Favola

di

     

Stando alle date, l’infanzia di Tranchino cade in tristissimi anni: la Sicilia nel crogiolo della guerra, quotidianamente e intensamente bombardata [...]. E però, guardando i suoi quadri, si ha l’impressione che Tranchino abbia avuto un’infanzia al riparo da tutte queste cose [...]. Come nelle grandi pestilenze, quando si abbandonavano le città corse dalla morte e le piccole comunità familiari o sodali si ritiravano o isolavano nelle campagne, così avvenne per sfuggire alla guerra che dal cielo si rovesciava sui paesi e alla fame che vi si aggirava: sicché di un tempo greve ed atroce molti, allora bambini, si ricordano come di una favola d’alberi e d’acque, di vecchie ville barocche, di calessi e cavalli, di caccie. [...] Non so se a Tranchino sia capitato qualcosa di simile: ma mi pare certo che il mondo della sua pittura arrida di un’infanzia felice, di una favola “elementare” (di elementi cioè primi e vitali) cui si sovrappone, con deliziosa incongruenza, una favola “temporale” (fatta cioè di personaggi e cose “di un tempo”). Naturalmente Tranchino sa che questo suo mondo, che questa sua favola, non poteva esistere; che la storia, la condizione e il destino dell’uomo erano ben diversi – e sono.

L. Sciascia, Tranchino una recherche siciliana (1973)

Capita spesso che ad un certo punto gli scrittori si mettano a guardare gli avvenimenti vicini da un’altra prospettiva, quasi li vedessero capovolgendo il binocolo, in miniatura. A volte poi tali fatti, soprattutto se conditi dall’ironia, possono diventare un utile canovaccio per dar vita a delle favole, che per un narratore sono un po’ come i giocattoli per i bambini. Anche Sciascia imbocca questa strada quando, ancora giovane, viene tentato dalla scrittura de Le favole della dittatura convinto, com’era, che la migliore via per tramandare ai posteri la ferocia della dittatura fosse quella di trasformarla in una favola, tutt’altro che leggera. In seguito l’occasione per fare un’incursione nel mondo ingenuo e leggero delle favole gli viene data dalla visione di alcuni dipinti trasognati e divertiti come quelli degli amici Maurilio Catalano o Gaetano Tranchino. Spesso ospite nello studio siracusano di quest’ultimo, Sciascia scrive di lui negli anni a cavallo tra la composizione de Il contesto e Todo modo; un momento in cui lo scrittore, sempre più impegnato in battaglie e lotte civili, vuole contrapporre alla pesantezza dei tempi la leggerezza di una fiaba. Per questo motivo il suo occhio ama perdersi nella magia di quei colori e nel candore delle figure create dal pittore. Man mano che le immagini scorrono dinanzi all’occhio di Sciascia, simili ai fotogrammi di un film, egli si abbandona alle suggestioni di quelle visioni. Quel mondo semplice corrisponde per lui quasi a un invito al viaggio in un luogo in cui tutto è ordine e bellezza, «magnificenza, quiete e voluttà», un mondo che sembra riaffiorare dalle pagine di Omero o da quelle di Conrad. Ma, come in ogni favola che si rispetti, l’ironia e la leggerezza sono solo i mezzi di espressione per dire altro e questo Sciascia lo sa bene, fin da quando si affida a questi mezzi per la ri-scrittura di Candido. Osservando le tele dei suoi amici comprende sempre più che non c’è nulla di fiabesco nei paesaggi edenici di Tranchino, capisce che le sue favole nascondono amare riflessioni o che le barche o i polipi giganti dipinti da Maurilio Catalano nella realtà si muovono in un mare nero, lo stesso in cui si erano inabissati i Malavoglia nelle pagine di Verga. Dietro i sogni divertiti degli artisti si nasconde un mondo che solo all’apparenza è allegro, eppure concede allo scrittore o a chi guarda quelle tele una parentesi di gioia, «quasi un aiuto a vivere».

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