Profondo rosso. L’inferno secondo Lars von Trier

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Nel quadro della fortuna cinematografica del poema dantesco il film di Lars von Trier The House That Jack Built (2018) rappresenta un’eccezione alla regola degli adattamenti, per il forte investimento visuale e l’anomala declinazione di uno scenario infernale capace di rimediare diverse fonti iconografiche. Il saggio cerca di individuare le più scoperte strategie diegetiche e figurative a partire dalla constatazione del singolare processo di messa in abisso del sé dei personaggi e del regista.

In the context of the cinematographic fortune of Dante’s poem, Lars von Trier’s film The House That Jack Built (2018) represents an exception to the rule of adaptations, due to the strong visual investment and the unusual declination of an infernal scenario able to remediating different iconographic references. The essay tries to identify the diegetic and figurative strategies most uncovered starting from the observation of the peculiar process of mise en abîme of the self relative to the characters and the director.

 
A ispirarmi è stata la Divina Commedia. Un poema che amo nonostante la mia difficoltà di cogliere certi nessi con la storia italiana. Mi piaceva l’idea di un uomo che per pareggiare i conti con i nemici, li manda all’Inferno con debiti tormenti. Dal punto di vista visivo i riferimenti sono stati alcuni disegni di Blake e un famoso quadro di Delacroix, La barca di Dante. Nel film l’ho ricostruito in modo preciso (Manin, 2019).

 

Lars von Trier, intervistato in occasione dell’uscita in sala del suo The House That Jack Built (La casa di Jack, 2018), esplicita in modo perentorio il debito dantesco, accentuando soprattutto la dimensione figurativa del suo approccio alla Commedia: nel consegnare agli spettatori l’ennesima variazione ‘infernale’ del suo cinema, che si aggiunge e in parte sublima un catalogo già ricco di opere nietzscheanamente ‘al di là del bene e del male’, il regista danese sottolinea la matrice pittorica che ha ispirato il light design del film e confessa apertamente di essere giunto a ‘rimediare’ plasticamente due delle più note fonti iconografiche della prima cantica. A rendere ancor più pregnante il rapporto con il testo matrice interviene l’ammissione della specularità tra il protagonista Jack e sé stesso, da cui deriva il rispecchiamento col sommo poeta, secondo una costruzione piramidale forse imperfetta ma di grande effetto:

 

Lo considero un mio alter ego, con la differenza che lui i suoi demoni interiori li realizza nel crimine, io li proietto sullo schermo. Entrambi ci inoltriamo nella “selva oscura” del male alla ricerca del bene. Dio e Satana convivono dentro di noi (Manin, 2019).

 

Se è vero che «il male offre una gamma espressiva molto più vasta» (T. Skadhauge, L. Tønder 2015) allora non può sorprendere l’azzardo compositivo de La casa di Jack, che stratifica un’architettura diegetica disarmante sotto il profilo etico ma avvincente sul piano della visione. Pur poggiando su una trama in fondo esile (un ingegnere, aspirante architetto, cede a un impulso di rabbia e comincia a collezionare ‘incidenti’ mortali trasformandosi nel killer seriale Mr. Sophistication), il film guadagna profondità perché appare una sorta di trasfigurazione del ritratto d’artista: non solo Jack simula nel suo delirio di violenza e sopraffazione un vero e proprio itinerario creativo, ma lo stesso von Trier assegna al suo personaggio una carica proiettiva e metalinguistica fortissima, impossibile da ignorare. The House That Jack Built propone una gamma di suggestioni che da un lato richiama i precedenti linguistici e tematici del cinema del regista, mentre dall’altro apre una breccia sul versante delle riscritture e citazioni dantesche.

 

1. L’altro e lo stesso. Geometrie dell’autore-personaggio

Come sottolinea acutamente Tina Porcelli, sulla scorta delle dichiarazioni del fotografo Manuel Alberto Claro, lo statuto diegetico a cui ricorre von Trier in questo film accentua la postura narcisistica già manifestata in precedenza, capitalizzando al meglio i singolari accenti auto e mitopoietici dello stesso Alighieri. È così che la presenza di due narratori esterni, a forte vocazione onnisciente, determina un curioso effetto di rifrazione per cui di fatto si assiste alla conversazione del regista con sé stesso, ovvero a una curiosa dialettica tra Io e Super Io. A ben guardare, l’impianto narrativo consegna a chi guarda «la riflessione di un von Trier bifronte» (Porcelli, 2019, p. 7), che discetta di arte e afflato etico, mentre riscrive dall’interno il codice del cinema contemporaneo. L’investimento autobiografico del regista nelle figure di Jack e Virgilio trova una simmetrica corrispondenza nel poema dantesco, nel quale Alighieri doppia sé stesso attivando una potente agency di autore-personaggio: il film eleva al quadrato tale meccanismo e immette dentro il cerchio della storia una costante tensione metalinguistica.

Attraverso il format della conversazione tra Jack e un anonimo interlocutore (destinato a rivelarsi solo nel finale) il racconto divarica i piani temporali, confonde realtà e immaginazione, accumula formule di pathos e sciagurati atti di violenza, trasformando la suspense in tassonomia dell’orrore. Lars von Trier calcola con millimetrica precisione la progressione a climax della storia, ricorre alla voce mentale del protagonista per rendere ancora più dissonante lo scarto fra la banalità del male dei suoi crimini e l’azzardo filosofico della sua mente, senza rinunciare a quel senso di sottile, paradossale ironia che tende ancor più a dissacrare la materia bruta del quotidiano – come già accadeva in Idioti e tra le pieghe nerissime di Dancer in the dark o Antichrist. L’apparente semplicità dello script viene complicata da una struttura a cornice, che comprende la conversazione fra Jack e Verge, e da una scansione in cinque capitoli o ‘incidenti’, ai quali si aggiunge un interessante mosaico di intarsi extradiegetici, per lo più immagini evocative, archetipiche che dilatano il raggio dell’azione e richiamano l’ampio spettro di riferimenti visuali che von Trier ha disegnato all’interno di quest’opera. Accanto alla stratificazione di matrici figurative diverse quel che rende il racconto multifocale è la scelta di insistere sulla tecnica delle «plot digressions» (Christiansen, 2018), vere e proprie micronarrazioni che aggiungono una patina romanzesca al film, assecondando il carattere metaforico degli episodi.

La misura allegorica del testo è garantita, soprattutto, dalla ambiguità ontologica e retorica di Virgilio, interpretato da un Bruno Ganz in stato di grazia; la sua identità velata si scioglierà nel finale pienamente dantesco, ma al di qua della soglia infernale il personaggio mantiene toni enigmatici e fa sì che si riproduca la reciprocità della Commedia. Grazie al controcanto di Verge il racconto recupera non solo una cifra epica, spesso brechtianamente straniante, ma si appropria di un ampio spettro di sfumature simboliche che risuonano a più riprese all’interno del film. Il commento off di Verge serve infatti a ribaltare gli assiomi deliranti di Jack, a sconfessare la misura eroica della sua affabulazione, a ribadire il delirio psicotico delle sue imprese, riducendole a mera iperbole macabra, senza però togliere peso allo spessore ideologico che le investe. Quel che rende unica la traiettoria del testo è proprio l’ambizione estetica dei discorsi, la loro cifra saggistica, spesso abbassate da un’incontenibile verve ironica ma comunque capaci di investire ogni livello del racconto, grazie anche a un sorprendente intreccio fra registro linguistico e regime visuale.

La cornice diegetica de La casa di Jack sembra riprodurre il «virtuosistico esercizio di storytelling» (Guerra, 2014) di Nymph()maniac: se nel film del 2014 le confessioni di Joe e Seligman finiscono col depotenziare la carica erotica del racconto spingendo i due ‘volumi’ del film verso l’astrazione della forma saggistica, qui l’accecante violenza di Jack riceve lo stesso trattamento, viene spostata fuori dal tempo presente, congelata nella distanza del flashback e continuamente contrappuntata dalle battute di Virgilio, da suoi silenzi siderali, divenendo pertanto oggetto di un trattato filosofico, che non ne azzera la veemenza ma sembra distillarne i contorni. Ancora una volta siamo di fronte al dialogo fra un innocente e un colpevole, durante il quale si fronteggiano la furia perversa del crimine e il distacco nobile del pensiero, in un corpo a corpo virtualizzato dal dispositivo del racconto. Per Pacôme Thiellement tra i due film verrebbe a crearsi un «effet miroir» (Thiellement, 2018, p. 10) per cui ognuno sarebbe la ‘luce inversa dell’altro’, grazie alla presenza di meccanismi narrativi e visuali analoghi, sebbene poi l’approdo ultimo non coincida: Nymph()maniac sembra assomigliare infatti a un «art poétique», mentre The House That Jack Built è più vicino a una «diagnostic psychiatrique» (ivi, p. 11). Von Trier sceglie comunque, in entrambi i casi, la strada della deformazione per rappresentare l’immanenza del male e la trascendenza del linguaggio, lasciando in dubbio se il fine ultimo dell’opera sia «un sincero atto di contrizione o al contrario una pura vanità demiurgica» (Lepastier, 2018, p. 8).

 

2. Icone infernali

 

«Io credo che il Paradiso e l’Inferno siano un’unica cosa: l’anima appartiene al Paradiso e il corpo all’Inferno. L’anima è la ragione e il corpo sono tutte le cose pericolose, per esempio, l’arte e le icone».

Lars von Trier, The House That Jack Built

Sostenuto da una cospicua dose di azzardo e da una scrittura sorvegliatissima, von Trier costruisce l’ennesima favola nera dai toni confessionali, modellata sul rispetto del codice della tragedia (cinque ‘incidenti’ al posto dei canonici cinque atti, più un epilogo che vale come prologo rovesciato) e votata a una potenza visuale che qui raggiunge vertici di altissima enfasi, con squarci elegiaci che lasciano quasi senza fiato. Come ricorda il direttore della fotografia, già in fase di sceneggiatura il regista aveva chiari i topoi figurativi su cui ‘architettare’ l’impianto del film: «il dipinto “La barca di Dante” di Eugène Delacroix così importante per il finale, i disegni dell’Inferno di William Blake, delle foto» (Liberti, Porcelli, 2019, p. 15). Assecondando un metodo di lavoro fondato su una «sorta di mutuo scambio di idee» (ivi, p. 26), Manuel Alberto Claro associa a tali riferimenti gli scatti di alcuni fotografi (Enrique Matides, Mary Ellen Mark, Lieko Shiga), nel tentativo di dar corpo alle ossessioni del regista, di ancorarle a una luce e a una patina estetica credibili.

È difficile rubricare tutte i pattern visivi adottati all’interno del film, perché la tensione sperimentale di von Trier è qui ai massimi livelli, come dimostrano l’intelaiatura del montaggio, la mobilità del punto di vista, l’ampio spettro di tecnologie utilizzate (il novantacinque per cento delle riprese viene effettuato con una Alexa Mini ma Claro ammette di aver impiegato anche il modello Hero della GoPro, passando per lenti High Speed). Sembra davvero di ammirare un nuovo «lessico» (ivi, p. 17), capace di ibridare tutti i codici del cinema: sequenze animate, immagini fotografiche, negativi, disegni, frammenti di found footage, tableau vivant concorrono a definire un regime scopico anticanonico, ‘fuori norma’, indispensabile per tradurre concretamente le allucinazioni criminali di Jack. L’equilibrio tra forma e contenuto è assoluto e incarna un progetto espressivo che compendia i sintagmi del lyric film e le istanze del cinema in prima persona, senza rinunciare a forme esplicite di autocitazione, attraverso il recupero di segmenti di molte opere precedenti (da Europa ad Antichrist, da Medea a Dogville, solo per ricordarne alcuni). Lepastier sintetizza con grande efficacia i due modi su cui poggia il registro figurativo del film: a suo dire si va da un «hyperréalisme délavé» (declinato tramite le oscillazioni della macchina a spalla, il montaggio a scatti, gli arredi scarni, i colori sbiaditi) a un «sur-réalisme» (Lepastier, 2018, p. 9) che lentamente invade situazioni e oggetti, sconfinando verso atmosfere che richiamano la lezione di Breton e Bellmer.

Nell’assecondare queste due diverse condizioni di luce e di stile, von Trier dà forma alla sua idea di sublimazione estetica e, al contempo, modella un Inferno sui generis. Le fonti della sua ispirazione vengono dichiarate apertamente nel corso del racconto, attraverso citazioni dirette ed effetti di rimediazione, che restano emblematici dello spirito postmoderno del regista. Pur assegnando per bocca di Jack una valenza assoluta alle diverse forme d’arte di una personalissima storia dell’occhio, von Trier non trascura di adottare un compiacimento ludico nel maneggiare immagini e icone, nel piegarle a una volontà onnisciente e satanica, quella di un artifex-demiurgo assediato da (s)manie di grandezza. Se l’appello a Dante pare esplicito fin dall’incipit, con l’allusione al viaggio oltremondano, i dettagli della landa infernale si precisano via via, accumulando indizi e citazioni. Il primo richiamo alla fortuna iconografica del poema serve a introdurre uno dei motivi portanti dell’intero film, la dialettica tra malvagità e (in)giustizia, incarnato dai Canti di Blake, e soprattutto dalle figure della tigre e dell’agnello, ossimorica declinazione dell’esperienza e dell’innocenza. Mentre Jack è intento a spiegare al suo ancora invisibile interlocutore la forza profetica della poesia di Blake, compare sullo schermo una sequenza di immagini che ha la funzione di visualizzare la lotta tra i due animali-feticci: dentro un flusso composito di schegge figurative si intravede, sebbene per pochi istanti, una riproduzione a china della celebre illustrazione di Blake del V canto dell’Inferno, dominata dal doppio vortice dei lussuriosi.

 Un fotogramma da The House That Jack Built, di Lars von Trier (2018)

 

Si tratta di un’inserzione enigmatica, perché il focus della narrazione esclude ogni riferimento alla dimensione erotica, ma è pur vero che il protagonista appare divorato da una brama di uccidere che allusivamente può ricordare gli eccessi di una sessualità compulsiva. Non è del tutto da escludere, poi, che la tavola di Blake rappresenti un velato omaggio alla debordante lussuria di Nynph()maniac, quasi a ribadire il legame profondo tra le due opere. Quel che è certo, in ogni caso, è che pur non autenticando un diretto confronto con le vicende di Paolo e Francesca la citazione figurativa agisce in profondità nel tessuto immaginario del testo, stigmatizza il nodo della dannazione eterna e incrina lo statuto morale della storia, accogliendo la lezione dell’illustratore-poeta, cantore dell’ambiguità della coscienza.

 Un fotogramma da The House That Jack Built, di Lars von Trier (2018)

Se è vero che tutto il film è contrappuntato da allusioni infernali, è soprattutto l’ultima stazione diegetica, il cosiddetto epilogo-catabasi, a concentrare i rimandi alle fonti ispiratrici, restituendone le insegne attraverso un convinto processo di restyling visivo. Prima che si spalanchi il varco infernale, l’aspirante architetto si ritrova al cospetto di Virgilio, finalmente in carne e ossa, ha il tempo di valutare la potenza creatrice dei materiali a sua disposizione nel vano-frigorifero e di realizzare una casa di cadaveri, struttura spettrale e inquietante in grado di cristallizzare l’orrore della sua lunga azione criminale, e con essa la vibrazione segreta dell’arte. Sospesa fra gli eccessi del bodyscape e la regola di certo surrealismo à la Bellmer, The House Of Jack è un’installazione allucinata e livida, affatto somigliante alle sagome apparse a più riprese nel film, emblemi di architettura funzionale ancorché incompiuti. Questa aberrante concentrazione di corpi senza vita costituisce l’approdo ultimo del delirio di Jack, la plastica evidenza di una soglia ormai invalicabile; eppure – con un efficace coup de théâtre – l’antro cadaverico nasconde una voragine, che segnerà il punto di non ritorno dell’avventura del protagonista.

 Un fotogramma da The House That Jack Built, di Lars von Trier (2018)

La prima immagine che racconta il passaggio nell’altro regno è un’inquadratura in dettaglio dei piedi di Jack, incorniciata da un alone opaco, che sembra riprodurre il cerchio di un oblò, o comunque alludere ai segni di interpunzione del cinema delle origini. L’acqua, la luce fioca, il tremolio del piano contribuiscono a sospendere per un attimo l’eccesso di visioni dell’opera, ma la pausa è illusoria, perché il caleidoscopio di von Trier è pronto a nuovi incantamenti.

 Un fotogramma da The House That Jack Built, di Lars von Trier (2018)

In un batter d’occhio si passa infatti da atmosfere retrò, arcaiche, necessarie a rappresentare il salto nel vuoto dei due viandanti, a vere e proprie fantasmagorie, degne della più audace sperimentazione videoartistica. È quel che accade quando si vedono fluttuare, in un fermo immagine di grande suggestione, le sagome di Jack e Verge, ‘annegate’ in un liquido amniotico dalle tinte pastello, che rinnova l’azzardo di un’arte sincretica, libera da vincoli di verosimiglianza. La soglia liquida dello Stige trasfigura i corpi, allenta le coordinate spazio-temporali, sospende i battiti e il respiro, in attesa che il viaggio continui. Ancora un brusco scarto di codici interviene a scandire l’avanzare dei due personaggi nel ventre della terra: dopo l’assenza di gravità della sequenza subacquea si torna in superficie, al centro di una barca che mima, secondo la formula del tableau vivant, il quadro di Delacroix, con una netta virata però verso toni pop.

 Eugène Delacroix, La barca di Dante (1822) vs un fotogramma da The House That Jack Built, di Lars von Trier (2018)

Alle pennellate pastose dell’originale, infatti, von Trier sostituisce dei volumi plastici che sembrano ammiccare alla fotografia di La Chapelle, ribaltando le relazioni e la postura di molte figure: Jack/Dante non è più ritratto di profilo, con la mano destra in alto e lo sguardo fuori campo, ma si erge frontalmente, il suo baricentro è stabile e il gesto della mano descrive un’azione proiettiva; Verge è stretto dentro il suo costume nero, non tradisce alcuna paura e sfida le onde con sguardo dritto e volitivo, mentre il nocchiero impugna con veemenza il remo, mostrando nel rilievo dei muscoli tutta la concentrazione e la forza del suo agire. Pur minacciato dai vapori della lava, il gruppo degli astanti non arretra e immette nel respiro del quadro una performatività più fluida, grazie anche al riposizionamento delle figure in basso, aggrappate al bordo dell’imbarcazione; le smorfie di dolore presenti nel dipinto, l’ingombro delle pieghe della carne contratta dagli spasmi, lasciano spazio a una fisicità modellata e asciutta, levigata e dolente, ma senza contrizioni né eccessi di pathos. L’alleggerimento del tono romantico si deve anche alla fissità del tableau, quasi un’astrazione rispetto alla cupezza originaria, allo strazio della resistenza contro i flutti: qui von Trier congela la passione, aggiungendo un tocco postdrammatico che si fa manifesto dell’intera invenzione del film (non a caso alcune locandine recano proprio il frame di questa scena).

Nel descrivere la progressiva discesa dei due protagonisti von Trier si affida anche all’immediatezza visiva della GoPro, che sfrutta il paesaggio della grotta infernale per restituire un’impressione di realtà che ha il merito di sottolineare la difficoltà dell’impresa per due anime vive, costrette a superare limiti geografici quasi proibitivi. Le pareti di roccia dell’Inferno rappresentano la vertigine estrema de La casa di Jack, l’ultima soglia prima della dannazione eterna.

 Un fotogramma da The House That Jack Built, di Lars von Trier (2018)

Prima di lanciarsi in un’impresa impossibile, Jack approfondisce la confessione con Verge, ascolta le sue attente descrizioni, in un misto di delirio e slancio conoscitivo. Lo scenario che li circonda è modellato sulle illustrazioni di Dorè e richiama allo stesso tempo le arcaiche scenografie dei primi film muti dedicati alla Commedia; ancora una volta le matrici della fortuna figurativa del poema dantesco subiscono un trattamento di morphing, che qui consiste soprattutto nell’esagerazione delle proporzioni e nell’esplosione del rosso, Leitmotiv visuale di tutta l’opera.

 Un fotogramma da The House That Jack Built, di Lars von Trier (2018) Un fotogramma da The House That Jack Built, di Lars von Trier (2018)

La lunga schiera di oggetti color rubino rappresenta un tappeto emotivo a diversi gradienti, oltre che l’indizio di un progressivo sprofondamento nelle regioni della violenza e del dolore. Il crick, il furgone, il telefono, il pennarello, il mantello, la lava sono indici di un apprendistato del male che non poteva non concludersi in un lago di sangue, ma che testimonia altresì l’urgenza di un linguaggio senza riserve, nel quale le immagini ci (ri)guardano.

 

 

Bibliografia

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