Come già suggerisce la metafora del sottotitolo, Raccontare il manicomio. La macchina narrativa di Basaglia tra parola e immagine di Marina Guglielmi esamina la potenza sovversiva e la complessità della rete di discorsi messi in atto da Franco Basaglia, attivo tra Gorizia e Trieste negli anni Sessanta e Settanta, per trasformare il modo di guardare al manicomio e alla malattia mentale. L’autrice ne indaga non solo gli effetti sull’approvazione della Legge 180, ma anche l’irradiazione nelle narrazioni dello spazio manicomiale che le hanno fatto seguito.

Il volume si apre con un’introduzione che ha una funzione di inquadramento storico e teorico. La studiosa vi chiarisce l’intento di esaminare la rilevanza della figura di Basaglia nel panorama psichiatrico e, più in generale, sociopolitico italiano concentrandosi sull’eccezionalità di quelle «eterotopie inaccessibili» che sono gli spazi manicomiali e sulle tre modalità attraverso cui è stato narrato il manicomio, ovverosia «il racconto professionale», «il racconto testimoniale» e «il racconto finzionale» (p. 22). In questo modo si mettono a fuoco anche i differenti apporti dello psichiatra veneto alla narrazione – diretta o indiretta – della realtà manicomiale di quegli anni.

Dopodiché, prende avvio la prima parte del volume, Il manicomio raccontato, diviso in quattro capitoli. All’attività e produzione di Basaglia sono dedicati i primi due – in particolare, il primo è volto a una ricognizione storica incentrata sulla Legge 180 – mentre i successivi si soffermano su due opere considerate decisive nel lavoro svolto dalla “macchina narrativa” basagliana e prodotte entrambe nel 1969, anno di svolta nell’impatto nella rivoluzione psichiatrica italiana su un più ampio pubblico. In quell’anno viene infatti prodotto per Rai 1 il documentario di Sergio Zavoli I Giardini di Abele di cui Guglielmi – in dialogo con le riflessioni di John Foot – evidenzia il supporto alla causa di Basaglia nel mirare a riscoprire il valore umano della persona affetta da disagio mentale e a dare risposta all’urgenza per i ricoverati «di essere visti e riconosciuti – ancor prima che accettati – dal mondo esterno» (p. 56).

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