L’opera di Cesare Brandi, storico dell’arte, docente e teorico del restauro, non si limita alla saggistica accademica: oltre ai testi di critica d’arte e ai trattati teorici non mancano gli scritti di carattere autobiografico, le raccolte poetiche e i libri di viaggio. La peculiare declinazione dell’odeporica proposta da Brandi in pieno Novecento costituisce forse l’articolazione più originale del suo lavoro, un aspetto che adesso è possibile rileggere nella silloge Bompiani curata da Vittorio Rubiu Brandi.[1] Non sono poche le opere brandiane che fanno cadere la tradizionale distinzione tra i generi e che, anche quando trattano monograficamente l’opera di un artista, vibrano di una forte letterarietà. Del resto, se la biografia intellettuale di Brandi ha intersecato quella di Ranuccio Bianchi Bandinelli e quella di Giulio Carlo Argan, fin dagli anni giovanili non sono mancati al futuro storico dell’arte stimoli e frequentazioni letterarie, in primo luogo quella che veniva da Federigo Tozzi. Oltre alla conoscenza personale dello scrittore senese, autore di romanzi come Tre croci e di raccolte liriche ricche di riferimenti iconici, risale agli anni fiorentini la frequentazione del gruppo di Solaria e dei letterati che si riunivano alle Giubbe Rosse, tra gli altri Montale, Gadda e Vittorini. In seguito non sarebbe mancata l’amicizia con Emilio Cecchi e l’incontro con Carlo Levi, scrittore e pittore alla cui opera lo studioso ha dedicato un saggio assai penetrante.[2] Particolarmente intenso è stato il rapporto con Montale: il critico d’arte e il poeta erano accomunati dalla passione per il melodramma e dalla frequentazione del Corriere della Sera, per il quale furono entrambi brillanti elzeviristi.
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