Futuristi ortodossi, anarcofuturisti, futurfascisti. Metafisici, bolscevichi immaginisti, dadaisti, presurrealisti: fra la seconda metà degli anni Dieci e la fine degli anni Venti, in un eccentrico connubio, lavorarono a Roma artisti provenienti dalle esperienze più varie e difficilmente riconducibili ad un unico comun denominatore, che trasformarono la città in uno dei punti di intersezione degli avanguardismi storici novecenteschi. All’indomani della Grande Guerra, la capitale mostrava un volto rinnovato: non era più la «Roma passatista» che «langue sotto la sua lebbra di rovine»[1] su cui nel 1910 ironizzava Marinetti, la città antimoderna che due anni dopo era stata il facile bersaglio di una violenta invettiva di Giovanni Papini, destinata a divenire celebre. Era una Roma che ospitava mostre, spettacoli, teatri, cabaret, giornali e riviste vivendo, fra il 1916 e il 1929, una ricca e vivace stagione artistico-letteraria, che scorreva parallela alla sua trasformazione da capitale dello stato giolittiano a capitale dello stato fascista. Spazio aperto agli sperimentalismi più vari, in cui forte ma non egemonica era la presenza del Futurismo malgrado i tentativi di Marinetti di affermare il primato, nel dopoguerra la città diveniva simbolicamente il centro del progetto del Partito Politico Futurista attraverso il suo organo, il giornale Roma Futurista, nato negli ultimi mesi del 1918 che, nella fase ‘diciannovista’ del movimento, ospitava l’incontro fra il ribellismo ardito-futurista e il sovversivismo dei Fasci mussoliniani. Alle principali esperienze che in quegli anni fecero di Roma un laboratorio artistico dinamico ed eclettico è dedicato questo contributo: occorre riprendere il lavoro sull’avanguardismo romano la cui mappatura, seppur oggetto di diversi studi pubblicati in maggioranza negli ultimi decenni del Novecento,[2] presenta tuttora ampie zone grigie.