Cos’è, nel fondo,
l’arte
e che, parola,
viva materia,
subito colore
Giovanni Testori
1. Testori oltre i confini
Adesso, quando scriveva, si trovava le mani impiastrate di nero, proprio come se disegnasse. Forse era questa l’unica somiglianza possibile tra i due mezzi più contrastanti della sua crudele, non richiesta e, comunque, insaziata e insaziabile vocazione. Perché, quanto ai risultati (se di risultati poteva veramente parlarsi), la diversificazione riusciva addirittura flagrante […]. Come se, al momento del concepimento, in quella buia frazione d’eternità, la natura avesse disposto che, dal coito dei genitori, là, in quel letto, sarebbero dovute apparire non una, ma due creature; e tutte e due con diversa, ma ugualmente cieca necessità di farsi, insieme che polpa, artefici; anzi artisti.[1]
La descrizione del protagonista del romanzo-poema La cattedrale (1974), scoperto alter ego dell’autore indicato nel testo semplicemente come ʻlo Scrittoreʼ, racchiude in poche, folgoranti battute l’essenza della «doppia vocazione»[2] di Giovanni Testori.
Come lo scrittore del suo romanzo, anche il grande intellettuale di Novate fu infatti una ʻcreatura bicefalaʼ che, con la spregiudicatezza che gli era usuale, fin dalla giovinezza degli esordi percorse senza sosta zone liminali, oltrepassando i confini porosi e permeabili tra arti sorelle, ma non per questo privi di precise linee di demarcazione.
La parabola artistica di Testori si snoda nell’arco di mezzo secolo: cinquant’anni di ininterrotta attività condotta nel segno di un indissolubile intreccio degli ambiti creativi, di una vigorosa necessità di ʻsfondamentoʼ delle barriere semiotiche, stilistiche, espressive, che convenzionalmente separano forme artistiche differenti. Il dato più evidente riguardante l’autore lombardo è senza dubbio il suo ingegno poliedrico, la sua capacità di rivolgere il proprio ardore creativo sia verso il ʻfuocoʼ della scrittura (esplorata dal racconto al romanzo, dalla poesia alla drammaturgia, dal giornalismo alla critica d’arte) sia verso quello della pittura (scoperta da giovanissimo, intorno ai quindici anni, e praticata per tutta la vita attraverso cicli sempre nuovi: di fiori, di tramonti, di pugilatori, di crocifissioni, etc.).[3]
Tanto la vocazione letteraria e drammaturgica, quanto quella figurativa, rispecchiano le alterne vicende che segnarono la sua febbrile esistenza, così come i molteplici aspetti della sua personalità creativa, costantemente protesa alle ʻinvasioni di campoʼ tra discipline diverse.
Agli occhi del fruitore come a quelli del critico l’orizzonte espressivo testoriano si presenta pertanto frastagliato, magmatico, mutevole, animato da «spinte aulico-barocche e da controspinte espressionistico-vernacolari»[4] al livello della pagina, frantumato in un’estrema varietà stilistica e di soggetti sulla superfice della tela.
Il persistente mutamento di lingue, stili e invenzioni nel percorso artistico di Testori è l’esito di un incontenibile slancio a sperimentare e a sperimentarsi, il segno di un’irrequietezza, di una vitalità produttiva che tuttavia non gli impedì affatto una ʻsedimentazioneʼ dei contenuti, o meglio quell’occorrenza testarda, a tratti ossessiva, con cui tornò sempre su precisi nuclei tematici, manifestando un fermento che, seppur diverso nei generi e nelle forme, è unico nei problemi e negli interrogativi che lo inverano e lo sostengono.
Alla luce di quanto detto, possiamo già rilevare un primo tratto caratteristico nell’attività dello ʻscrivano’ lombardo: la cifratura multipolare del suo talento non lo escluse, di fatto, dalla possibilità di elaborare una visione e un pensiero organici, germinati attorno alle domande-chiave dell’esistenza (il senso della vita, del nascere e del morire), e audacemente amplificati, dilatati semanticamente, dalla ricchezza espressiva del proprio universo ʻperformativoʼ. Detto in altri termini, la diversità degli approcci (testuale e figurativo) in Testori si configura come forza creatrice, plus valore, trigger di un’esteroflessione prismatica del fare artistico, che si pone trasversalmente ai codici, sostanziandosi in una póiēsis autenticamente plurilinguistica.
Sulla base di queste considerazioni, ci appare del tutto adeguato ascrivere l’intellettuale Testori all’ampia e articolata categoria del ʻdoppio talentoʼ[5] (quello che in tedesco si definisce Doppelbegabung), elaborata nel contesto degli studi di cultura visuale, in relazione alle figure intermediali degli scrittori-artisti e degli artisti-scrittori. Proprio la prospettiva sviluppata in ambito comparatistico ci consente di analizzare il particolare ʻsdoppiamentoʼ espressivo dell’autore, esaminandolo attraverso la lente degli strumenti ermeneutici messi in campo dall’emergente settore dei visual studies.
Se è pur vero il presupposto, ormai acquisito in letteratura, che testi e immagini si configurano sempre come «mixed media»,[6] contenitori ibridi in cui si condensano, spesso (ri)combinati in vertiginosi assemblaggi, codici differenti, pratiche discorsive, elementi sensoriali e cognitivi, non si può comunque obliare la lezione generale della semiotica, secondo la quale esistono differenze fondamentali tra verbale e visuale a livello di segni, forme e tradizioni istituzionali.[7]
L’eterna ricerca di un’analogia tra linguaggi diversi, sin dalle prime indicazioni warburghiane, è stata resa specifico oggetto di studio dalla comparatistica internazionale e dalle filologie nazionali, al punto tale che oggi si possono distinguere con sufficiente chiarezza vari ambiti di indagine interartistica. Tra questi, oltre al già citato settore del ʻdoppio talentoʼ, in cui l’esperienza di scrittore-pittore dell’intellettuale di Novate trova solida e indubbia collocazione, va preso in considerazione anche e soprattutto l’ambito dell’ékphrasis: pratica fondamentale della scrittura testoriana, in cui si sostanzia quell’incontro libero tra arte e letteratura proprio della sua officina ʻoltre i confiniʼ.
Certamente la più tradizionale forma di rapporto tra le discipline sorelle, l’ékphrasis, nella sua storia plurisecolare è stata variamente interpretata e praticata: si va dalla semplice citazione di un’opera d’arte in un testo (la cosiddetta ʻdenotazioneʼ), alle vite d’artista dispiegate in un bildungsroman; dal confronto diretto tra segni verbali e visuali (nei fototesti ad esempio), alle varie tecniche di narrativizzazione/drammatizzazione/dinamizzazione delle immagini tramite le parole (si pensi al caso esemplare di Diderot che letteralmente ʻpasseggiaʼ nei paesaggi di Vernet mentre li descrive,[8] o al lessico cinematografico adottato dal critico Roberto Longhi). A fronte di un largo spettro teorico delle forme storiche di ékphrasis (frutto di un approfondimento d’analisi che ha avuto luogo soprattutto in area anglosassone e tedesca), qui si vuole intendere la pratica ecfrastica secondo il significato e la funzione specifici che essa assume nel contesto della Visual Culture contemporanea.
Come hanno scritto due dei padri della teoria moderna dell’ékphrasis:
Un tempo liquidata come superflua, o derisa come puro artificio retorico, l’ékphrasis adesso sembra presentare infinite opportunità per la scoperta del senso […]. Sempre, ovviamente, ci sono stati tentavi di espandere o contrarre il significato di ciò che l’ékphrasis significa: la descrizione di un’opera d’arte, una vivida presentazione di una scena, sia essa naturale o inventata (la cosiddetta ékphrasis nozionale), la rappresentazione a parole di una rappresentazione visuale.[9]
È sufficiente quest’estratto della brillante analisi di Bartsch e Elsner per riassumere la crucialità che il dispositivo ecfrastico ha ormai acquisito nella teoria letteraria, divenendo un punto assolutamente ineludibile per le sue ramificazioni semiotiche, narratologiche e tematologiche.
Tornando al Nostro, gli approcci più interdisciplinari alla scrittura di Testori hanno già rilevato l’abbondante presenza di inserti ecfrastici all’interno del suo macrotesto, il quale appare irradiato da sguardi figurativi e metafore pittoriche, che ingemmano senza posa la fisionomia barocca, carnale e materica della sua parola. Si tratta di ékphrasis più o meno esplicite e perciò variabilmente individuabili, anche se di norma sono riconducibili a quei temi ricorsivi della sua mitopoiesi che hanno una chiara ascendenza iconografica.
Tra questi è centrale il motivo del sangue e della Croce, tanto che le variazioni sull’actus tragicus del Golgota coinvolgono tutto l’artista Testori: dai disegni stilizzati del Christus patiens, di evidente matrice matissiana, che pubblica nel ʼ45 per un’edizione delle Laude di Jacopone da Todi; al ciclo di venti opere grafiche sullo stesso tema dell’81, in cui Testori «riesce a fondere San Juan de La Cruz e Grünewald»;[10] dal saggio Cristo e il samurai dell’85, racconto critico dell’incontro col pittore giapponese Kei Mitsuuchi e con la «catastrofica immanenza di bellezze abbracciate e assassinate»[11] delle sue Crocifissioni; alla serie di poesie Crux che accompagnano il ciclo di Croci dell’artista austriaco Arnulf Rainer, scritte in occasione della sua mostra a Venezia nell’86. Non meno iterativo è il ricorso al tema della madre e del mistero della nascita (una «lunga catena di madri»[12] attraversa l’ampia produzione teatrale testoriana, così come la cappella della Crocifissione di Gaudenzio Ferrari, primus inter pares dei suoi ʻpadriʼ pittori);[13] e a quello del corpo umano trafitto dallo strazio della carne (si pensi al «pezzo di carne sfatta e morente»[14] del Riboldi Gino di In exitu o alla visione apocalittica che insiste su degradazioni, pustole e ferite del poemetto Dies illa), dolorosamente vicino all’arte «deformata, urlante e stropicciata»[15] del suo amato Francis Bacon, o alla «bellezza deformemente solenne e deformemente sublime»[16] dei ritratti dell’amico, anch’esso apprezzatissimo, Willy Varlin.
Ma come funziona la rappresentazione verbale di una rappresentazione visuale nella prassi scrittoria di Giovanni Testori? E, soprattutto, su quali presupposti culturali si fonda e che tipo di sguardo da parte dell’autore è in grado di (ri)attivare?
Risponderemo per gradi a queste domande, dimostrando anzitutto quanto sia consustanziale, osmotico e intermediale ante litteram il dialogo che Testori instaura tra scrittura e linguaggi della visione.
2. Le ʻreciproche illuminazioniʼ dell’immaginario testoriano
Nell’intervista che apre il volume di Giovanni Cappello dedicato a Testori, interrogato dallo studioso su quali siano i suoi padri in ambito letterario, l’autore novatese risponde con la perentoria dichiarazione «i miei padri sono tutti pittori»;[17] subito dopo ci ripensa, si corregge, precisa che «nella letteratura forse gli Elisabettiani […]. Degli italiani Gadda, che però risulta prevedibile»; ma la risposta fatalmente ricade sugli amori figurativi, specificando: «A me piacciono moltissimo i lombardi. L’ultimo Tiziano, l’ultimo Caravaggio».
L’arte lombarda del Cinquecento e Seicento è chiaramente il background espressivo entro cui Testori colloca e legge l’intera sua opera, a conferma della marcata impronta figurativa che segna, inter et intus, l’evoluzione della sua eclettica storia creativa.
Ma facciamo un passo indietro. All’inizio degli anni Cinquanta Testori è conosciuto soprattutto come pittore e critico d’arte; in questo campo si era mosso fin da giovanissimo: i primi disegni autografi reperiti risalgono al 1941[18] e nello stesso anno pubblica, firmandosi Gianni Testori, i primi scritti d’arte su «Via Consolare», rivista legata al gruppo forlivese di «Puttuglia». Il battesimo ufficiale come critico militante arriverà dopo l’incontro, volutamente cercato dal giovane di Novate,[19] con il grande critico e storico dell’arte Roberto Longhi, fondatore e direttore della prestigiosa rivista «Paragone»; colui che gli suggerì, con la lungimiranza propria dei veri maestri, di scrivere quel saggio Su Francesco del Cairo,[20] con il quale Gianni esordirà sulle pagine di «Paragone» nel marzo del ʼ52.
Lo scritto dedicato al pittore milanese del Seicento, alla «poesia negra e tragica» delle sue possenti silhouettes, è già esplicito incubatore di viscerali suggestioni visive, ʻraggrumateʼ attorno al tema cairesco della testa «stroncata», mozzata, che, dal romanzo d’esordio Il dio di Roserio (1954), passando per il poema I Trionfi (1965), fino alle tre versioni teatrali dell’Erodiade (1969, 1984, 1993) si confermerà come ossessione verbo-visiva ricorrente nella produzione narrativa e poetica dello scrivano lombardo.[21]
I primi anni Cinquanta sono dedicati prevalentemente all’analisi delle tele dell’amico Ennio Morlotti: Testori scrive su di lui un saggio critico, Appunti su Ennio Morlotti, apparso anch’esso su «Paragone» nel settembre del ʼ52, e cura la plaquette della tappa milanese della sua mostra Paesaggi del ʼ54.
Lo studio dell’artista lecchese, la lettura appassionata di quel suo ‘naturalismo di partecipazione’ nel quale convergono, dialetticamente interrelate, le lezioni di Cézanne e di Picasso, vengono assimilati, ripensati e amplificati nella scrittura dell’intellettuale, al punto che, nel primo esperimento narrativo, il già citato dio di Roserio, Testori realizza una particolare scomposizione sintattica dal sapore vistosamente, e di certo non casualmente, cézanniano-cubistico-morlottiano. Raccontando delle rutilanti corse in bicicletta del ʻdioʼ Pessina e del suo gregario Consonni, giù dalle valli che circondano Milano, Testori scrive di «un rimbalzo di placche d’acciaio, di frammenti di fili, di incroci, di curve, di ottoni, di spade, di pareti trasparenti, di imbuti, di ceramiche, di comignoli acuti, di punte, di aghi, di matasse liquefatte e sudate, di luci, di raggi, di sprazzi, di platini»;[22] la violenta esplosione di dettagli conferisce alla pagina un ritmo franto e affannosamente sincopato, espressione di una tecnica scrittoria che mima le spezzature geometrizzate di Cézanne e la scomposizione di Picasso, la sua prospettiva multipla e deflagrata.[23]
L’omologia strutturale tra l’assetto sintattico del dio e la coeva ispirazione cézanniana, picassiana e quindi morlottiana, trova esplicita conferma sulle tele del Testori pittore, che già negli anni Quaranta aveva realizzato diverse opere (la Crocifissione del ʼ44, Le polacche, La bella giardiniera, Bambino con colomba, Maternità, etc.) dove lo spazio bidimensionale, le fratture drammatiche e la semplificazione delle forme recano il ricordo dei grandi cubisti, ma rielaborato in maniera del tutto personale.
Siamo andati indietro fino ai primi passi da commentatore d’arte di Giovanni Testori per dimostrare come, già a quest’altezza cronologica della sua avventura umana e professionale, si palesino arditi ʻtravasiʼ dall’ufficio critico alla pagina letteraria, ovvero dalle suggestioni artistiche assorbite in quegli anni ai motivi e alle tecniche elaborati in sede scrittoria.
Già l’esordio narrativo mostra, all’interno di un’operazione decisamente originale, una naturale disposizione ad un approccio visivo che poggia sull’arte figurativa; e, d’altro canto, nell’officina testoriana esiste anche un ʻriflussoʼ in senso opposto, per cui, come ha opportunamente rilevato Giorgio Patrizi, «[in Testori] le abili, efficaci, costruzioni linguistiche, trasposte dallo specifico letterario a quello degli scritti d’arte acquistano identità fortemente ambigue».[24]
La tradizione degli scrittori d’arte vanta in Italia, nel Novecento, un nutrito novero di esempi illustri, e certamente non è casuale se molti di questi si sono formati sotto il magistero storico-artistico di Roberto Longhi; Anna Banti, Pier Paolo Pasolini, Alberto Arbasino, Giorgio Bassani, Attilio Bertolucci, appartengono tutti alla stessa ʻfamiglia letteraria longhianaʼ, e le impronte del grande critico sono chiaramente rinvenibili all’interno dei loro testi.[25]
Anche Testori fa parte del ʻclubʼ, legato com’era allo studioso albese da un «rapporto personale»[26] in cui ricevette «un bene enorme in tutti i sensi, culturale e umano».[27] Eppure quello dell’intellettuale di Novate non è soltanto il caso di un autore e critico che riprende il modello espressivo della scrittura del maestro; certamente in lui c’è anche questo aspetto, ma a differenza degli altri allievi la discendenza longhiana di Testori risulta costantemente contaminata, ʻincistataʼ si direbbe, con una personale e dirompente pulsione visuale, una tensione figurativa che, come gli esempi sopra hanno dimostrato, innerva dal principio la pagina dello scrivano, quale che sia il suo linguaggio di elaborazione.
Ecco allora che Testori arriva a distaccarsi dal maestro per affinare una prassi critica che, divergendo dal paradigma longhiano fondato sulla geometria della forma e sul passaggio dal figurativo a «una rappresentazione mentale traducibile in segni discreti»,[28] punta invece a scavare nella ʻcarneʼ delle immagini,[29] a piombare nel profondo della materia pittorica, per effondere poi da questo scavo viscerale quell’eloquenza figurale e figurativa caratterizzante il suo particolare ʻdoppio talentoʼ.
Quello che qui si vuole mettere in evidenza è che, nel suo percorso creativo sui generis, Testori non fu soltanto capace di praticare e di scrivere l’arte, ma si spinse decisamente oltre, operando delle vere e proprie traslazioni semiotiche, frutto dell’assorbimento costante e famelico di codici segnatamente visivi; codici che vanno a improntare una lingua fisiologica, carnale, anti-letteraria, (tra)fitta di immagini-verbali, di simbolismo, di metafore plastiche, del tutto sciolta dai limiti delle convenzioni comunicative.
Per esempio, se si sceglie di guardare alla scrittura per il teatro, si nota che è soprattutto dai pittori del manierismo piemontese e lombardo del Cinquecento e Seicento, dalla loro figuratività ulcerata e sanguinante e dai loro violenti chiaroscuri, che Testori assorbe quell’aria delle stragi e delle pesti, quell’atmosfera di apprensioni, incubi e agonie che dà forma al suo senso tragico, esalando in questo prestiti figurativi di sanguigna carica semantica, quali il ventre, la testa, il corpo concepito tra piaghe e ferite. Potremmo dire che è guardando al sentimento di catastrofe innica che promana dalle opere di Cerano, al realismo fondato sulla morale di Tanzio da Varallo, insieme a quel «teatro dello strazio e del sangue»,[30] quel gran teatro montano che è il Sacro Monte di Gaudenzio Ferrari, che Testori delinea il suo personale mondo drammatico, rendendo dialettico, profondo e irrinunciabile anche il rapporto tra la dimensione dell’arte e quella drammaturgica.
L’orizzonte espressivo della pittura è il setting materico in cui maturano e prendono forma le sue idee, o meglio le sue visioni, di carattere letterario; in cui, a partire dallo sprofondamento in un lessinghiano ʻmomento pregnanteʼ dell’immagine, l’autore carpisce e rielabora, per verba, l’auratica immanenza delle forme pittoriche, intrecciando suggestioni e pratiche artistiche fino a creare una fitta trama di intersezioni e rimandi all’interno della propria produzione.
Il ʻcasoʼ Testori ci appare quindi quello di un ʻdoppio talentoʼ che si estende ben oltre la sola dimensione della duplice vocazione scrittura-pittura; la cui traslazione intermediale dalle arti figurative a quelle della pagina impone di aggiungere alla qualifica di creatività doppia, la più stringente, e di certo più complessa, definizione di ʻconcrescenza geneticaʼ delle opere, ovvero della loro collaborazione e co-genesi.[31] Lo studio del ʻdoppio talentoʼ ha infatti una valenza particolare se si guarda alla fase della genesi dei prodotti artistici, che può essere contestuale e sincronica tra lavori verbali e figurativi (è il caso di Testori, per esempio, per quanto riguarda il ciclo di disegni della testa del Battista, contemporaneo alla stesura dell’Erodiade I), oppure asincronica, variamente differita nel tempo.
In ambedue le circostanze, senza cadere nell’errore di uniformare i linguaggi, e senza arrivare ai generi misti dell’iconotesto e dell’iconismo, possiamo affermare di trovarci di fronte a quella «reciproca illuminazione tra le arti»,[32] che è insieme un abbraccio e una lotta, un muto soccorso e, per converso, un’aperta battaglia tra parole e immagini, e che di certo spiega il dinamico gioco di richiami, corrispondenze e sguardi ecfrastici all’interno del corpus testoriano.
Prima di addentrarci nell’analisi di particolari casi di concrescenza genetica nell’attività dello scrivano, vale la pena riprendere quanto lo studioso Michele Cometa ha scritto a proposito di questo fenomeno che, lungi dal disconoscere la sostanziale intraducibilità delle singole arti, sposta l’antica questione dell’ut pictura poësis su un piano completamente nuovo:
La “concrescenza genetica” – di cui in futuro sapremo forse spiegare oltre che gli aspetti tematici e formali anche i presupposti cognitivi – è il fenomeno che più di ogni altro ci permette uno sguardo sui punti ciechi del verbale e del visuale, si potrebbe dire sull’ovvio e l’ottuso della creatività laddove – forzando un po’ il significato che a questa endiadi ha dato Roland Barthes – si tratta di far agire, nel verbale come nel visuale, proprio le zone di reciproca opacità, “l’imperfezione” delle loro grammatiche, l’elemento sovversivo che, disintegrando le sicurezze dell’ut pictura poësis, trova nella debolezza ontologica dell’arte lo spazio infinito dell’inveramento del senso.[33]
È proprio il deficit ontologico, e dunque espressivo, delle singole arti a razionalizzare le pratiche di collaborazione, co-genesi, ʻcompletamentoʼ o ʻreciproco soccorsoʼ, dinnanzi alla comune inadeguatezza, sia del dicibile che del visibile, dei segni rispetto ai significati.
Analizzato in questa prospettiva il ʻdoppio talentoʼ di Giovanni Testori rivela nuovi punti di interesse, poiché, se da un lato è assodata la componente ecfrastica della sua scrittura, quella che, per dirla con Calvino, è «la parte visuale dell’immaginazione letteraria [prodotta dal] mondo figurativo trasmesso dalla cultura ai suoi vari livelli»,[34] dall’altro non è stata ancora adeguatamente riconosciuta e studiata quell’osmosi ispiratrice/creatrice, quella reciproca ʻilluminazioneʼ tra visualizzazione e verbalizzazione del pensiero, su cui si costituisce, di fatto, l’intero imaginary testoriano.
3. Una poesia pittorica: ékphrasis e concrescenza genetica
Facendo ricorso alle recenti acquisizioni della Visual Culture, siamo arrivati a mettere a fuoco una triplice declinazione del singolare ʻdoppio talentoʼ di Giovanni Testori: in quanto scrittore-pittore o (la proprietà commutativa è d’obbligo in questo caso) in quanto pittore-scrittore, in quanto autore che ha utilizzato la tecnica dell’ékphrasis in buona parte della sua produzione, e infine in quanto artista squisitamente verbo-visivo, i cui linguaggi si sono evoluti nel segno di una vicendevole concrescenza genetica. Abbiamo anche detto della persistenza di una forte carica visiva nella sua scrittura, tanto intensa, ʻcarnaleʼ e materica da divenirne tratto paradigmatico. Adesso vorremmo soffermarci sull’analisi di alcuni casi specifici di ékphrasis e di concrescenza genetica nel macrotesto dell’autore, scelti per la loro efficacia cognitiva ed ermeneutica rispetto ai modi della sua espressione artistica, ovvero a quel legamento diretto tra la linea dello sguardo e quella della mano che scrive.
Se il lessico testoriano si presenta sempre come una tavolozza interlinguistica, colorata da parole ʻcromaticheʼ, è in particolar modo nella produzione poetica che il rapporto tra testi e immagini si fa più esplicito. Laddove in altri luoghi della sua opera il transito di motivi pittorici nella semantica letteraria, o la vera e propria descrizione di soggetti artistici nella trama delle frasi e delle parole, sono più occulti, allusivi, la pagina poetica testoriana si presenta sovente come un’evidentissima zona di confine, soglia scoperta del desiderio verbale proteso a carpire l’essenza di un amore figurativo.
Nel rapporto tra la poesia testoriana e l’arte possiamo distinguere due momenti principali. La prima fase inizia nel 1965 con il grande poema I Trionfi, in cui sono centrali i riferimenti a La zattera della Medusa di Géricault e ai dipinti di Tanzio da Varallo; prosegue nello stesso anno con le due versioni delle Suite per Francis Bacon poi confluite nel poemetto Crocifissione (sede delle ékphrasis più esplicite a livello di riferimento iconico e più citate della poesia testoriana), e si chiude nel ʼ66-ʼ67 con la raccolta incompiuta Dies illa, contenente due liriche dedicate al genio di Caravaggio: La decollazione di Malta che richiama il quadro Decollazione del Battista, e Stanze per la “flagellazione” di San Domenico Maggiore, dedicata al maestro Roberto Longhi e riferita alla caravaggesca Flagellazione di Cristo.
Abbandonato il barocchismo che è stato rilevato come «identificazione figurale»[35] della prima raccolta, tra il ʼ68 e il ʼ76 Testori sperimenta una poesia diversa, di estrema semplicità linguistica ma straordinaria forza espressiva.[36] Anche qui le ʻspinteʼ figurative, seppur non si concretizzano in veri e propri momenti ecfrastici, continuano a premere sulla sua penna poetica, tra allusioni michelangiolesche (nella raccolta A te, di poco precedente al saggio Un uomo in una donna, anzi uno dio – 1975 –, che Testori dedica alle Rime del Buonarroti), e lampi verbali sulle atroci figurazioni di Grünewald (nel libro di poesia Nel tuo sangue, non a caso parallelo al saggio Grünewald, la bestemmia e il trionfo, scritto come presentazione del volume sull’opera omnia dell’artista tedesco, edito da Rizzoli nel ʼ72). Nelle raccolte seguenti[37] le suggestioni figurative si fanno più criptiche, più sfumate, oppure si presentano con richiami storici o topografici ad opere ben precise, talvolta non facili da individuare senza l’ausilio delle note dell’autore.[38]
Il secondo momento cruciale del rapporto testoriano tra poesia e pittura va dall’85 al ʼ92 quando l’intellettuale novatese, con un’ennesima variante dei suoi sconfinamenti espressivi, invece di scrivere dei saggi introduttivi ai numerosi cataloghi d’arte o plaquettes che firma in questo periodo, sceglie spesso di comporre delle raccolte di poesie ad hoc, nelle quali discorso critico e astrazione poetica si fondono in un unico metro linguistico. È a questa altezza cronologica che si colloca la singolare raccolta Maddalena (1989) ispirata dall’omonima mostra fiorentina del 1986, che si presenta come un «sunto, strozzatissimo, di storia dell’arte»,[39] volto ad accompagnare il percorso dell’effigie della Maddalena nei secoli, da Duccio e Masaccio fino a Bacon e Grünewald.
Come dicevamo, a questa seconda fase appartengono anche e soprattutto i componimenti originariamente pubblicati in cataloghi o edizioni d’arte, poi riuniti sotto il titolo di Segno della gloria,[40] che fanno riferimento agli artisti contemporanei al centro dell’attenzione critica dello scrittore durante quegli anni.[41] Proprio attingendo a questa raccolta, in genere poco frequentata nelle analisi poetologiche sull’opera di Testori, abbiamo individuato alcuni exempla paradigmatici di ékphrasis articolata in forma lirica.
La poesia Fiori, che Testori dedica ai celebri ʻfioriʼ del pittore Giorgi Morandi,[42] si apre con una loro rappresentazione verbale:
La rosa che si disfa,
la margherita che non è appassita,
quella che appassirà,
la margherita che è di già finita,
il papavero che al fiato
levissimo cadrà,
l’ombra dei vasi
che non fa rumore,
la primula trepida, smarrita,
il gemere della foglia
che è ferita
parallelo al gemere
della paziente vita,
lo spazio che sgretola la mente,
la lunga crepa, la silente,
il tarlo
come amarlo
se non sapendo
che anche l’ossa di noi
piano piano roderà
come i tuoi fiori? […][43]
I versi, spezzati in rime libere, scandiscono un susseguirsi di visioni. Lo sguardo poetante di Testori dapprima si focalizza, in close up, sui singoli fiori ʻmorentiʼ che compongono i languidi bouquets del pittore bolognese; poi, con una tecnica emozionale, melodrammatica, propria della sua versificazione, dilata o meglio prolunga semanticamente il disfacimento floreale, collegandolo a quello dell’esistenza umana. Pur partendo dalla volontà di intessere un colloquio particolare con l’opera dell’artista, sembra che Testori non riesca a non allargarsi, a non ʻdeflagrareʼ, verso quei nodi concettuali che lo ossessionano da sempre.
D’altronde, com’è stato già rilevato, lo scrivano non può prescindere da un rapporto di consustanzialità tra il proprio animus poetico e la sostanza delle tele da cui è affascinato, innescando una dinamica ʻsimpateticaʼ tra sé e l’opera che qui lo conduce, tramite l’appropriazione ecfrastica, ad un’amplificazione del senso dell’immagine vertente sul parallelismo: geme la foglia ferita dei fiori, così come geme la vita erosa dal tarlo della morte. L’ékphrasis dell’opera di Morandi contiene inoltre due tratti caratteristici della poesia testoriana: il ricorso al paradigma della natura filtrato attraverso impressioni emozionali, e quello che Luca Doninelli, parlando delle liriche di Ossa mea, ha definito l’«asse verticale del linguaggio [generato da una] filiazione fonematica».[44] È sul piano verticale delle rime dalla sonorità sillabica ʻitaʼ, ʻappassita-finita-smarritaʼ, che si sviluppa il climax del disfacimento dei fiori; di una rosa, una margherita e una primula dalle foglie ferite, bagnate dalla luce morandiana impalpabile e gessata che già le immerge nell’eternità e nel silenzio propri delle ʻcose’ morte. Ecco quindi che, a ben guardare, il linguaggio dell’ékphrasis di Testori non descrive un verticalismo di slancio, pinnacolare, ma al contrario di caduta, di precipizio, di fatale degradazione della materia, e perciò dell’uomo, che solo la speranza della Resurrezione in qualche modo può riscattare.
Dalle immagini di una struggente morte vegetale si passa, in un altro componimento inserito nella stessa raccolta, alla violenta descrizione di una macellazione animale.
La poesia Trittico del toro è dedicata da Testori all’omonima opera dell’amico Giancarlo Vitali. Classe 1929, quest’ultimo fu pittore schivo e appartato, che per tutta la vita lavorò in solitudine nella piccola Bellano, sulle sponde del Lago di Como, fino a quando nei primi anni Ottanta fu proprio Testori a scoprirlo e stanarlo dall’isolamento.[45] Il ʻBellanascoʼ, come lo aveva soprannominato il suo mentore d’eccezione, nel 1984 sulla scia di Rembrandt e Soutine dipinse un trittico di dirompente drammaticità, raffigurante le spoglie ʻcrocifisseʼ di un grande toro squartato. L’ékphrasis lirico-ermeneutica di Testori non tardò ad arrivare, espressa in tre altissimi componimenti, dei quali riportiamo i versi che riteniamo più icastici:
I
Croma-enormità
ematico splendore,
pustola di grumi,
coralli,
garofani
rubini,
vergogna svergognata
dall’impossibilità
a ribellarti,
là,
nel mattatoio
dell’ultimo muggito:
perché,
mentre ti sceglievano,
perché
non sei fuggito? […]
II
Cadde
dicono
riverso
in un urlo-mare,
marea
tempestante
naufraga maledizione,
hâima dell’epos
necessario
dicono
al nostro esistere
e sussistere anche. […]
III
Punti la carcassa
verso la tomba
che mai avrai.
Solo toro
sangue-oro,
dici,
testifichi anzi:
l’avete fatto
anche a colui
che vi salvava.
Ti cola
dalla carcassa,
in qualche modo santa,
l’ultima viola bava.[46]
I temi della Crocifissione, del sacrificio, della colpa, della scandalo e della vergogna, della redenzione raggiunta col martirio, del corpo di Cristo ʻinchiodatoʼ al destino agonico della Croce, della parola come urlo bestiale e sofferente, del sangue che gronda dalle viscere, della testimonianza di una verità carnale e profetica, sono tutti evocati insieme in un’unica visione poetica.
Il Trittico del toro è un caso apicale di concentrazione di simbolismo figurativo nel ʻcanzoniereʼ di Testori; espressione di uno sguardo ecfrastico capace di trascendere in toto quello naturale, di scrutare dentro l’immagine al punto da vedere ʻal di làʼ del dipinto, per estrarre e fare affiorare la sua verità, la sostanza immanente di ciò che è raffigurato.
Così Testori ci dice che sulla tela di Vitali il Cristo, la vittima sacrificale, è diventato anche bestia, toro, che il suo gemito di dolore è anche un muggito, un urlo animale annegato in una marea di sangue. Attraverso la ritmica cadenza di rime e assonanze, talvolta allitterazioni dalla fonia amplificata (vergogna-svergognata, mare-marea, dici-testifichi), la performance ecfrastica di Testori dispiega uno sguardo interpretativo e per nulla mimetico; uno sguardo che non cerca l’equivalenza verbale del visibile ma la captazione della viva pittura, di una materia fatta di tinte sontuose («croma-enormità», «ematico splendore», «coralli», «garofani», «rubini») e di forme brutali, straziate, ridotte a «carcassa verso la tomba», di un animale che, proprio in grazia di questo sguardo, assurge a icona, a simbolo, a idolo di una religiosità trascendente.
Penetrare con le parole nella ʻcarneʼ delle immagini per Testori sembra essere l’unico modo, o di certo il più autentico, per superare una visione estatica o descrittiva e arrivare a vedere oltre il dato esperibile. Pertanto il componimento sottende una logica dell’ékphrasis intesa come strategia immaginativa ed ermeneutica tale per cui vi trova riscontro l’ipotesi formulata dallo studioso Riccardo Donati, secondo il quale lo sguardo poetante di Testori possiede i tratti distintivi di uno sguardo-avvento:[47]
Proprio nella misura in cui ogni corpo offeso e vituperato è specchio integrale dell’umana abiezione, esso appare agli occhi di Testori come la massima testimonianza possibile del divino, il luogo dove la verità – ossia la bellezza, che nel sistema di valori dell’autore, non può che essere feroce e sacra insieme, “turbata di avvento” come scrive Bigongiari – avviene, si fa. Il corpo è infatti il “principio d’individuazione, per Testori, di ogni esistenza, di ogni destino, dato del bios da cui si sprigiona la stessa Storia dell’uomo, sempre in nome dell’evangelico e giovanneo “La Parola che si fa carne”: principio ora dissacrato, ora benedetto, ora incomprensibile alla natura umana, ora sprofondato nel mistero di un Dio incarnato”.[48]
Pur essendo riferita soprattutto ai corpi nudi caravaggeschi, che Testori ha intensamente indagato, l’interpretazione dello studioso fiorentino ci pare del tutto pertinente anche per il corpo-carcassa del toro di Vitali: nucleo agglomerante, agli occhi dell’autore, di una cristologia insieme ʻpositivaʼ e ʻnegativaʼ, che ha in sé la sanguinante coesistenza di santità e peccato, di salvezza e dannazione. Lo sguardo-avvento di Testori ʻapreʼ il corpo stesso dell’immagine e vi coglie un valore sacrale, distinguendo la fisionomia ambigua di un idolo impuro, dissacrato e benedetto, che, ancora con Donati, «[ha in sé] l’infimo e il sublime, la materia più vile e quella più preziosa».[49] A partire da uno ʻscavo estesicoʼ in una certa datità fisica lo sguardo-avvento del poeta Testori rivela un senso ultramondano e assoluto, riconoscendo nella «viola bava» che cola dall’animale squartato la traccia ematica dell’incarnazione di Cristo, la testimonianza eidetica della radice divina dell’esistenza, che l’atto ecfrastico, in quanto forma specifica del vedere l’arte, riesce a illuminare.
Con i componimenti Fiori e Trittico del toro si è voluto isolare due momenti emblematici dell’ékphrasis poetica testoriana, tuttavia la riflessione su queste liriche ci consente di estendere l’esemplificazione anche al fenomeno delle concrescenze genetiche nell’immaginario dell’autore. Nel 1964, dopo quattordici anni di silenzio figurativo, Testori riprende improvvisamente la sua attività artistica. Dapprima si abbandona a rapidi schizzi naturalistici che ʻfiorisconoʼ ai lati delle parole nel manoscritto dei Trionfi[50] poi, senza soluzione di continuità, passa a delle serie di fiori e vegetali (i soggetti sono rose, gigli, dalie, ortensie, etc.), tra le quali c’è un disegno, Fiori appassiti, che mostra un vaso colmo di gambi collassati e corolle disfatte.
Siamo nel 1965 e l’ékphrasis ʻdecadenteʼ della poesia per Morandi è ancora lontana, ma evidentemente il motivo della morte vegetale ha già preso forma nell’immaginario dell’autore, creato da un doppio movimento verbale-figurativo che parte dai versi dei Trionfi (dove i temi della natura e del disfacimento sono ricorsivi) e arriva alle serie di disegni coeve (nelle quali, oltre ai già citati Fiori appassiti, vi sono anche diverse Rose di Saint-Sulpice in evidente stato di putrefazione). I ʻfioriʼ dei Trionfi che letteralmente escono dalle pagine del poema per divenire disegni autonomi dimostrano chiaramente la concrescenza genetica tra parole e immagini che esiste nell’officina di Testori, ed anche che la loro ʻcollaborazioneʼ può essere tanto intensa e complice da far sì che proprio dalla scrittura rinasca, impetuosa e intrattenibile, la passione per l’arte.
Oltre a questo dispiegarsi parallelo di visioni letterarie e figurative, nel corpus del Nostro vi sono anche importanti episodi di concrescenze genetiche asincroniche, tra i quali spiccano le opere nate dallo sguardo continuo e molteplice (letterario/poetico/pittorico/saggistico) rivolto ai cieli infiammati dai tramonti.
Tra le occorrenze tematiche più frequenti dell’espressionismo di Testori senza dubbio vi è il motivo del tramonto, prolungato in simbologie ossessive, in metafore ritornanti volte all’espressione dei nuclei ideologici fondamentali, in tutto l’arco del suo orizzonte intermediale. Ancora una volta, però, è nella poesia che l’origine percettiva ed emozionale del suo codice melodrammatico determina un ricorso più esteso, quasi ipertrofico, all’immagine verbale del tramonto; a cominciare da quel grande ʻinno alla materiaʼ che è I Trionfi, dove quasi sempre è utilizzata in abbinamento a quella, testorianissima, del sangue, in quanto trait d’union estensivo tra i motivi dell’impeto della nascita e della dolorosità dell’esistenza.
Nasci col sangue,
intriso di ditate e imbratti,
lenzuola inumidite dai tramonti
che le arterie dilatano dai polsi,
dalla carne che batte,
dalla bocca che si torce, grida,
cerca aiuto nella pressione lacerante
d’un medico qualunque
o dell’ombra indifferente
dell’infermiera di turno;
nasci nel dolore,
intriso di desideri subito imprecati
nell’ansia di darti subito vita. [….]
Nasci nel lago d’un tramonto;
il sole sangue,
il sangue che è sole d’alba
e più alto ancora […].[51]
Nel «magma ribollente e luminoso»[52] dei Trionfi il ricorso alla simbologia del tramonto e del sangue per esasperare, in tono melodrammatico, i temi della nascita e della morte è quanto mai persistente. Versi quali: «l’agonia d’ogni giorno / per giungere come ombre / fino a sera / più giù dei fuochi disumani / che rombano, / derimono e spaccano le croste delle cime»;[53] «biondo sole che scendi, […] e lì finisce, muore, / in agonie di sangue»;[54] «Ora la forza brucia della vita, […] nel crepuscolo di sangue»,[55] esprimono l’intensità e la quantità della riflessione testoriana sul travaglio dell’esistenza e la sua consunzione, ma, con immediato contrasto, anche sull’energia vitale dell’uomo.
L’impressione emozionale del sole che volge all’occaso, la sua icastica e ostensiva fascinazione, premono a tal punto nell’immaginario testoriano da ʻtracimareʼ oltre la misura (pur sempre sintetica, anche se colma di una quantità barocca) della composizione poetica, espandendosi in un gioco di forme e colori attraverso la figuratività pittorica. Non è casuale se, appena due anni dopo la galleria di crepuscoli insanguinati dei Trionfi, Testori torna ad utilizzare il colore nei suoi lavori d’arte con una serie di dodici acquarelli raffiguranti altrettanti tramonti.
Realizzati su cartoncini di piccole dimensioni in cui il colore, sanguinante di rosso cupo o scarlatto, si spigiona sull’intera superficie del foglio, i tramonti testoriani catturano e ʻeternizzanoʼ, nel tempo cristallizzato della pittura, il momento dell’emorragia della «dolce ferita / inferta all’orizzonte / dal dio clemente».[56] La pennellata degli acquarelli testoriani è molto densa e restituisce un senso di accumulo e sfaldamento della materia pittorica: dai soli morenti aggrappati all’orizzonte gronda il colore-sangue in stille lacrimali, per poi disperdersi tra le onde del mare, annegato nella livida immensità del suo spazio liquido.
Le scene vivide e plastiche delle masse solari che si ʻsciolgonoʼ nel riflesso dell’acqua sono di grande efficacia visiva, e possiedono una tensione narrativa che trova nel concetto di ʻdinamizzazione dello sguardoʼ[57] una convincente ermeneutica. Anche le immagini infatti, pur rappresentando un attimo sospeso, un evento immobile in cui ʻtutto accade sotto i nostri occhiʼ, possono acquisire una dimensione temporale e narrativa grazie agli sguardi che si attivano intorno ad esse. Sia lo sguardo dell’osservatore, sia quello dello scrittore nel caso dell’ékphrasis, muovendosi sull’immagine, percorrendola e ʻentrandovi dentroʼ riescono a creare effetti di dinamizzazione, di messa in moto delle sue micro-narrazioni latenti.
La dinamizzazione dei tramonti di Testori, che nel loro punctum temporis riassumono un preciso movimento del sole, è affidata alla ʻperformanceʼ del nostro sguardo di osservatori, ma in qualche modo è anche prefigurata dai versi dei Trionfi, dove lo sguardo poetico che si dischiude sull’occaso è già incubatore della visualità futura. A conferma di questa dinamizzazione, per cui le immagini si vivificano dinnanzi allo spettatore, uno degli acquarelli della serie si intitola Tramonto (Actus tragicus), quasi a indicare che, per l’artista Testori, la forza dell’arte sta nel concentrare in un unico istante uno sviluppo drammaturgico. Il titolo ecfrastico scelto da Testori esplicita la dimensione narratologica del dipinto e ne suggerisce una dinamizzazione di carattere teatrale; inoltre, nel suo rapporto con l’opera a cui si riferisce esemplifica la cooperazione fra parola e immagine che lega i tramonti dei Trionfi a quelli degli acquarelli: nati da un unico esprit creativo ma nei diversi modi del poiein e del dipingere, esprimono la stessa dolce malinconia dell’autore, il suo caratteristico ʻmagoneʼ, dinnanzi all’ultima luce del giorno.
Anche in questo caso, quindi, ci troviamo di fronte alla traslazione di segni e significati, alla co-genesi, seppur non contestuale, tra opere poetiche e figurative, per cui l’immagine verbale del tramonto insanguinato, insieme al suo potente messaggio metaforico, balza fuori dalle stringhe dei versi e si ʻincarnaʼ nella fibra coloristica dell’arte.
Se poi si considera anche il fatto che, dai Trionfi e dagli acquarelli della seconda metà degli anni Sessanta Testori tornerà sempre, alternando linguaggio verbale e visuale, sull’imago del tramonto (nelle poesie successive, nei drammi teatrali, nella sceneggiatura dell’Amleto che si apre su un «tramonto di sangue»,[58] nel saggio d’arte Quei tramonti sul lago dedicato alle vedute varesine di Guttuso, fino ai tramonti-incendi dell’ultimo romanzo, Gli angeli dello sterminio, e ai piccoli acquerelli con tramonti leggeri, appena accennati, dipinti poco prima della morte), ecco allora che risulta lampante quanto il suo mondo immaginale, liberato da confini semiotici o letterari, sia determinato da una straordinaria strategia intermediale, in cui vocazione letteraria e figurativa si rincorrono, si abbracciano, si sustanziano reciprocamente.
Nell’universo espressivo del grande intellettuale lombardo la concrescenza genetica tra arti in parola e arti in figura è una questione del tutto ineludibile che, insieme a una specifica pratica dell’ékphrasis, interpretativa, emozionale, rivelatoria, definisce la fisionomia proteiforme del suo eccezionale ʻdoppio talentoʼ.
Attraverso l’analisi dei case studies selezionati, con i quali si è voluto dar prova della tesi formulata sulla creatività testoriana, ci sembra di individuare proprio nell’ultimo esempio affrontato, ovvero il motivo letterario-iconografico del tramonto, una sorta di epitome dell’intera costellazione tematica dello scrivano, un filo rosso-sangue nel percorso zigzagante delle sue variazioni che, in fondo, tendono tutte verso un unico punto.
I raggi-lacrime dei soli morenti di Testori, raccontando della morte simbolica del giorno, distendono una luce interpretativa su tutta la sua ricerca artistica; laddove, con la parola o con l’immagine, egli ha sempre declinato lo stesso concetto: l’incarnazione di Cristo e pertanto il senso della fine, della cenere, seguito però, come il tramonto è seguito dall’alba, da quello della gloria, della Resurrezione.
È così che poco prima di morire, osservando le memorabili ʻBagnantiʼ dell’amico Ennio Morlotti, Testori è colpito proprio dall’intenso tramonto che abbraccia donne e paesaggio, e quest’estremo amore figurativo si invera in un pensiero poetico-pittorico: una consapevolezza dolce e terribile sulla verità dell’esistenza.
Forse una speranza troppo carnale e, insieme, troppo totale, ci sorreggeva e ci spingeva; quasi la vita non avesse dovuto finir mai. Tuttavia sapevamo, e sapevamo assai bene, che essa era così violentemente bella proprio perché tratteneva già in sé il suo finire; già allora, infatti, ogni volta essa finiva; come la luce, quando il giorno s’accomiata e dice addio; o quando, al sopraggiungere dell’alba, là, nel cielo, una a una, le stelle si spengono.[59]
1 G. Testori, La cattedrale, in Id., Opere 1965-1977, a cura di F. Panzeri, Milano, Bompiani, 1997, pp. 1074-1075.
2 M. Cometa, Al di là dei limiti della scrittura. Testo e immagine nel “doppio talento”, in M. Cometa, D. Mariscalco (cura di), Al di là dei limiti della rappresentazione. Letteratura e cultura visuale, Macerata, Quodlibet, p. 52.
3 Per un primo approccio al percorso pittorico di Testori si veda: L. Carluccio (a cura di), Giovanni Testori, catalogo della mostra (Torino, Galleria Galatea, 16 novembre - 18 dicembre 1971), n. 115, Torino, 1971; C. Garboli (a cura di), Testori 1973 - 1974, catalogo della mostra (Milano, Galleria del Naviglio, 25 maggio - 3 giugno 1975), Milano, Edizioni del Naviglio, 1975; Giovanni Testori: la notte oscura, catalogo della mostra (Aosta, Tour Fromage, 3 aprile - 27 giugno 1993), Sonzogno, Fabbri Editori, 1993; A. Toubas (a cura di), Giovanni Testori. I segreti di Milano, catalogo della mostra (Milano, Palazzo Reale, 28 novembre 2003 - 15 febbraio 2004), Cinisello Balsamo, Silvana editoriale, 2003; D. Dall’Ombra (a cura di), Giovanni Testori. Una vita appassionata, Cinisello Balsamo, Silvana editoriale, 2003; D. Dall’Ombra, A. Piazzoli (a cura di), Giovanni Testori. I pugilatori, catalogo della mostra (Bergamo, sede centrale Creberg, 11 - 31 maggio 2013), Bergamo, Fondazione Credito Bergamasco, 2013.
4 G. Raboni, ʻIntroduzioneʼ, in G. Testori, Opere 1943-1961, a cura di F. Panzeri, Milano, Bompiani, 1997, p. XII.
5 Cfr. M. Cometa, Al di là dei limiti della scrittura. Testo e immagine nel “doppio talento”, in M. Cometa, D. Mariscalco (a cura di), Al di là dei limiti della rappresentazione. Letteratura e cultura visuale, pp. 47-75.
6 W.J.T. Mitchell, Picture Theory: Essays on Verbal and Visual Representation, Chicago, University of Chicago Press, 1994, p. 94.
7 Oltre alla storica contrapposizione, che deriva alla cultura occidentale dalla Poetica di Aristotele e dalla Repubblica di Platone, tra la rappresentazione, legata a valori spaziali, e la narrazione, legata a valori temporali, poi sviluppata soprattutto dal filosofo tedesco Lessing (cfr. G. E. Lessing, Laocoonte, a cura di M. Cometa, Palermo, Aesthetica, 2007); in tempi più recenti uno dei maggiori teorici contemporanei dell’ékphrasis, Murray Krieger, ha sottolineato la differenza tra i ʻsegni naturaliʼ, cioè mimetici, delle arti visive, e i ʻsegni arbitrariʼ propri dei linguaggi verbali (cfr. M. Krieger, Ekphrasis: the illusion of the natural sign, Baltimore, Johns Hopkins University Press, 1992).
8 Cfr. D. Diderot, La promenade Vernet, a cura di M. Modica, Milano, Nike Edizioni, 2000.
9 S. Bartsch, J. Elsner, ʻIntroduction: eight ways of looking at an ekphrasisʼ, Classical Philology, 102, 1, 2007, p. 1, traduzione e corsivo miei. Sull’ékphrasis moderna si veda anche M. Cometa, La scrittura delle immagini. Letteratura e cultura visuale, Milano, Raffaello Cortina, 2012.
10 M. Cecchetti, Avvenire, 10 aprile 1993.
11 G. Testori, ʻCristo e il samuraiʼ, in Id., Opere 1977-1993, a cura di F. Panzeri, Milano, Bompiani, 2013, p. 690.
12 G. Testori, ʻIl gran teatro montano. Saggi su Gaudenzio Ferrariʼ, in Id., La realtà della pittura. Scritti di storia e critica d’arte dal Quattrocento al Settecento, a cura di P.C. Marani, Milano, Longanesi & Co., 1995, p. 43.
13 Sull’influenza che gli studi d’arte di Testori ebbero sulle sue scelte di poetica, linguaggio e tematiche teatrali si veda G. Taffon, Lo scrivano, gli scarrozzanti, i templi. Giovanni Testori e il teatro, Roma, Bulzoni, 1997.
14 G. Testori, ʻIl mio teatro contro l’artificioʼ, Il Sabato, 5 novembre 1988, ora in ID., Opere 1977-1993, p. 2092.
15 G. Testori in L. Doninelli, Conversazione con Testori, Parma, Ugo Guanda Editore, 1993, p. 115.
16 G. Testori, Willy Varlin, catalogo della mostra alla Rotonda di via Besana di Milano, Milano, 1976.
17 G. Testori in G. Cappello, Giovanni Testori, Firenze, La Nuova Italia, 1983, pp. 3-7.
18 La storia della pittura testoriana è stata ricostruita attraverso i dipinti e le opere grafiche giunti fino a noi, grazie alle testimonianze fotografiche di ciò che è stato distrutto, ma anche tramite appunti manoscritti dello stesso Testori, il quale elaborò degli inventari delle proprie opere realizzate tra il ʼ69 e il ʼ72, comprensivi di titoli, date, misure e note. Si deve a Camilla Mastrota il primo riordino dell’intero corpus pittorico dell’autore.
19 «Lo vidi per la prima volta a una mostra del Caravaggio. Già da tempo adoravo Longhi», G. Testori in L. Doninelli, Conversazione con Testori, p. 106.
20 Pubblicato la prima volta in Paragone. Arte, IV, n. 27, marzo 1952, pp. 24-43, ora è inserito in G. Testori, La realtà della pittura. Scritti di storia e critica d’arte dal Quattrocento al Settecento, pp. 275-289 (da qui le due citazioni successive).
21 Esemplare, in tal senso, la scrittura dell’Erodiade I, in cui il tòpos cairesco-testoriano della testa recisa del Battista si lega, in un intreccio propriamente intermediale e polisemiotico, con la realizzazione da parte dell’autore di una galleria di oltre settanta disegni aventi per soggetto il cefalo del profeta. L’immagine brutale e violenta della testa decapitata è riproposta con continue e piccole variazioni, declinata in tratti neri e fittissimi, e si presenta come un efficace sottotesto visivo del monologo tragico. Esposti al Centre Georges Pompidou di Parigi dal 7 al 19 gennaio 1987, i disegni di Testori sono ora raccolti in C. Bo (a cura di), Giovanni Testori: Erodiade e la testa del profeta, catalogo della mostra, Milano, Electa, 1987. Per lo studio delle convergenze tra l’arte di Francesco Cairo e la stesura delle Erodiadi e dei disegni testoriani si veda S. Rimini, ʻIncarnazioni di eros nelle Erodiadi di Giovanni Testoriʼ, in Id., Immaginazioni. Riscritture e ibridazioni fra teatro e cinema, Acireale - Roma, Bonanno, 2012, pp. 47-66.
22 G. Testori, Il dio di Roserio [1954], Milano, Feltrinelli, 2018, p. 125.
23 A tal proposito ricordiamo che già Elio Vittorini, direttore della collana Gettoni di Einaudi nella quale viene pubblicato Il dio di Roserio, nel risvolto di copertina dell’edizione del ʼ54 scrive del realismo del romanzo espresso con un «gusto preminentemente visivo, con una sensualità che ha nell’occhio il suo uncino principale» (E. Vittorini, Letteratura arte società. Articoli e interventi 1938-1965, a cura di R. Rodondi, Torino, Einaudi, 2008, p. 723).
24 G. Patrizi, Narrare l’immagine. La tradizione degli scrittori d’arte, Roma, Donzelli editore, 2000, p. 131.
25 Nel saggio di Andrea Mirabile, Scrivere la pittura. La “funzione Longhi” nella letteratura italiana (Ravenna, Longo, 2009) il giovane studioso della Vanderbilt University, sull’esempio dei fecondi postulati critici che vanno sotto la denominazione di ʻfunzione Gaddaʼ e ʻfunzione Continiʼ, sviluppa l’ipotesi di una ʻfunzione Longhiʼ attiva nella letteratura italiana del Novecento. Mirabile, dopo avere individuato i principi salienti dell’opera longhiana, ne indaga il lascito in diversi autori che, prima di dimostrarsi romanzieri, poeti o saggisti di pregio, sono stati allievi dello studioso albese e con lui hanno instaurato un duraturo e fertile sodalizio. Sull’influenza delle teorie longhiane, sia nei suoi allievi sia in altri ʻscrittori visiviʼ del Novecento, si veda anche E. Attanasio, F. Milani (a cura di), Écrire vers l’image. Il magistero di Roberto Longhi nella letteratura italiana del XX secolo, Modena, Mucchi Editore, 2017.
26 G. Testori in L. Doninelli, Conversazione con Testori, p. 108.
27 Ibidem
28 C. Garboli, ʻLonghi lettoreʼ, in Id., Storie di seduzione, Torino, Einaudi, 2005, p. 158.
29 Su questo aspetto della critica d’arte testoriana si rimanda all’attenta analisi di M. A. Bazzocchi, ʻNel buio della carne, nella carne delle immaginiʼ, Arabeschi, a. III, n. 5, gennaio-giugno 2015, pp. 69-78, ˂http://www.arabeschi.it/nel-buio-della-carne-nella-delle-immagini-/˃ [accessed 30 April 2019].
30 G. Testori, ʻIl gran teatro montano. Saggi su Gaudenzio Ferrariʼ, in Id., La realtà della pittura. Scritti di storia e critica d’arte dal Quattrocento al Settecento, p. 44.
31 Ponendo l’accento sull’ispirazione iniziale degli ʻautori doppiʼ lo studioso Michele Cometa ha definito la concrescenza genetica come la pratica in cui «le due arti, i due media, collaborano, anche se in diversa misura, alla definizione di un unico mondo immaginale» (M. Cometa, Al di là dei limiti della scrittura. Testo e immagine nel “doppio talento”, in M. Cometa, D. Mariscalco (a cura di), Al di là dei limiti della rappresentazione. Letteratura e cultura visuale, p. 54).
32 Cfr. O. Walzel, Wechselseitige Erhellung der Künste, Berlin, Reuther&Richard, 1917 (la traduzione utilizzata è tratta da M. Cometa, La scrittura delle immagini. Letteratura e cultura visuale, p. 17).
33 M. Cometa, Al di là dei limiti della scrittura. Testo e immagine nel “doppio talento”, in M. Cometa, D. Mariscalco (cura di), Al di là dei limiti della rappresentazione. Letteratura e cultura visuale, p. 73.
34 I. Calvino, Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio, in Id., Saggi 1945-1985, a cura di M. Barenghi, Milano, Mondadori, 1995, p. 702.
35 F. Panzeri, ʻNote ai testiʼ, in G. Testori, Opere 1965-1977, p. 1518.
36 Facciamo riferimento alle raccolte poetiche L’amore (1968), Per sempre (1970), Theo (1970), Alain (1971), A te (1972-1973), Nel tuo sangue (1973) e Ragazzo di Taino (1976).
37 I libri di poesia che vanno dal 1978 al 1982: In ringraziamento (1978-1979), Preghiere (1979), L’aquila di Makana (1980-1981) e Ossa mea (1981-1982).
38 Ad esempio: «A far da guida è Lola de Paris» in riferimento al dipinto di Manet Lola de Valence esposto a Parigi, o «a Ponteranica, là» per indicare il Polittico di Lorenzo Lotto conservato nella chiesa di San Vincenzo e Sant’Alessandro del piccolo paese bergamasco.
39 G. Testori, Opere 1977-1993, p. 2105.
40 Il titolo è stato voluto da Giovanni Raboni per l’edizione edita nel 2002 da Libri di Scheiwiller nella collana Poesia, n. 71, che contiene una serie di componimenti scritti da Testori tra il 1985 e il 1992, più il poemetto Crocifissione del 1965.
41 Gli italiani Giorgio Morandi, Giancarlo Vitali, Enzo Cucchi, Mario Martini e Samuele Gabai, e i tedeschi Arnulf Rainer, Hermann Albert, Rainer Fetting, Markus Lüpertz.
42 La poesia fu scritta da Testori per la monografia Fiori di Giorgio Morandi edita da Alice Editions – Biti Edizioni a Milano, nel 1985.
43 G. Testori, ʻFioriʼ, in Id., Opere 1977-1993, p. 1485.
44 L. Doninelli, citato in G. Testori, Opere 1977-1993, p. 2032.
45 Nel 1983 Testori restò colpito dalla riproduzione di un’opera di Vitali in cui si vede un coniglio squartato; dall’incontro con il pittore, allora sconosciuto, nacque un intenso sodalizio, tant’è che nell’agosto successivo Testori gli dedicò l’articolo I fasti della pittura. «Il genio degli ignoti»: Giancarlo Vitali sulla terza pagina del «Corriere della sera», e nel 1985 organizzò a Milano la sua prima mostra ufficiale. Scomparso da poco, il 25 luglio 2018 all’età di 88 anni, Vitali era stato omaggiato nel 2017 con un’imponente mostra a Milano, in quattro prestigiose sedi espositive.
46 G. Testori, ʻTrittico del toroʼ, in Id., Opere 1977-1993, pp. 1487-1490.
47 A partire dalla nozione di ʻsguardoʼ mutuata dalla scuola francese letteraria e filosofica (Régis Debray, Yves Bonnefoy, etc.), Riccardo Donati nel volume La palpebra interna. Percorsi novecenteschi tra poesia e arti della visione (Firenze, Le Lettere, 2014) offre una ricognizione selettiva e intensamente argomentata del rapporto che alcuni tra i maggiori poeti italiani del Novecento hanno intrattenuto con le arti della visione (tra gli altri, oltre Testori, ricordiamo Pasolini, Zavattini, Sanguineti, Luzi, Scialoja, Gatti, Magrelli). Nella propria analisi lo studioso fiorentino declina il concetto di ʻsguardoʼ secondo quattro categorie, quattro indirizzi orientativo-interpretativi desunti dallo storico dell’arte Heinrich Wölfflin: ‘sguardo evento’, ‘sguardo avvento’, ‘sguardo esperimento’ e ‘sguardo accecamento’.
48 R. Donati, La palpebra interna. Percorsi novecenteschi tra poesia e arti della visione, p. 124.
49 Ivi, p. 125.
50 La copia unica del manoscritto dei Trionfi si presenta come un vero e proprio libro illustrato, a tal punto le pagine sono istoriate da centinaia di disegni estemporanei, a soggetto per lo più naturale, che privilegiano fiori, rose, garofani e ciclamini; a questo proposito si veda P. Gallerani (a cura di), Questo quaderno appartiene a Giovanni Testori. Inediti d’archivio, Milano, Officina libraria e Fondazione Alberto e Arnoldo Mondadori, 2007. Proprio la transizione dalla ʻlineaʼ della scrittura (sempre a mano, di getto) al disegno informale, libero e fulmineo, nei manoscritti di Testori andrebbe resa specifico oggetto di studio attraverso l’intelaiatura ermeneutica della critica genetica, per comprendere più approfonditamente la formazione del pensiero dell’autore.
51 G. Testori, ʻI Trionfiʼ, in Id., Opere 1965-1977, pp. 11-12.
52 Ivi, p. 1497.
53 Ivi, p. 56.
54 Ivi, p. 72.
55 Ivi, p. 99.
56 G. Testori, ʻL’amoreʼ, in Id., Opere 1965-1977, p. 658.
57 Il tema della dinamizzazione dello sguardo che coinvolge i tre possibili attori dell’ékphrasis (osservatore, scrittore, lettore) è sempre di più al centro degli studi di Visual Culture; a tal proposito si veda M. Cometa, La scrittura delle immagini. Letteratura e cultura visuale.
58 G. Testori, Amleto. Una storia per il cinema, a cura di F. Panzeri, Torino, Aragno, 2002, p. 12.
59 G. Testori, Morlotti. Variazioni sopra un canto. Bagnanti 1991.1992, Milano, Ruggerini & Zonca, 1992.