La vita di Adele e gli occhi di Emma

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Diciamolo subito: La vita di Adele. Capitoli I & 2 di Abdellatif Kechiche (Francia, 2013), ispirato al graphic novel Le blue est une couleur chaude di Julie Maroh, è più di un film del quale si può discutere se sia stato ben realizzato o meno. Non è un solo film, ma perlomeno due film assemblati insieme, in cui convivono formazione e melodramma; e non è solo un film ma un’esperienza da cui si esce avvinti, toccati nel profondo da qualcosa di commovente che promana dallo schermo e che di sicuro non è un effettaccio da cinema ‘lacrimifero’. Così, mentre la saracinesca del cinema si abbassa – perché, vista la durata, dopo non c’è altro spettacolo –, già si comincia a parlarne con chi è venuto con noi; poi, una volta a casa, se ne discute su internet con chi l’ha già visto o non vuole vederlo, dopodiché ogni occasione è buona per ritirare fuori l’argomento. E, una volta che si è iniziato a parlarne, non si vorrebbe smettere più, nella speranza di riuscire a circoscrivere quel quid che ha fatto entrare Adele, ma non meno Emma, nelle nostre vite.

Tutto, forse, è iniziato a Cannes lo scorso maggio, quando la giuria presieduta da Steven Spielberg ha deciso di premiare con la Palma d’Oro, oltre a Kechiche, anche Adèle Exarchopoulos e Léa Seydoux ottenendo l’effetto di orientare l’orizzonte di attesa del pubblico, che si è ritrovato di fatto da subito guidato a voler verificare l’alchimia del rapporto tra regia e recitazione al cuore del film. Perché questo è senza dubbio il primo aspetto da rilevare: la forza espressiva, per così dire, di ogni singolo centimetro dei corpi delle attrici, che sostiene la coerenza narrativa del film assai più dell’intreccio. Si ha l’impressione di trovarsi di fronte, più che a una prova cinematografica, al risultato di una body art in cui il realismo della messa in scena non è tanto – o soltanto – una scelta stilistica, frutto di un’impostazione di actio, ma il prodotto sensorialmente tangibile, per noi spettatori intendo, di una sofferenza che, mano a mano che il film procede, sempre più appare tracciata sui corpi. In questo, peraltro, acquista senso l’aver girato seguendo l’ordine della trama: quando si arriva al Secondo Capitolo, al capitolo cioè della crisi e del dolore, crisi e dolore sono non semplicemente ‘mostrati’ da corpi recitanti, ma ‘narrati’ attraverso i corpi attoriali, in quanto il corpo in scena, con la sua semplice presenza, crea la verità del racconto. Detto altrimenti, la narrazione del film sembra coincidere con il resoconto della performance delle attrici, in quel travaso tra finzione e realtà che sin dagli esordi ha nutrito la ricerca d’autore di Kechiche e che conferisce una sorta di valore aggiunto di vissuto alla recitazione, più evidente qui nel caso, segnalato dall’omonimia, di Adèle-Adele (in italiano senza l’accento e la pronuncia tronca), ma non minore in Léa-Emma. Per rimotivare un’espressione di Spitzer, la direzione di Kechiche sembra aver mirato a consumare le resistenze delle attrici per giungere a rappresentare l’‘etimo psicologico’ della loro recitazione: una tecnica che aspira non tanto ad afferrare e mantenere saldi durante la lavorazione i punti in comune tra attore e personaggio, quanto a documentare l’attimo in comune, il momento della resa, quando l’attore, spossato dopo le innumerevoli ripetizioni dei ciak, si arrende e si mostra nella sua intimità.

Si può chiamare chirurgica, vampiresca, tirannica una simile regia, ma certo sembra essere questo tipo di messa in immagine a costituire il tessuto connettivo di un film che si sviluppa su vuoti ed ellissi del racconto: avevamo lasciato le due, prima dell’intervallo, a casa della famiglia di Adele, felici dopo aver fatto l’amore e le ritroviamo, all’inizio del Secondo Capitolo, non si sa bene quanto più grandi, conviventi, Emma che dipinge, bionda invece che coi capelli blu, Adele in posa sul divano, non più a disagio come quando al parco era stata ritratta per la prima volta da Emma, ma sfrontatamente nuda nel suo nuovo ruolo di musa. Quindi, dopo aver appreso che Adele ora insegna a scuola, prendiamo atto, non senza dispiacere, della distanza che si è aperta tra le due e continuiamo a chiederci se siano state le differenze socioculturali intraviste nel Primo Capitolo ad aver causato la crisi o se esse, piuttosto, costituiscano il rifugio in cui ciascuna delle due è regredita per difendersi dalla crisi che le ha investite. Ed è più Emma che non capisce quanto Adele si senta realizzata nell’insegnamento o è più Adele che non capisce il percorso di crescita artistica di Emma? Ha ragione Emma a percepire lo spreco di talento di Adele o ha ragione Adele quando si sente trascurata da Emma? O ancora: è più noiosa Emma che disquisisce con i suoi amici intellettuali o Adele che non sa offrire che un po’ di zucchero alla compagna preoccupata per il suo futuro di artista? E questa Louise poi chi è? È una ex, non è una ex, Emma si è presa una cotta per lei?

Il fatto è che è vero tutto e il contrario di tutto quando, interrottosi il racconto della formazione dell’adolescente Adele, spariti amici e familiari, entriamo repentinamente – dal punto di vista dell’intreccio – nell’irreversibile consunzione del rapporto e, con ciò, sostanzialmente in un altro film. Che cosa sia successo nel mezzo non lo sappiamo, coperto da un’ellissi che certo autorizza il dibattito interpretativo a oltranza, ma pone anche degli interrogativi sull’efficacia della costruzione di un racconto che rinuncia per definizione a rappresentare i momenti di pienezza, a meno che non siano di estasi sessuale, per concentrarsi su quelli in cui manca qualcosa: o perché lo si sta ancora cercando o perché lo si è perduto. Di qui la sensazione, nella prima parte del Secondo Capitolo, di un didascalismo manicheo che finisce per sacrificare la finezza psicologica dei personaggi alle esigenze della trama – perché dramma deve esserci! Di qui anche il sospetto di qualche incongruenza: pur ammettendo disagio e rabbia, com’è possibile che Adele, adolescente curiosa e appassionata di libri e film, a vent’anni non sia in grado di verbalizzare un pensiero uno o che la tenera e accogliente tomboy Emma si trasformi d’emblée nel mostro di rigidità che caccia di casa Adele? Senza contare il rischio che, ‘abboccando’ al predominio della presenza di Adele nella struttura del film, si faccia il tifo per lei, ergendola a eroina a tutto tondo contro una Emma che d’improvviso ci sta antipatica – ma sei un’idiota, andiamo, riapri quel portone, falla tornare, lei ti ama! –, con la conseguenza non solo di banalizzare la vicenda, ma anche di sfocare la mediocritas su cui si fonda il realismo emotivo del film: quell’imperfezione esistenziale di Adele, ma anche di Emma, fatta di sbandamenti e cecità, in cui così bene ci si immedesima, no matter se lgbt o etero, e che fa la forza della Vita di Adele. Perché quanto comunque emerge è che, nonostante certe perplessità sull’intreccio, nonostante certa insoddisfazione sulla caratterizzazione dei personaggi, non si può fare a meno di prendere a cuore la vita di Adele e anche quella di Emma. È il ricatto (furbo) del film? È questo l’esito del suddetto realismo emotivo? Con buona pace di tutti gli straniamenti anticatartici di una fruizione critica e avvertita che nulla possono – evviva! – contro l’’adelepidemia’?

Certo, a un primo livello c’è l’innamoramento, per Adele e per il film, ma esaurire il discorso qui sarebbe ingiusto per i motivi che si dicevano all’inizio: anzitutto lo sarebbe nei confronti di una qualità recitativa straordinaria, che rischia di condannare all’inespressività molto di quello che d’ora in avanti andremo a vedere al cinema, ma anche nei confronti di una bilanciatissima architettura figurativa, dovuta alla regia, più variegata nei movimenti di macchina di quanto si possa pensare di primo acchito, nonché alla fotografia e al montaggio. Molto ci sarebbe da dire al riguardo, ma concentriamoci soltanto sul risultato più evidente, per quanto non esclusivo, della triade Kechiche–Exarchopoulos–Seydoux, ossia il ruolo dell’aderenza anatomica della camera ai corpi nella definizione dei personaggi.

Sono un Leitmotiv del film le labbra di Adele, aperte nel contemplare e voraci nel mangiare, che simboleggiano, a volte sin troppo chiaramente, un’esplorazione di sé e del mondo guidata in primis dai sensi e dall’eros; gli occhi, invece, continuamente guardano in basso o altrove, ad alludere a una timidezza che può trasformarsi, nello spalancarsi dello sguardo, in stupore oppure, quando il dolore erompe, in pianto; il terzo elemento, quasi una sintesi tra i due precedenti nel suggerire l’intima inquietudine tra ricerca e definizione, è il tic del toccarsi, sciogliersi e riannodarsi in continuazione i capelli. Ecco, è da questo linguaggio del corpo che, a mio avviso, scaturisce la coerenza del personaggio: la pronunciata sensualità di Adele si unisce a un’irriflessività che scantona dalle analisi e la conduce alla cura degli altri, sino a un impegno nell’insegnamento sincero, ma così totalizzante da risultare sospetto, come se si trattasse di una distrazione da se stessa e dalla capacità di affrontare quella che i personaggi più colti, pur provando un’immediata simpatia per lei, avvertono come insicurezza, forse un retaggio e una replica dei silenzi e dei ruoli della sua stessa famiglia, che la ama ma appare incapace di veramente comunicare con lei. Sembra che solo con la lenta e dolorosissima elaborazione del proprio lutto di amore Adele ricominci a crescere, quando anche il film, del resto, acquista nuova forza e arriva alla struggente seconda parte del Secondo Capitolo. A quest’altezza, infatti, il romanzo di formazione riprende quota e si avvia verso una fine amara, ma aperta, in cui il dolore non impedisce la speranza, come suggerisce il passo spedito di Adele-donna che se ne va dal vernissage e, con una circolarità che conchiude il film, richiama la camminata iniziale, indolente, con cui Adele-ragazzina si recava a prendere il pullman per andare a scuola.

Non meno coerente, però, è il linguaggio del corpo di Emma, che, di fronte alla dirompenza fisica e alla centralità narrativa di Adele, rischia di passare in secondo piano. Personalmente, ho avuto bisogno di una seconda visione per recuperare appieno questo personaggio che non ha uno spazio pari ad Adele, ma ha comunque diritto di essere messo a fuoco se si aspira a una fruizione più equilibrata del film. La scoperta di Emma significa allora la scoperta dei suoi occhi, di come costantemente si posino su Adele e la avvolgano di affetto, persino nella finale sequenza del vernissage quando, grazie a un sapiente uso della profondità di campo, la scorgiamo osservare di sghimbescio il dialogo tra Adele e la nuova fidanzata Louise; non minore, però, è il dolore privato che essi trattengono. E con ‘privato’ intendo il dolore della vita di Emma, per così dire, precedente l’incontro con Adele, ma anche un dolore escluso dalla visione, in quanto, a parte alcuni cenni alla sua adolescenza e alla sua passione per Sartre, ce ne viene sottratto il background. Ed è questa ingiustizia contro Emma che spiega perché, pur essendo un film di altissimo valore, La vita di Adele non ce la fa ad arrivare allo status di capolavoro, si ferma almeno una stelletta e mezzo prima: troppo Emma vive come personaggio in funzione di Adele e della ‘lesbomachia’ che a un certo punto la trama richiede, cosicché non riusciamo veramente a vedere, se non per il sintomo dei suoi sensibili e felini occhi azzurri, mai veramente sereni, il blu che non sta solo nei suoi capelli, ma dentro la sua vita. C’è blu dappertutto nel film, ma, riprendendo il titolo del graphic novel, manca una articolata rappresentazione del blu più caldo di Emma, che trabocca solo in quell’unica grossa lacrima che le scende sulla guancia dopo che, nella sequenza del bar, si è tirata indietro dal suo desiderio, di nuovo imperioso non meno di quello di Adele: «Non posso». Il blu, cioè, che nutre la sua incapacità, dopo il tradimento, di perdonare Adele e, con lei, se stessa, guadagnandosi il diritto a una felicità che sarebbe stata forse più piena del suo successo di artista e delle gioie quotidiane della sua nuova famiglia: «non è come con te», detto del sesso, ma lungo il Primo Capitolo abbiamo avuto a disposizione tutto il repertorio fisico dell’amore per capire che cosa significhi il piacere sessuale per Adele ed Emma.

Pertanto, nonostante si sia anche detto che la vera storia d’amore narrata nel film è quella del regista per Adele, gli occhi di Emma, nei quali Kechiche veramente pare aver raggiunto l’etimo recitativo di Seydoux, si ribellano alla contrapposizione dell’artista borghese e narcisa alla ragazza del popolo, a tratti un po’ preculturale ma tanto vera e autentica, e arrivano là dove la struttura narrativa del film latita. E per tale ragione, ci si augura che davvero nel dvd si possa godere, come si mormora, del director’s cut con un bel po’ di girato in più: perché magari, col riempire i buchi tra sceneggiatura e regia, si potrebbe ottenere quella coerenza di intreccio che farebbe della Vita di Adele un film del tutto riuscito [cosa che invece non si è verificata: il dvd, uscito il 18 marzo 2014, contiene solo l’extra di tre scene tagliate che non molto aggiungono dal punto di vista della costruzione narrativa]. Detto ciò, rimandando ad altra sede ulteriori osservazioni, per esempio sui numerosi testi letterari e non citati, sarebbe il tempo dei saluti, se non fosse che rimane da trattare un ultimo aspetto – the last but not the least –: le conseguenze dell’amore lesbico, già oggetto di accese discussioni.

Ebbene, a mio avviso, La vita di Adele è un film post-lesbico che molto bene fa all’immaginario pre-lesbico di quei Paesi in cui la parità di diritti giuridici e dignità etica non è stata ancora riconosciuta, come, guarda caso, l’Italia, dove comunque il film è stato distribuito, con un divieto ai minori ragionevole, e sta facendo buoni incassi. Sennonché, di fronte a un film che finalmente concede grande visibilità a un argomento ancora molto tabù – l’omosessualità femminile, appunto –, c’è chi si lamenta che La vita di Adele non sia abbastanza lesbico, come proprio le scene di sesso dimostrerebbero: lunghe, asettiche, voyeuristiche, pornografiche, rivelerebbero un chiaro punto di vista maschile – e l’ha detto anche Julie Maroh che le lesbiche non fanno l’amore in quel modo! Dato che non posso qui dilungarmi sul graphic novel alla base del film e sul suo tono sin troppo lesbicamente corretto, mi limito a dire che, all’opposto, le scene di sesso del film mi sono sembrate amorosissime. Proprio perché sono furiose e animalesche, senza musica a coprire i gemiti striduli, senza coreografie a correggere i baci storti, senza sorrisi a risarcire gli schiaffi sul sedere, con i volti bene in evidenza a significare il desiderio, lo stupore, il piacere, mostrando il sesso per quello che è: una cruda reciproca estasi, che ha richiesto uno stile di regia diverso da quello dominante, ma, ripeto, non esclusivo, nel resto del film.

Altra critica: il film neutralizzerebbe, in nome del valore universale dell’amore e del percorso di vita messo in scena, la differenza omoerotica del rapporto tra Adele ed Emma, tanto più che non c’è presa di coscienza nella protagonista. A prescindere dalla circostanza che, come si è cercato di mostrare, è questo il tratto su cui è costruito il tortuoso percorso di maturazione del personaggio, una simile critica ideologica mi pare il peggiore errore che si possa fare nella ricezione della Vita di Adele. Certo, si leggono giudizi di spettatori e spettatrici che scavalcano la questione in maniera capziosa, ma, come si suol dire, non si può cavare il sangue dalle rape: la presa di coscienza mancata, qui, non è di Adele o del film, ma di queste persone la cui grammatica culturale o psichica non è sufficiente per ammettere la specificità della rappresentazione a cui hanno assistito. Perché non è che il film si ferma agli stereotipi dell’immaginario pre-lesbico che vuole il sesso tra donne tutto coccole e carezze; no, il film fa ben vedere, senza bisogno di prese di posizione militanti tanta è l’evidenza dell’immagine, come, e soprattutto dove, due donne si procurino il piacere: se poi ci sono quelli che chiudono gli occhi e fanno finta di non vedere, è un problema loro. Per la prima volta, cioè, su scala che più mainstream non si può abbiamo un film che, con naturalezza, senza dover giustificarsi – di qui il post-lesbismo –, entra senza spegnere la luce in quella camera da letto la cui porta i perbenisti di ogni provenienza vorrebbero lasciare chiusa: l’immedesimazione nella medietà esistenziale di Adele, e con lei di Emma, passa attraverso la rappresentazione esplicita della loro sessualità lesbica. Per questo La vita di Adele è un film dopo il quale niente sarà più come prima.