] è uno dei processi più ambigui e interessanti da mappare per le tante contraddizioni che si sono succedute a partire almeno dalla svolta delle avanguardie storiche e che insistono ancora nel presente, se si pensa che la scena contemporanea da una parte rimane salda nella sua opposizione rispetto ai media, mentre dall’altra si caratterizza come contesto di sviluppo delle arti multimediali.
In questo contesto, Emma Dante ha pervicacemente difeso il suo essere «artigiana», continuando a impiegare tutti quegli «strumenti essenziali»[2] – compresi i ‘relitti’ di kantoriana memoria – capaci di aprire la scatola magica del teatro per mostrare allo spettatore la quintessenza di uno spazio in grado di evocare lo stupore dello sguardo. Quello di Dante è fin dagli esordi un teatro in cui le relazioni spaziali mutano in una «dialettica del fuori e del dentro, lacerante».[3] Questa spirale del dentro-fuori, della scena-sala, della ribalta-soglia, invalicabile dagli astanti (da mPalermu a Le sorelle Macaluso), rappresenta la circolarità dell’essere in tutte le sue forme; un essere entre-ouvert che qui tradurremo con ‘socchiuso’, formula che rimanda a un binomio strutturale nel quale troviamo tutti gli elementi del rapporto con il circostante e quindi con l’identità del sé.
«Chiuso nell’essere» – dice Bachelard – «bisognerà sempre che ne esca, appena uscito dall’essere, bisognerà sempre rientrarvi. In tal modo nell’essere, tutto è circuito, tutto è rigiro, tutto è ritorno, discorso, tutto è uno sgranarsi di soggiorni, tutto è ritornello di strofe senza fine».[4] Gli spettacoli di Dante, fin da mPalermu, sembrano obbedire a questa logica, assecondando una sensazione claustrofobica: manifestano sempre una suggestione opprimente di chiusura, quasi senza via di uscita, anche se non smettono di tendere verso un ‘altrove’. I suoi individui scenici si muovono in uno spazio in cui non ci sono porte o finestre, in cui non ci sono quinte, e la ragione di tale scelta è spiegata dalla stessa regista: «se non metti nessuna quinta […] abolisci il problema del dietro, del davanti, dei lati. E quindi ti trovi inevitabilmente in un “altrove”: sei in un altro posto e questo altro posto non ha porte e non ha finestre, e non ha tetti e non ha pavimentazione. Lo puoi fare diventare quel che vuoi».[5] L’astrazione letterale e simbolica degli ambienti è un segno ricorrente delle regie di Dante, come attestato anche dai più recenti spettacoli di prosa, Misericordia (2020) e Pupo di zucchero (2021); quel che deve e può accadere «sa di poter esistere solo su un palcoscenico spoglio»,[6] di poter tendere alla scena vuota. Il boccascena, reso invalicabile da una stretta lingua di luce (si pensi a Bestie di scena e alla collaborazione ventennale con Cristian Zuccaro i cui impianti illuminotecnici diventano in filigrana l’intelaiatura di una scenografia ‘trasparente’), spinge gli interpreti, soli o in schiera, a creare quel vis-à-vis con lo spettatore che Dante ha saputo muovere verso punte di grande intensità. Ne deriva un impianto frontale in cui i personaggi si rivolgono a ciò che hanno davanti a sé, alla platea, anche quando le dinamiche che regolano i loro rapporti si fanno più intense o concitate, come se fossero prigionieri di una relazione con un aldilà scenico. In ogni caso l’invisibilità delle strutture viene superata dalle traiettorie degli interpreti, dal ‘farsi corpo’ delle parole, dalla scarna materialità di oggetti-feticcio che insieme costituiscono una vera e propria «scenografia degli organismi»,[7] secondo l’icastica definizione di Rodolfo di Giammarco.