La seconda stagione del cinema sperimentale esplode in Italia a metà degli anni Sessanta, negli stessi anni in cui happening, ambienti e opere mediali si apprestavano a costruire il vocabolario di un’arte in cerca di smaterializzazione. Che il dissolvimento dell’oggetto artistico coincida con gli anni della contestazione, in quel ‘lungo Sessantotto’ che tentò di abbattere ogni barriera tra arte, politica e vita, trova nelle parole di uno dei protagonisti di quella stagione, Alberto Grifi, una delle spiegazioni più calzanti: «forse è anche per questo che il Sessantotto non ha prodotto arte: perché l’arte vera era essere movimento» (Murri e Vatteroni 1999).
‘Essere movimento’, quindi, dove il fluire dell’immagine diventa anche il fluire dei corpi e degli eventi, ma anche ‘tessere movimento’, dove le singole storie si intrecciano per permettere alla Storia di compiere un salto. Ecco che si moltiplicano gli spazi di condivisione e collaborazione: collettivi di artisti, di cineasti, di studenti, poco più tardi, di femministe. Come ricorda Anna Bravo (2008), saranno proprio gli spazi di una nuova e dirompente soggettività femminile a costituire l’eredità tra le più significative consegnate da quella stagione di lotta, quel tentativo di spostare la politica nel tempo e nel luogo della quotidianità agito in prima persona. Il cinema, strumento prezioso, specialmente nella forma leggera, duttile, economica del piccolo formato, di documentazione e di denuncia, è scelto anche come medium per dare corpo a quel ‘partire da sé’ che traduceva, nel linguaggio di allora, il passaggio dall’individuo alla collettività. In quel «rovesciamento dal maschile al femminile» (Passerini 1988), il cinema in prima persona esplode come la più felice tra le sperimentazioni di quegli anni, certamente quella che più caratterizza la produzione delle donne in cerca di sé. Le loro opere, poche in una prolifica produzione maschile, segnano la mappa di una nuova identità collettiva in divenire.
È in un simbolico maggio 1968 che Giosetta Fioroni inaugura uno degli eventi espositivi che più segnerà il connubio tra contestazione e sperimentazione: Il teatro delle mostre, voluto e messo in piedi in tempi record da Plinio de Martiis per la sua galleria La Tartaruga, presentava, con cadenza giornaliera e per nove giorni di seguito, un singolo artista con un progetto ambientale o performativo. Trasferendo l’intera camera da letto in una stanza della galleria e costringendo i visitatori a sbirciare dal buco di una serratura i gesti cadenzati dell’attrice Giovanna Calandra, Fioroni spettacolarizza la realtà, alludendo ai pionieristici dispositivi del pre-cinema ma anche alle forme allora contemporanee del rotocalco. L’opera, inserita in una complessa riflessione sulla soggettività femminile, dialoga certamente con la breve esperienza di cinema sperimentale che l’artista aveva intrapreso in quegli anni. In La solitudine femminile (1967), in particolare, che precede di poco la performance de La Tartaruga, Fioroni affonda nell’insanabile conflitto tra autenticità e artificio indugiando sul trucco, il travestimento, la maschera, lo specchiarsi in cerca di sé. Sceglie così di abitare un territorio ibrido dove una faticosa ricerca identitaria assume le forme della leggerezza, del piacere ludico e dell’irriverenza. Sulle tracce di una grammatica teatrale, ma d’altra parte, nota ancora Passerini (1988) «il gioco teatrale fa parte della costituzione in soggetti, come capacità di sdoppiarsi e osservarsi», si delineano i contorni di molte delle opere sperimentali femminili di quegli anni. In Amour du Cinéma (1969) Rosa Foschi intreccia merletti, disegni infantili, immagini delle dive del passato e del presente, indagini allo specchio e travestimenti scenici in una straordinaria opera di animazione passo uno che richiama, nella tecnica del collage e nell’uso di materiali poveri e domestici uniti a suggestioni mediatiche, l’ironica indagine sulla soggettività femminile messa in atto anni prima dalla surrealista tedesca Hannah Höch. Collage e fotomontaggio saranno protagonisti anche nella pratica artistica di Lucia Marcucci e Ketty La Rocca, entrambe attive nel Gruppo ’70 a Firenze e autrici, a loro volta, di film sperimentali. Se la prima lavorerà soprattutto sul found footage e sembrerà meno attratta da un’indagine identitaria, la seconda realizzerà Appendice per una supplica (1972), tra le prime opere di videoarte italiana, una sorta di pièce in tre atti per sole mani: riprese in inquadratura fissa su fondo nero e attraversate dalla ripetizione ossessiva della scritta ‘you’, le mani compiono gesti iconici, conte infantili o tentativi di uscire dai confini del video come a cercare nuovi spazi di libertà. Sono ancora le mani, spazio di esplorazione e di incontro tra sé e il mondo, ad essere al centro dell’indagine di un’altra artista e cineasta, Valentina Berardinone, che tra il 1971 e il 1981 realizza 9 film in piccolo formato. In Urbana (1973) «la mano pulisce nevroticamente il vetro di una finestra, la mano sbuca sotto un gradino e si tende verso la luce, la mano scrive su un foglio, la mano cancella una scritta, la mano si chiude a pugno» (Vergine 1974).
Segnata dall’incontro con il Living Theater, anche Pia De Silvestris (Epremian) esplora attraverso il corpo, in un’originale miscela di happening e home movie, i possibili spazi di libertà. Se in Dissolvimento (1970) [fig. 1] gli oggetti della quotidianità casalinga compongono una grammatica della nevrosi, in Infiniti Sufficienti (1970) [fig. 2] il suo ultimo film, Epremian indaga l’identità racchiusa negli spazi privati della cura familiare. Volti di donne in primo piano – «tutti i miei film sono nati con un viso di donna […] crudele e dolente maschile e femminile» (Bacigalupo) – ritmano lo sguardo di una cineasta inquieta, l’unica donna a far parte della Cooperativa Cinema Indipendente, ad esclusione di Anna Lajolo, che tuttavia firma tutte le sue opere assieme a Guido Lombardi.
Figura poliedrica è invece quella di Annabella Miscuglio. Quest’ultima, che fonderà assieme ad Amerigo Sbardella e Paolo Castaldini il Filmstudio 70 a Roma, spazio privilegiato di proiezione e promozione del cinema underground italiano, avrà più di altre un ruolo nell’attivismo femminista, firmando, anche come co-autrice nell’intensa stagione dei collettivi femministi (Licciardello 2016) numerose opere di inchiesta e di denuncia, tra cui A.A.A. Offresi, il noto documentario sulla giornata di una prostituta censurato e mai mandato in onda dalla RAI. Nel 1976 organizzerà, assieme a Rony Daopoulo, la rassegna internazionale Kinomata: donna con la macchina da presa, che, prima in Italia, tentava una mappatura del contributo autoriale femminile nel cinema narrativo. Negli stessi anni, tuttavia, Miscuglio aveva intrapreso una breve esperienza sperimentale, collaborando in alcuni casi con il musicista Alvin Currain. I suoi ‘filmini’ in super8, come amava definirli, sono lo spazio di un racconto intimo, diretto, sottratto, come lei stessa sottolinea, alla mediazione culturale, sociale, tecnica che il cinema in grande formato richiede. In essi la sua esperienza di attivista e femminista, l’espansione del politico negli spazi del privato e quell’‘essere movimento’ che cercava, pretendeva, la messa in gioco del sé nella sua interezza, sembra trovare il suo spazio più autentico: «l’approfondimento del femminismo mi ha portata a cercare me stessa, guardare in me stessa mi ha allontanata dall’attivismo politico e mi ha mostrato il dualismo del mondo del pensiero, i suoi meccanismi e i suoi limiti. Non posso più credere alla rivoluzione che non abbia come premessa una profonda rivoluzione interiore» (Filmstudio 70).
Le parole di Miscuglio, che accompagnavano la proiezione di due delle sue opere sperimentali, Canti Illuminati e Ritratti (1975), sembrano prestare voce a un canto comune, quello di donne che hanno tentato, nella loro pratica cinematografica, di affondare nelle pieghe di un’identità da costruire, dove la cinepresa diventa strumento per (t)essere movimento e dove il partire da sé è un parlare di ‘noi’.
Bibliografia
M. Bacigalupo, ‘Il film sperimentale’, numero monografico di Bianco e Nero, 5-8, 1974.
A. Bravo, A colpi di cuore: storie del Sessantotto, Bari, Laterza, 2008.
Filmstudio 70 (a cura di), ‘Dimensione super8’, quaderni del filmstudio, 2, Roma, Centro Grafico GPR, 1975.
A. Licciardello, ‘Io sono mia. Esperienze di cinema militante femminista anni Settanta’, Zapruder, 39, gennaio-aprile 2016.
S. Murri, F. Vatteroni, ‘Quando il tempo non è denaro. Intervista a Alberto Grifi’, Close-Up. Storie della visione, 5, novembre-gennaio, 1999.
L. Passerini, Autoritratto di gruppo, Firenze, Giunti, 1988.
L. Vergine, Il corpo come linguaggio, Milano, Prearo, 1974.