Cesare Brandi scrittore: una singolare declinazione dell’odeporica

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L’articolo è dedicato agli scritti letterari dello storico dell’arte Cesare Brandi, in particolare ai suoi libri di viaggio ed agli aspetti letterari che sono riscontrabili nelle opere di carattere teorico e saggistico. Diversi scritti di Brandi testimoniano, tra l’altro, l’apertura dello studioso, di originaria formazione crociana, alle metodologie strutturaliste ed alla riflessione di Roland Barthes. I libri di viaggio tengono assieme la storia dell’arte, la vasta erudizione e la capacità affabulatoria. Particolare attenzione è dedicata alle descrizioni di Sicilia mia, il libretto che testimonia l’interesse dello storico dell’arte per la civiltà artistica ed architettonica dell’isola, per i templi dorici di Agrigento, Segesta e Selinunte, per il tardo barocco di Catania e Noto, per gli stucchi settecenteschi di Giacomo Serpotta.

The article is centered around the litterary writings of the art historian Cesare Brandi, in particular on his travel books and the litterary aspects that are found in his essayes. Many of these works witness the links of the author, originally formed by the Benedetto Croce, to the stuctural methodology and the works of Roland Barthes. The travel books put togheter the history of art, a vast knowledge and litterary ability. Particular attention is dedicated to the decription of Sicilia mia, the book that witnesses the interest of the art historian for the artistic and architectural heritage of the island, for his doric temples of Agrigento, Segesta and Selinunte, for the late baroque of Catania e Noto and the stucco’s form of Giacomo Serpotta.

L’opera di Cesare Brandi, storico dell’arte, docente e teorico del restauro, non si limita alla saggistica accademica: oltre ai testi di critica d’arte e ai trattati teorici non mancano gli scritti di carattere autobiografico, le raccolte poetiche e i libri di viaggio. La peculiare declinazione dell’odeporica proposta da Brandi in pieno Novecento costituisce forse l’articolazione più originale del suo lavoro, un aspetto che adesso è possibile rileggere nella silloge Bompiani curata da Vittorio Rubiu Brandi.[1] Non sono poche le opere brandiane che fanno cadere la tradizionale distinzione tra i generi e che, anche quando trattano monograficamente l’opera di un artista, vibrano di una forte letterarietà. Del resto, se la biografia intellettuale di Brandi ha intersecato quella di Ranuccio Bianchi Bandinelli e quella di Giulio Carlo Argan, fin dagli anni giovanili non sono mancati al futuro storico dell’arte stimoli e frequentazioni letterarie, in primo luogo quella che veniva da Federigo Tozzi. Oltre alla conoscenza personale dello scrittore senese, autore di romanzi come Tre croci e di raccolte liriche ricche di riferimenti iconici, risale agli anni fiorentini la frequentazione del gruppo di Solaria e dei letterati che si riunivano alle Giubbe Rosse, tra gli altri Montale, Gadda e Vittorini. In seguito non sarebbe mancata l’amicizia con Emilio Cecchi e l’incontro con Carlo Levi, scrittore e pittore alla cui opera lo studioso ha dedicato un saggio assai penetrante.[2] Particolarmente intenso è stato il rapporto con Montale: il critico d’arte e il poeta erano accomunati dalla passione per il melodramma e dalla frequentazione del Corriere della Sera, per il quale furono entrambi brillanti elzeviristi.

Argan intervistato da Brandi

Si capisce bene come questo quadro di relazioni abbia contribuito a determinare in Brandi un interesse precoce per la letteratura, persino preponderante prima ch’egli decidesse di dedicarsi allo studio della storia dell’arte. Il senese, tra l’altro, ha tentato personalmente la via della poesia, dando alle stampe tre raccolte liriche per nulla ingenue: l’esordiale silloge di Poesie pubblicata dalla casa editrice Giuliani, la raccolta Voce sola e il volume Elegie.[3] Opere poco note che attendono ancora un accorto vaglio critico da cui molto si potrebbe apprendere in merito al cantiere lessicale dell’autore, alla precocità di alcuni nuclei contenutistici riproposti poi nelle prose letterarie e di viaggio, al dialogo intertestuale particolarmente intenso col Tozzi poeta.

 

1. Dai Dialoghi alla Teoria del restauro

Anche nel rigore della trattazione i testi teorici di Brandi non rinunciano a una ricercata letterarietà, evidente fin dal loro statuto formale: così per Elicona I. Carmine o della pittura, Elicona II. Celso o della poesia ed Elicona III-IV, Arcadio o della scultura. Eliante o dell’architettura, una successione di libri improntati al modello dialogico platonico che, ripreso da Cicerone, ha caratterizzato tanta parte della trattatistica rinascimentale. La sequenza dei dialoghi non sviluppa solo la riflessione sui singoli codici artistici, ma si ricollega idealmente al classico certame tra le arti che, in seno alla Rinascenza, traeva le mosse dal confronto petrarchesco fra il ritratto «in carte» di Madonna Laura e il ritratto letterario proposto nei sonetti e nelle canzoni dei Rerum vulgarium fragmenta. Di citazioni letterarie sono dense anche le opere di critica d’arte, sia quando lo studioso si occupa dei primitivi senesi che dei pittori moderni sentiti più congeniali come De Pisis e Morandi, cui ha dedicato memorabili monografie. A ben vedere il peculiare dualismo brandiano, lo sguardo attento alla civiltà figurativa del XIV e del XV secolo e la capacità esegetica volta ai processi artistici contemporanei, percorre la sua opera e sostanzia anche i libri di viaggio, costantemente oscillanti tra la rimemorazione del passato e uno sguardo vivace, ironico, talvolta polemico volto al presente.

Il profilo teorico di Brandi, il suo lungo percorso di studio trovano esito nella Teoria del restauro, un saggio scritto a partire dal 1960, quando l’Istituto Centrale del Restauro compiva vent’anni, per essere pubblicato nel 1965. Il libro sottende una complessa sinopia intellettuale, attribuisce uno spazio decisamente moderno alla ricezione (nonostante fossero ancora da venire le innovazioni epistemiche di Hans Robert Jauss e Wolfgang Iser)[4] e allo stesso tempo postula una concezione dell’opera d’arte legata sia al suo valore estetico che alla sua consistenza materica: «Il restauro costituisce il momento metodologico del riconoscimento dell’opera d’arte, nella sua consistenza fisica e nella sua duplice polarità, estetica e storica, in vista della sua trasmissione al futuro».[5] Brandi non ignorava la fisicità dell’oggetto artistico e in questo polemizzava risolutamente con la critica idealista; si interrogava sul tempo dell’opera e sul suo accamparsi nello spazio coniando i paradigmi di «durata» e «spazio dell’arte», forniva le note indicazioni su come procedere all’integrazione delle lacune pittoriche, al rispetto delle velature, al restauro degli edifici da cui non devono scaturire dei falsi architettonici. Estendendo la riflessione alla conservazione paesaggistica e al rovinismo, lo studioso tramava la sua pagina di riferimenti letterari e figurativi:

Come fino al tempo della Staël fu orrido il paesaggio montano della Svizzera, così la campagna romana nella sua desolata vastità non ebbe fautori prima del Romanticismo che vi si “classicizzava”, mentre al tempo del vero paesaggio classico romano da Poussin al primo Corot, il bello della campagna romana furono le singolari alberature, e i monti, e l’aria vastissima e alta, i laghi immobili, le rovine degli acquedotti e i templi. Pertanto la conservazione di cotali aspetti deve farsi in omaggio all’istanza storica più che ad una valutazione attuale dei medesimi.[6]

La Teoria del restauro sottende paradigmi crociani rimeditati con profonda intelligenza critica. Brandi, per dirla con Garroni, ha «riscoperto» Croce, ma lo ha «ripiegato entro una prospettiva non crociana»,[7] o quantomeno ne ha sovvertito alcuni schemi. Sostanzialmente egli ha rifiutato la ritrosia del filosofo a riconoscere la pluralità delle pratiche artistiche ma ne ha accolto l’opposizione ad ogni determinismo scientista, facendo propri i concetti di autonomia, individualità ed atemporalità dell’opera. Inoltre, nell’intuizione e nell’intelletto, le due forme della coscienza attestate nelle sue pagine, è facile scorgere l’articolazione crociana in conoscenza intuitiva e conoscenza logica. Tuttavia, per il senese, l’arte non è mera effusione lirica, immagine e concetto non stanno hegelianamente in rapporto di successione diacronica ma si ‘tolgono’ vicendevolmente. Naturale per uno storico dell’arte l’accoglimento di uno dei corollari della riflessione crociana, ovvero la centralità dell’indagine stilistica.[8]

Cesare Brandi

Negli anni Settanta Brandi ha voluto confrontarsi, con grande dinamismo intellettuale, anche con la critica strutturalista ch’egli chiamava «critica del significato». Pur nella sua visione storicista, nella diffidenza verso le formulazioni generali dello strutturalismo che si sarebbero risolte nell’algoritmo o in nozioni incapaci di rappresentare le contraddizioni dei processi storicamente determinati, Brandi ha saputo cogliere i lieviti migliori di quella temperie. Lo studioso ha riservato, tra l’altro, una certa attenzione alla nozione di «episteme», criticandone però una presunta rigidità che in vero è difficile riscontrare nelle pagine di Foucault: l’episteme è infatti intesa, dal filosofo francese, come un sistema implicito, inconscio e anonimo, come un orizzonte simbolico e uno spazio di possibilità entro cui si costituiscono e operano i saperi caratteristici di una data epoca; lo stesso passaggio da un’episteme all’altra non è descritto come un processo continuo governato da una logica interna, ma come un percorso caratterizzato da salti e cesure che rendono necessaria l’indagine delle «pratiche discorsive» e l’«archeologia del sapere». È forse il progressivo avvicinamento di Foucault alle ricerche strutturaliste e ad alcuni asserti di Lacan a suscitare la diffidenza di Brandi:

Orbene, questa insorgenza di interessi per il significato arriva sulla cresta dell’onda strutturale, è funzione e conseguenza diretta degli studi sulla struttura […]. Perché mai questa ricerca non si estende al significato della guerra, della bomba atomica, delle spedizioni sulla luna? Perché se davvero rappresentasse, come si vorrebbe o si sarebbe tentati a crederlo, il carattere distintivo di quella che Foucault chiama espisteme, della nostra attuale episteme, l’indagine sul significato non aiuta a smantellare la guerra, la lotta di razza, la sopraffazione politica e quella del mero gioco egemonico che è la corsa alla luna? La realtà, purtroppo, è che la nostra episteme, intesa come insorgenza di un motivo conduttore per storia e cultura, non è caratterizzata affatto dalla razionalità, dall’esser uomo dell’uomo. Perciò non ci illudiamo affatto sul significato da dare a questa polimorfa inchiesta sul significato: è solo un’indagine settoriale, come una trivellazione per cercare il petrolio: può andare molto a fondo, certo, ma in superficie le cose restano come prima. […] Comunque la ricerca sul significato, che è poi il fine ultimo di ogni strutturalismo, impegna, senza alcun dubbio, gli ingegni migliori e bastano i nomi: Barthes, Lacan, Foucault, Jakobson, Lévi-Strauss, Derrida, Greimas, Piaget.[9]

Il confronto con la «nuova critica» anche attraverso un processo dialettico negativo era tuttavia per Brandi un dovere di aggiornamento. Sorprende trovare nella silloge A passo d’uomo, tra più distesi scritti di viaggio, un articolo apparentemente incongruo, Il significato, che allude alle ricerche di Barthes e Foucault:

Questa, appunto, sarebbe la voce della ragione: ma intanto è chiaro che il rifiuto della struttura, non implica la parola soltanto, è rifiuto di aggiornamento, è pigrizia mentale, paura di essere scavalcati. C’è chi si riteneva il principe della storia dell’arte e ad un tratto si accorge che tutta la sua fama è legata ai cartellini delle attribuzioni...[10]

E non si può trascurare che nella raccolta odeporica Budda sorride il Giappone sia descritto ricorrendo al «libretto aureo» di Barthes, L’impero dei segni.[11] Così anche l’estremo Oriente brandiano diventa il regno della stilizzazione per eccellenza, il luogo di una scrittura-scrittura esentata dal significato in virtù di una vocazione iconica che non poteva non affascinare lo storico dell’arte.

 

2. I libri di viaggio

La formazione intellettuale ed estetica di Brandi è evidente anche nei libri di viaggio, nelle pagine levigate in cui l’aura di un’opera d’arte sembra spandersi a una città o ad una regione, conferendogli una connotazione identitaria. È facile trovare in queste prose la tensione civile dello studioso che certamente non dissimula i moti d’indignazione di fronte alle macerie di Palermo, a un recupero malriuscito o alla speculazione edilizia che ha deturpato il volto dell’Italia. Dissolti nell’esile filo diegetico delle narrazioni odeporiche si riconoscono i paradigmi teorici cari allo storico dell’arte: la visione delle città come sistema organico dove le eminenze monumentali vivono in rapporto stringente con i tipi edilizi minori, idea molto vicina agli asserti di Storia dell’arte come storia della città di Giulio Carlo Argan;[12] l’invettiva verso i falsi architettonici; il riconoscimento dello spazio in cui un’opera pittorica o scultorea è collocata e per il quale è stata concepita. Il racconto di viaggio è la cifra più congeniale per la scrittura brandiana: in essa si allarga significativamente la tastiera lessicale e si assiste ad un duplice movimento della lingua, assieme colta e divertita, sontuosa e scabra. Come se le finezze di una certa prosa d’arte si conciliassero con guizzi solariani, con un vivace vitalismo che estende la sua attenzione persino al cibo ed ai vini, prediligendo spesso percorsi minori, eccentrici o collaterali.

Non è un caso che Cecchi, anch’egli autore di testi odeporici come Viaggio in Grecia e Messico, si sia soffermato sui libri del senese, dandone un giudizio positivo:

Il primo libro “itinerario” di Cesare Brandi fu quello del suo Viaggio in Grecia antica, al quale seguirono, dopo qualche anno, le Città del deserto, e questi volumi non mancarono subito di suscitare la dovuta attenzione. Poco c’era voluto ad accorgersi, specialmente dopo il secondo, che la forma del racconto di viaggio, oltre naturalmente ad impegnare Brandi nella sua erudizione ch’è ricchissima, e nella sua curiosità e acutezza di storico dell’arte, si confaceva mirabilmente alle sue virtù di scrittore, e porgeva loro nuovi stimoli e possibilità.
Fino ad allora Brandi era stato soprattutto lo storico e il critico della grande pittura senese del Rinascimento; e il direttore dell’Istituto Centrale del Restauro, al quale una serie memorabile di successi, conseguiti in cotesto gelosissimo campo durante la sua direzione, aveva procurato un’indiscussa autorità internazionale. Alle altre pubblicazioni del Brandi si stavano frattanto aggiungendo i quattro ben noti “dialoghi” […]. Ma ecco che, con la visita alla Grecia antica, a un tratto si apriva anche la serie di questi resoconti di viaggio. E in meno di un decennio, con una presa sulla realtà sempre più agile e ampia, e una resa letteraria più brillante e animosa, si giungeva ai volumi terzo e quarto, che sono: Pellegrino di Puglia e l’odierno Verde Nilo.[13]

Da annoverare è anche la lettura critica di Geno Pampaloni che, in prefazione a una riedizione di Città del deserto, sottolinea quanto sia difficile includere Brandi tra i canonici prosatori d’arte. Vi è piuttosto, nella pagina del critico, una razionalità che procede dalla sua formazione, da un’erudizione tanto ricca quanto aperta e duttile, presupposto da cui scaturisce una peculiare «filosofia lirico-razionale»:

Il Viaggio nella Grecia antica, del ’54, è dedicato a Emilio Cecchi, il capofila, dopo D’Annunzio, della prosa d’arte. E tuttavia Brandi non appartiene alla schiera canonica dei prosatori d’arte. (Canonica anche nel senso che non appartiene a quel tipo di evasione, o di alibi, che la caratterizzò, e in qualche misura la legittimò, durante il fascismo). Per due ragioni soprattutto. Perché i suoi interessi culturali e critici sono in primo piano; urgono i contenuti, i confronti, le riflessioni storiografiche, le conferme e le sorprese di un uomo che da sempre è stato abitatore dell’universo dell’arte. E perché al gusto del viaggiare, del vedere, dello scoprire (il vero viaggiatore viaggia non per arrivare ma per viaggiare, diceva Goethe, con sentenza “ovvia e profonda”) Brandi aggiunge l’indole del toscano di buona razza […]. Da Cecchi, comunque, al di là dell’ammirazione e dell’affetto che gli portava, Brandi era molto diverso. Cecchi era scrittore di formazione e di ingegno sostanzialmente romantici; di fronte alla realtà sembrava provare una sorta di eccitazione del sovrasenso, dell’archetipo, di ciò che si nasconde nell’oscura matrice (“e il mondo non è che un’immensa reliquia”). Formazione e ingegno di Brandi sono invece sostanzialmente razionalistici. È anch’egli sensibile al favoloso, ma si tratta di un favoloso non perdutamente mitico o originario, sibbene sempre analogico, che si colloca nelle misure di un mondo perfettamente verificabile con la mente e la bussola dei sensi.[14]

In effetti i libri di viaggio brandiani sono difficilmente catalogabili in rigorose tassonomie letterarie, il critico e il viaggiatore, lo storico dell’arte e lo scrittore, il docente e il giornalista vi si compenetrano dando vita a un agile racconto odeporico, mentre gli ampi costrutti ipotipotici, che pure si nutrono di una filigrana lessicale non priva di tecnicismi, vibrano di una curiosità aperta, in grado di affascinare il lettore. La prosa di Brandi è certamente lontana dalla medietà dei registri, ma sa assumere un tono ‘leggero’, legato all’osservazione vibratile della realtà e dell’oggetto artistico, generalmente descritto nel suo valore estetico come nella sua concretezza materica (la stessa attenzione alla materia presente nei Dialoghi e nella Teoria del restauro). Al tempo stesso i sussulti e le stupefazioni, la vocazione analogica, le chiose e le lumeggiature dello studioso, la capacità di attraversare il tempo e lo spazio propria dell’uomo colto che, non chiudendosi rigorosamente nel suo studio, ama viaggiare e percorrere l’ecumene, non si esauriscono in un pedante descrittivismo. Se Brandi non dimentica mai una certa postura intellettuale, la sua pagina è certamente filtrata dalla pratica giornalistica e dal brillante elzevirismo praticato per il ‘Corsera’. Non manca, in questa singolare odeporica, un coinvolgimento sensoriale che, oltre a determinare una retorica dello sguardo sempre attenta alle vibrazioni luministiche, annette particolare attenzione al paesaggio sonoro, agli odori e persino ai sapori. È stata notata, nella pagina brandiana, la vocazione alla reduplicazione e all’iterazione, una cifra stilistica che potrebbe esser connessa al rispecchiamento di quanto osservato nelle lenti sensibili e colte dello scrittore-viaggiatore, per il quale «l’emozione si arricchisce di un sovrasenso che coincide con la realtà, la duplica, e la rivela nella sua essenza, arcana ed a un tempo accessibile. E la medesima azione compiono i grandi artisti, di cui il critico era interprete e fedele».[15]

La prima opera odeporica pubblicata da Brandi è Viaggio nella Grecia antica, del 1954. Un libro breve e in buona parte incentrato, come avvertiva Cecchi, su alcune questioni dirimenti per la storia dell’arte: la dura critica del restauro, fantasioso e certamente non filologico, degli edifici neopalazziali di Cnosso realizzato da Sir Arthur Evans; la paternità dell’Hermes di Olimpia che sarebbe da attribuire, almeno in parte, allo scalpello di Prassitele; le ipotesi sugli autori del complesso scultoreo di Olimpia, uno dei maggiori dell’antichità. Nonostante la rigidità del costrutto il particolare tono brandiano, la libertà di scrittura che lo studioso si concede nei libri di viaggio, la descrizione talvolta demistificante dei luoghi cantati dai classici auctores sono ben presenti in questa prova esordiale. E se l’avvicinamento alla Grecia suscita una forte emozione nel viaggiatore che si rappresenta sgomento ripensando ai nomi delle antiche città,[16] la descrizione del fiume Alfeo, luogo mitico che riconduce alla memoria del quinto libro delle Metamorfosi di Ovidio, sminuisce decisamente il sito riportandolo alla dimensione di una quotidiana prosaicità, lontana da ogni vagheggiamento idilliaco o arcadico:

Ancorché il letto dell’Alfeo, l’Alfeo stesso, fiumana inquieta e giallognola, di portata magra ad onta delle piogge, non avesse alcuna particolare attrattiva di colore, di curve, di svolgimento. Assai più esiguo dell’Arno, intriso di banchi di sabbia e di sassi come il rivolo d’acqua biancastra che esce dal mucchio di farina da impastare e che la donna argina con una mano, e quella, poca e dispettosa, trabocca da un’altra parte. Tale il fiume che s’inabissa sotto l’Ionio e andrebbe a riscappare a Siracusa per congiungersi alle acque dell’Aretusa: ma, codeste, gelidamente oraziane, sempre in gara con vetri, cristalli, sotto gli ombrellini dei papiri. Qui non papiri sulle rive ma dalle rive in su quali tiepide colline; quale maestà nelle macchie di pini e di cipressi, non graziosità bucolica, o caso mai quello che s’attenderebbe dall’Arcadia.[17]

Il passo, un po’ farraginoso, è emblematico della prima scrittura odeporica brandiana: presto lo stile nominale, le cadenze paratattiche, le riprese anaforiche che giungono ad iterazioni ternarie prolungando così un’emozione o un’idea avrebbero raggiunto un maggiore equilibrio, una più calcolata alternanza con l’ipotassi. Ma il ripetersi di analogie o valori sinestetici inconsueti e stravaganti rimarrà sempre la cifra inconfondibile della prosa del senese: «come il rivolo d’acqua biancastra che esce dal mucchio di farina da impastare», «gelidamente oraziane», «gli ombrellini dei papiri». E se le strutture ecfrastiche, le digressioni descrittive sono la sostanza di ogni testo odeporico, naturalmente più incline alla mimesis che alla diegesis,[18] colpisce che queste siano generalmente caratterizzate da analogie anacronistiche, come se lo storico dell’arte non resistesse alla tentazione di esibire un’erudizione che trascende e forza decisamente i limiti temporali. Esemplare di questo procedimento è la descrizione dell’Ermes d’Olimpia, in cui Brandi scorge lo scarto stilistico tra il corpo, forse oggetto di rifaciture, e il modellato della testa, che sarebbe da attribuire alla mano di Prassitele:

E prima di fermarmi ai frontoni, quasi con occhi bassi per non vederli, corsi a cercare l’Ermes. Subito fui colpito da quello che non avevo letto nei suoi detrattori come negli apologeti. Il trattamento della testa è diverso da quello del corpo. La testa, checché ne dicano gli archeologi, che credono di saper distinguere infallibilmente se una statua fu pensata in marmo o in bronzo, una testa simile è nel marmo che fu concepita come un pulcino dentro l’uovo. Quella testa è più vicina a Leonardo di qualsiasi suo allievo lombardo, ha il sorriso della Sant’Anna del cartone di Londra, avvince l’aria e la contamina come d’un vapore tenero e bluastro, e si modella entro quel fluido vespertino come e più che nel marmo. Chi ha scolpito quella testa non è un copista e non è un mediocre; la riduzione del chiaroscuro a sfumato non è la pomata che ci vollero vedere Barrès e Maillol, ma la trasformazione della materia e del volume in un continuo trapasso luminoso che è transito di aria e di luce. La scultura che né Leonardo né il Correggio ispirarono, che il Manierismo raggelò in forme eburnee e guizzanti di luci, è quella che si vede nella testa dell’Ermes.[19]

Come ogni libro di viaggio brandiano anche Viaggio nella Grecia antica è trapunto da un ricco sistema intertestuale, da ricordi letterari e citazioni che connotano i luoghi rappresentando paradigmaticamente l’habitus erudito dello scrittore: non si tratta di superfetazioni o di una compiaciuta ostentazione letteraria, ma di rimemorazioni che appartengono profondamente al repertorio dello studioso, che ne determinano lo sguardo e sono investite di quell’affettività di cui parlava Julia Kristeva nel suo Semeiotiké.[20] Il viaggio verso la Grecia inizia, tradizionalmente, da Brindisi, cittadina non particolarmente ricca d’arte, che l’autore, tuttavia, descrive affascinato dal sito e dal mare, soffermandosi sulle celebri colonne che segnalavano la fine della via Appia. Di fronte a quei rocchi viene naturale a Brandi la citazione letteraria: «Orazio e Virgilio che si danno l’addio, fra quelle colonne massicce, sono un duetto mancato al nostro fornito melodramma».[21] Altra folgorante rimemorazione è incastonata nella descrizione del disordinato e confusionario porto di Atene, un luogo che non suscita compiacimenti estetici ma che evoca nel critico d’arte le parole di Platone: «Questo è il Pireo: che a me, tuttavia, fu sempre caro, lo si può credere, a causa di quell’inizio della Repubblica su cui Platone artista ritornò, scontento, e la morte lo colse: “Discesi ieri al Pireo insieme con Glaucone…”».[22] Nel libretto si susseguono le rappresentazioni di Creta e Micene, di Atene e Olimpia, dei grandi musei e dei complessi statuari che vi sono custoditi. Sono memorabili le pagine dedicate al Partenone che si scorge da ogni angolo di Atene; il lamento per la pietra cretese che si sfalda determinando la scomparsa di importanti testimonianze archeologiche; la netta presa di posizione affinché l’Inghilterra restituisca alla Grecia i marmi di Fidia trafugati da Lord Elgin. Il viaggio nell’Ellade si configura, per lo studioso, come un regressus ad uterum, ben rappresentato nel passo dedicato all’ingresso nel Tesoro di Atreo, dove colpisce una delle forti analogie coniate da Brandi:

Tornando verso Corinto, c’è da vedere le tombe, delle quali la più grande, detta il Tesoro di Atreo o di Agamennone, conservatissima, immane, supera la più cedevole attesa. Per presentarla, bisognerebbe cominciare, piuttosto che dai riferimenti egizi, che ne fanno sentire l’imponenza superba ma solo monumentale, dalla sensazione quasi ineffabile di penetrare nel ventre della terra. […]. Bisogna poi guardarsi da credere che quella specie di pube rovesciato che sta sull’architrave, e che ora è pube e vagina al tempo stesso, si dovesse vedere, perché era coperto da un rilievo, forse sul genere di quello della Porta dei Leoni; cosicché, in fin dei conti, è quasi tutta un’estrapolazione la nostra. Ma, io credo, impossibile a evitare. Che poi l’ingresso nello stupendo uovo, immenso trullo che quasi sembra roteare, nelle regolarissime righe delle assise dei conci, come un palèo, convalida in pieno. È veramente l’alveo della terra, questa tomba di Atreo, la natura della natura.[23]

Dopo gli esordi i libri di viaggio brandiani si fanno più ampi e distesi, sempre scanditi in paragrafazioni che costituiscono le tappe, le soste, le descrizioni dei luoghi meritevoli d’attenzione nell’ambito di più ampi itinerari. Per altro, se Viaggio nella Grecia antica era caratterizzato da una topografia organica (in mancanza di precise notazioni cronologiche), così non sarà per i libri successivi: Città del deserto, ad esempio, esibisce un titolo che ha la funzione di accomunare diversi itinerari, dalle città antiche e moderne di Libia a Beirut, dal deserto siriano alla splendida Petra, fino alla Terra Santa, descritta tappa per tappa. È questo il primo testo odeporico in cui Brandi ricorre, ripetutamente, all’uso delle epigrafi, elemento paratestuale che ha la funzione di anticipare e connotare la narrazione,[24] il cui studio sistematico, qui, vorrebbe almeno un altro saggio: nel libro del 1958 la letterarietà del testo si assomma dunque alle raffinate tarsie citatorie che vanno dal libello catulliano all’elegiaco Properzio, dai simbolisti francesi allo Zibaldone di Leopardi, fino all’Antico e Nuovo Testamento, costantemente evocati nella visita a Gerusalemme ed ai luoghi santi. Vere gemme descrittive, ampie ipotiposi che non rinunziano al consueto apparato erudito, sono le pagine dedicate a Leptis Magna, alle sue rovine ed ai suoi estesi edifici termali.

Discorsi simili si potrebbero fare per i libri successivi, a partire da Pellegrino di Puglia del 1960, recentemente ripubblicato e prefato da Massimo Onofri che ha messo in evidenza la distanza del Brandi viaggiatore nel Sud Italia dall’imperativo dell’impegno e dalla temperie neorealista. Certo è impossibile accomunare prosa e contenuti brandiani ai testi di Tommaso Fiore, Rocco Scotellaro o Giovanni Russo, ma è da dire che la vis polemica del coltissimo storico dell’arte, la sua indignatio civile che guarda alle testimonianze artistiche e si adopera per l’integrità architettonica e paesaggistica italiana nascono da un senso quasi risorgimentale di ascesa della nazione, dal credo nella funzione civilizzatrice della cultura. Coglie decisamente nel segno Onofri quando parla della «prosa di secondo grado» che caratterizza le opere del senese:

Insomma: quella di viaggio è sempre, per Brandi, una prosa di secondo grado. E che vive di complesse, seppur velocissime, mediazioni: le mediazioni di una storia dell’arte e dell’architettura intimamente rivissute, certo, ma anche quelle di una più vasta ed articolata storia della cultura.[25]

La peculiare prosa dello studioso, dopo Pellegrino di Puglia, si manifesta in una ricca successione di testi odeporici, Verde Nilo, opera densa di notazioni sull’arte egizia, Martina Franca, libro in cui lo sguardo torna a concentrarsi sulla Puglia, sul suo barocco e sui trulli di Alberobello, A passo d’uomo, dove la geografia dei viaggi o delle esperienze dell’autore si allarga smisuratamente, senza più alcuna preoccupazione di organicità e contiguità tematica, al punto che dalla descrizione di un notturno romano si trascorre al già ricordato scritto Il significato, dalle isole Egadi e dalla fenicia Mozia si giunge alle prose dedicate alla Russia ed al Portogallo. Il lontano Oriente, la Persia, la Cina e il Giappone sono invece rappresentati nel trittico Budda sorride, Persia mirabile e Diario cinese.

La più tarda delle opere brandiane è Sicilia mia, un volumetto pubblicato per i tipi Sellerio nel 1989, poco dopo la morte dell’autore.[26] Nel 1960 lo storico dell’arte aveva lasciato la direzione dell’Istituto Centrale del Restauro, ormai ben avviato, per dedicarsi alla docenza universitaria, e avendo vinto la cattedra a Palermo ebbe modo di conoscere profondamente l’isola, esplorandone sia la parte occidentale, caratterizzata dal permanere di testimonianze normanne e gotico-catalane, sia le città orientali, ricostruite, dopo il distruttivo terremoto del 1693, da architetti del calibro di Vaccarini, Battaglia, Palazzotto, Ittar, Gagliardi, Sinatra e Labisi. Non va sottovalutato che lo studioso esplorò sistematicamente la Sicilia proprio negli anni del cosiddetto boom economico, della cementificazione, del ‘sacco di Palermo’, della violenta trasformazione dei paesaggi rurali, urbani e delle coste. E forse lo stesso titolo del libretto, connotato dall’uso del possessivo, rende l’afflato e le emozioni ambivalenti che legavano lo studioso all’isola. Secondo Marcello Carapezza, nell’uso della determinazione «mia» si può scorgere sia una sfumatura possessiva ed affettiva che una connotazione dolente e patemica:

Ma veniamo finalmente a questo libro che è completamente diverso da tutti gli altri, sia in quella che abbiamo chiamato collocazione spaziale e temporale, sia nella struttura del titolo. Sicilia mia è quasi un grido; quell’aggettivo possessivo e bruciante posto dopo il nome Sicilia denuncia immediatamente una partecipazione così diversa dell’autore da sentirvi subito amore e odio. Non più il verde del Nilo, il mirabile della Persia, ma appunto quel grido, mia, che emergerà lentamente e sicuramente da tutti gli scritti. Non appena il libro riguarda la Sicilia, cessa immediatamente ogni rapporto d’estraneità pur adorante, pur appagata, per essere sostituito da un bruciante possesso. Sicilia mia dunque, e chi conosce Brandi sa con quanto amore, con quanta rabbia, con quanta conoscenza, questo possesso è avvenuto. Il libro è dunque diverso da tutti gli altri. Neppure per la Toscana Brandi avrebbe detto così forte mia.[27]

Brandi, dunque, consimile a tanti scrittori e intellettuali siciliani che hanno investito di valenze ambigue l’isola materna e matrigna, a un tempo grembo e prigione? Possibile, data la lunga permanenza del critico d’arte a Palermo e, soprattutto, la veemenza delle denunzie contro l’offesa continua al patrimonio artistico isolano, la cui eco è ben ravvisabile nelle pagine di Sicilia mia.

Nello scritto liminare, Viaggio in Sicilia, che assolve alla funzione di prefazione, l’isola è vista come luogo del mito e della mitopoiesi:

Per chi un viaggio in Sicilia non ha rappresentato un premio, o quasi il compimento di un voto? L’uomo non ha cessato, neanche nei tempi storici, di favoleggiare sulla Sicilia, che è la terra stessa del mito: qualsiasi seme vi cada, invece della pianta che se ne aspetta, diviene una favola, nasce una favola. Si pensi a cosa era diventato Giuliano: un bandito, sia pure, ma così vicino al mito da superare la sua sorte […]. Ma perché la cosa accadeva in Sicilia: in qualsiasi altro luogo sarebbe rimasto un bandito senza aggettivi, e la sua morte un fatto collegato alla vita abominevole che aveva condotto. Questa è la forza e la spontaneità del mito siciliano.[28]

In Viaggio in Sicilia lo studioso fa sintesi dei luoghi più significativi dell’isola e dei loro valori artistici, come a voler restituire al lettore una prima, coltissima veduta a volo d’uccello sviluppata poi, tappa per tappa, nei singoli paragrafi del libro. Ma già in queste pagine l’immagine mitica dell’isola trova il suo contrappunto nei tanti guasti, nelle manomissioni e nelle violenze odierne. Palermo è identificata con la Zisa, la Cappella Palatina e soprattutto con i nitidi stucchi del Serpotta; Agrigento, Segesta e Selinunte con i loro delubri dorici; Trapani col paesaggio delle saline; Piazza Armerina, naturalmente, con i complessi musivi della Villa del Casale; Messina con le tavole di Antonello, il grande pittore in grado di far sintesi, nel XV secolo, della perspectiva artificialis, della cultura cromatica veneziana e dell’analisi lenticolare dei fiamminghi. Nella descrizione di Noto e del suo aereo barocco non manca un accento di forte indignazione per le violente giustapposizioni moderne:

Noto, la bellissima Noto ricostruita saggiamente in altro luogo dopo che un terremoto l’aveva rasa al suolo: Noto, tutta una città del Settecento, con scalinate, chiese, palazzi, bellissimi selciati […], lei che era uscita indenne dalla guerra, con l’offesa del grattacielo, che si pone fra i piedi negli sfondi più allettanti, guasta irrimediabilmente un’unità stilistica che è poco dire rara, e un’unità poetica quasi unica.[29]

Raffinata è la descrizione di Catania, la città che nel Settecento, grazie alla forte personalità di Vaccarini e dei suoi collaboratori, si è data un’architettura di respiro europeo, che lo scrittore pone in rapporto con l’opera musicale di Bellini:

Da Siracusa, il passo è breve, a Catania, anch’essa risorta dopo un terremoto, e per fortuna sotto la guida di un notevolissimo architetto settecentesco, il Vaccarini, e quanto sia cresciuta armonica la città, ancorché con varie offese edilizie, è difficile crederlo, proprio in relazione a queste offese, solo in parte belliche, si noti; ma come non andare a sincerarsene in via dei Crociferi, questa strada settecentesca pari in bellezza alle strade più famose, via Nuova a Genova, via Tornabuoni a Firenze? E qui si può incontrare a passeggio Vincenzo Bellini, che rapì al Settecento le sue grazie più rare, in un secolo, il suo, che di Settecento non voleva più saperne. Catania ha scritto sulla sua tomba, e perfino con le note, toccante ingenuità, le parole celebri della Sonnambula: «Ah, non credea mirarti si presto estinto, o fiore!», quelle parole che hanno da lui ricevuto una delle melodie più accorate e pure, d’una purezza che fa pensare, se non alla musica, ai lirici greci, a Saffo, melodia sublime.[30]

Significative le parole che Brandi spende per Giacomo Serpotta, straordinario modellatore di stucchi le cui opere possono vedersi solo in Sicilia, in particolare negli oratori palermitani di Santa Cita, del Rosario di San Domenico e di San Lorenzo.

Giacomo Serpotta, Oratorio del Rosario, Chiesa di San Domenico, Palermo

Il trasporto brandiano è ben giustificato dal valore dell’artista settecentesco e delle sue sculture, descritte in seguito anche da Vincenzo Consolo nelle pagine di Retablo:

E cosa sia il Settecento a Palermo, quando a Goethe sembrò sommersa dalla spazzatura, ma con quali ori in quella spazzatura: e il Serpotta, il più grande scultore del Settecento, aereo quasi, e gentile come Watteau e sorridente e leggiadro, eppure mai sfiorato dalla nausea dell’Arcadia, ma in quel sorriso, in quella grazia, in quella levità dimostrando la bellezza ellenica dell’Antologia Paladina. In nessun altro luogo potrete vedere le sue figure, in nessun altro luogo il bianco puro di questi stucchi vi potrà solleticare lo sguardo, perché il Serpotta, questo Tiepolo della scultura è solo a Palermo.[31]

Dopo questa ouverture, Sicilia mia tratta monograficamente diversi aspetti artistici, monumentali e paesaggistici che è possibile osservare tra i tre classici limites di Pachino, Peloro e Lilibeo. In Un’isola verde attorno all’Etna lo sguardo si sofferma sui paesi di Adrano, Bronte, Maniace e Randazzo. Anche qui Brandi s’indigna scorgendo sul Duomo di Adrano una struttura di cemento ch’egli chiama «sterco d’arpie», ovvero lo scheletro di un campanile faraonico e incongruo che solo di recente è stato demolito.[32] Lo scrittore si sofferma poi su Randazzo, il paese medievale alle falde dell’Etna che per la sua posizione non è mai stato lambito dalle lave e che aveva già meritato, nel 1909, una monografia illustrata di De Roberto pubblicata nella collana Italia Artistica dell’Istituto di Arti Grafiche di Bergamo diretta da Corrado Ricci.[33] In Corale siciliano il critico ricorda opere emblematiche di carattere pittorico o architettonico, menzionate in affascinante cumulatio: la Cappella Palatina di Palermo, il Triumphus mortis di Palazzo Sclafani e il grande dipinto Fuga dall’Etna dell’amico Guttuso. Nella sezione Itinerario architettonico è incastonata l’ampia descrizione della catanese Via dei Crociferi.

Via Crociferi a Catania

Dopo averne tratteggiato con attenzione le vicende costruttive e in particolare lo scontro del vescovo Riggio col Senato cittadino per la realizzazione del cavalcavia di San Benedetto, dopo aver messo in evidenza il valore di Vaccarini, lo studioso sottolinea come i prospetti chiesastici non si allineino con regolarità lungo l’asse stradale, ma leggermente sghembino in una barocca complicazione degli spazi, alla ricerca di calcolati effetti scenografici: «In via dei Crociferi […] non si avrà l’effetto di “interno” vagheggiato nelle vie di Lecce, ma le più impensate composizioni di spazi, che forse sia dato ammirare in una strada».[34] I movimenti concavi e convessi degli edifici sono analizzati anche in rapporto agli effetti luministici che determinano:

Nella luce trafiggente del mezzogiorno siciliano, per cui le ombre, avide di riflessi, sono una luce appena meno intensa, una luce in minore, i risalti gonfi delle colonne, gli sbattimenti delle cornici e dei timpani acquistano cordonature d’aria densa, come l’acqua che resta nelle rocce dopo la mareggiata, e lentamente svaporando imbianca.[35]

Un’atmosfera densa, dunque, una luce meridiana diffusa ma priva, almeno nell’intatta via Crociferi, di ogni natura di tenebra, come a risarcire lo sguardo posatosi su tante ferite inferte al paesaggio architettonico e naturale della Sicilia.

 


1 C. Brandi, Viaggi e scritti letterari, a cura di V. Rubiu Brandi, Milano, Bompiani, 2009.

2 Ivi, pp. 1417-1418.

3 Questi i libri poetici pubblicati dallo storico dell’arte: C. Brandi, Poesie, prefazione di G. Raimondi, Siena, Giuliani Editore, 1935; C. Brandi, Voce sola, Roma, Edizioni della Cometa, 1939; C. Brandi, Elegie, Firenze, Vallecchi, 1942.

4 Per le innovazioni che la Scuola di Costanza ha apportato alla teoria della ricezione cfr. R.C. Holub (a cura di) Teoria della ricezione, Torino, Einaudi, 1989.

5 C. Brandi, Teoria del restauro, Torino, Einaudi, 2000, p. 6.

6 Ivi, p. 33.

7 E. Garroni, ‘Arte e vita. Note in margine all’estetica di Cesare Brandi’, Giornale Critico della Filosofia Italiana, fasc. I, gennaio-febbraio 1959, p. 174.

8 Quanto alla nascita della disciplina stilistica nell’alveo della critica d’arte cfr. A. Compagnon, Il demone della teoria, Torino, Einaudi, 2000, pp. 179-211.

9 C. Brandi, Viaggi e scritti letterari, pp. 743-744.

10 C. Brandi, ‘Il significato’, in Id., Viaggi e scritti letterari, p. 745.

11 R. Barthes, L’impero dei segni, Torino, Einaudi, 1984.

12 Cfr. G. C. Argan, Storia dell’arte come storia della città, Torino, Einaudi, 1983.

13 E. Cecchi, ‘Verde Nilo’, Corriere della Sera, 28 giugno 1963.

14 G. Pampaloni, ‘La storia abitata dalla poesia’, prefazione a C. Brandi, Città del deserto, Roma, Editori Riuniti, 1990.

15 G. Pampaloni, La storia abitata dalla poesia, p. 30.

16 C. Brandi, Viaggi e scritti letterari, p. 7.

17 Ivi, p. 63.

18 Per una moderna rilettura della tradizionale contrapposizione tra mimesis e diegesis cfr. almeno G. Genette, Figure II. La parola letteraria, Torino, Einaudi, 1972, p. 31 e Ph. Hamon, Semiologia, lessico, leggibilità del testo narrativo, Parma, Pratiche Editrice, 1984, pp. 79-80.

19 C. Brandi, Viaggi e scritti letterari, p. 54.

20 Cfr. J. Kristeva, Semeiotiké. Ricerche per una semanalisi, Milano, Feltrinelli, 1978.

21 C. Brandi, Viaggi e scritti letterari, p. 6.

22 Ivi, p. 23.

23 Ivi, p. 52.

24 Cfr. G. Genette, ‘Le epigrafi’, in Id., Soglie. I dintorni del testo, a cura di C. M. Cederna, Torino, Einaudi, 1989, pp. 141-153.

25 M. Onofri, ‘Prefazione’ a Pellegrino di Puglia, Roma, Editori Riuniti, 2002.

26 C. Brandi, Sicilia mia, con una nota di M. Carapezza, Palermo, Sellerio Editore, 1989.

27 M. Carapezza, ‘Introduzione’ a C. Brandi, Sicilia mia, pp. 1-12.

28 Ivi, p. 19.

29 Ivi, pp. 26-27.

30 Ivi, pp. 28-29.

31 Ivi, p. 22.

32 Ivi, p. 33.

33 F. De Roberto, Randazzo e la Valle dell’Alcantara, Bergamo, Istituto di Arti Grafiche, 1909.

34 C. Brandi, Sicilia mia, pp. 128-129.

35 Ivi, pp. 129-130.