Come la Comtesse d’Haussonville, nell’enigmatico ritratto di Ingres, anche Violetta si guarda allo specchio, con sguardo sfuggente ed elusivo, durante il Preludio della Traviata scaligera firmata da Dmitri Tcherniakov. Stesso abito blu ceruleo, stesso fiore cremisi tra i capelli raccolti dietro la nuca, si prepara per la festa ormai imminente, forse s’interroga sul suo destino, quasi lo prefigura: perché non è sola, «in questo / popoloso deserto / che appellano Parigi», ma sempre seguita, assistita, assecondata da Annina. Sintesi delle Nanine e Nichette dumasiane, questa non è più l’attempata femme de chambre di mademoiselle Valéry, la sua confidente di tradizione metastasiana: ne diventa l’ombra, il doppio, l’incancellabile memoria del passato, uno sguardo sul futuro che la attende. Chioma rosso fuoco, vistosi caffetani dalle tinte sgargianti, Annina (una vibrante, commovente Mara Zampieri, sul viale del tramonto di una folgorante carriera che l’aveva portata ad essere la graffiante Lady Macbeth di Giuseppe Sinopoli e Luca Ronconi) è l’occhio dello spettatore, il narratore di un’azione che, con rigorosa precisione geografica, ha luogo a Parigi, in un sobrio ed elegante immobile haussmaniano, quindi in una villa di campagna dove tutto è finto, irreale, come in una casa di bambole, o come in un sogno impossibile.

Purtroppo lo spettatore medio scaligero si confronta con difficoltà con La traviata, dopo la storica edizione del 1955 (Carlo Maria Giulini dirigeva Maria Callas nella produzione firmata da Luchino Visconti) che ne ha cristallizzato la tradizione interpretativa: come puntualmente dimostrato dalle prevedibili contestazioni della sera di sant’Ambrogio, prontamente rientrate nel corso delle repliche. Questa volta, per di più, ha dovuto anche fare i conti con gli arditi montaggi cut di Tcherniakov, ex-enfant terrible del teatro russo, alla sua terza produzione verdiana dopo un Macbeth (Parigi e Novosibirsk, 2008) localizzato su una mappa interattiva e un Trovatore (Bruxelles 2012) sintetizzato in un gioco di ruolo d’irresistibile suspense. Anche questa Traviata ha rischiato di diventare un succès de scandale, perché il regista fa piazza pulita del passato e ridistribuisce la materia secondo un nuovo assunto: la storia che vuole raccontare, infatti, non è più quella di una lorette tisica redenta dall’amore, ma di una donna di ieri, o forse di oggi, alle prese con la paura d’amare, con un sentimento che entra prepotentemente nella sua vita ma che non è in grado di gestire. Da qui la necessità di un confronto, spesso silenzioso ma partecipe, in cui tanto Violetta quanto il suo amante, Alfredo, nelle rispettive grandi scene alla fine del primo e all’inizio del secondo atto, indagano i propri sentimenti, nel corso di una sorta di dialogo – se non di analisi – alla presenza di Annina o di Giuseppe, altro cameriere di Violetta: lei per porre un argine ad una vita glamour di incontri mondani, lui al desiderio di imporsi, casalingo desperate e ipercinetico, pronto a scaricare la tensione di «bollenti spiriti» affettando sedani e zucchini.

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