Tableau Vivant

di

     

«Ecco, così» disse la contessa. Si vedeva, con la coda dell’occhio, nella grande specchiera; e davanti, sul piano da scrittoio del trumeau, aveva, ridotto a vivida miniatura dentro il coperchio di una tabacchiera, quel quadro di François Boucher che i casanovisti dicono sia il ritratto di mademoiselle O’Murphy. Erano di moda i quadri viventi: e nell’intimità di un convegno d’amore, nel piccolo, delizioso padiglione a boiseries in cui, al marito pretestuando emicranie, amava ritirarsi, la contessa ne componeva uno straordinario, a perfetta imitazione del quadro di Boucher, la tenue luce aiutando a pareggiare a quelli di mademoiselle O’Murphy i suoi anni. Due soli elementi: una dormeuse e la propria nudità. Non si poteva desiderare quadro vivente più splendido, imitazione più precisa.

L. Sciascia, Il consiglio d’Egitto (1963)

Soltanto alcuni dei quadri citati da Sciascia nelle pagine dei suoi romanzi presentano una dinamizzazione tale da farci scoprire in essi dei veri e propri tableaux vivants. I quadri viventi composti allo specchio dalla contessa di Regalpetra negli incontri erotici con l’avvocato Di Blasi nel Consiglio d’Egitto – esempio emblematico di questo tipo di citazione figurativa – alludono attraverso il nome del pittore («boucher, boucherie, vucciria») a una «sfumatura di macelleria, di vucciria» che si intravede oltre la luce sensuale e la gioia di vivere della scena. In altri termini la postura dell’amante di Di Blasi, costruita a imitazione del quadro del pittore francese, con un’associazione verbale che congiunge la Francia alla Sicilia (partendo dal nome di Boucher e giungendo al termine palermitano «vucciria»), tende ad anticipare nel racconto la conclusione violenta della storia dell’altro protagonista del Consiglio d’Egitto. La gioiosa carnalità della scena iniziale lascerà il posto infatti alla degradazione della carne di Di Blasi nelle pagine finali della tortura e della esecuzione della pena capitale. Sciascia sembra interessato non tanto all’animazione del quadro, quanto all’imitazione di esso. E così, allo stesso modo, in altre pagine e in altri romanzi i rimandi figurativi segnalano i continui scambi tra pittura e narrazione, tra la rappresentazione di primo grado del racconto e quella di secondo grado che si insinua attraverso la citazione. Come un tableau vivant, si compone, infatti, una delle prime scene di Todo modo in cui il protagonista, passeggiando nel bosco circostante l’eremo di Zafer, scorge stese al sole le amanti dei notabili democristiani che avrebbero fatto la loro comparsa nel romanzo di lì a poco: «Era un’apparizione. Qualcosa di mitico e di magico. A immaginarle del tutto nude (e non ci voleva molto), tra l’ombra cupa in cui io stavo e la chiazza di sole in cui stavano loro, con quei colori, in quell’assorta immobilità, ne veniva un quadro di Delvaux». L’ordine delle somiglianze permette a Sciascia di prefigurare il contesto all’interno del quale si situa la storia che sta per raccontare, sospesa fra reale e immaginario, fra uno scenario fisico e uno metafisico, dentro un setting al confine con il surreale. L’allusione a Delvaux suggerisce al protagonista «la disposizione, la prospettiva in cui stavano rispetto al suo occhio; e anche quello che non si vedeva e lui sapeva». La voce narrante si riconosce sin dall’inizio dunque come sguardo narrante (non a caso si tratta di un pittore) attraverso cui viene filtrato il racconto e all’interno del quale i numerosi riferimenti figurativi sembrano alludere ad una continua paradossale imitazione dell’opera d’arte da parte della realtà rappresentata. Sarà così per il ritratto di Don Gaetano da vivo, i cui occhiali suggeriscono il riconoscimento della sua figura nella somiglianza con il Diavolo raffigurato nella Tentazione di Sant’Antonio di Rutilio Manetti. E sarà così anche per il suo ritratto da morto: «Le gambe, aperte quasi a squadra, tendevano l’abito talare; che nello scivolare era andato su, scoprendo le calze bianche […]. Distogliendosi dalle calze, l’occhio, […] si fermava poi agli occhiali che, dal cordoncino attaccato al petto, erano scivolati su una radice e vi stavano in curiosa angolazione rispetto a un raggio che, di tra le foglie, vi cadeva. Sembrava il particolare di un quadro di caravaggesco minore». L’ultimo ‘quadro morente’, con l’ekphrasis della figura scomposta di Don Gaetano, segnala il tentativo estremo di esplorazione, attraverso l’ordine delle somiglianze fra reale e immaginario, della soglia della visibilità, a imitazione di un altro pittore (Odilon Redon) citato nelle pagine del romanzo che nella sua arte aveva messo la «logica del visibile […] al servizio dell’invisibile».

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