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Non chiedete chi è Gatsby. Uomo enigmatico per la sua ricchezza e le sue illusioni, egli si rivela a noi attraverso le immagini irriverenti di Baz Luhrmann. Che peccato. The great Gatsby, pubblicato a New York nell’aprile del 1925 e cinematograficamente prolifico dato che vanta già tre adattamenti (1926, 1949 ed il celebre pluripremiato del 1974), aderisce al linguaggio artistico e rappresentativo del regista australiano, che si è già servito della grande letteratura (William Shakespeare’s Romeo+Juliet, 1996) per interrogare la contemporaneità. Perché Jay Gatsby è una creatura di oggi, per quello sguardo sugli Stati Uniti del ‘Nobile esperimento’, in piena Jazz Age. Da qui la smodatezza, l’incoscienza, la frenesia, la velocità, la frivolezza, il denaro, lo sperpero, il potere: tematiche facilmente riconducibili alla crisi odierna e da Luhrmann virate al grottesco, votate all’esibizione.

Attraverso Nick Carraway, voce narrante e testimone degli eventi, diveniamo osservatori di un mondo alto-borghese che degenera piacevolmente nella propria quotidianità. L’alcol dell’era proibizionista è stato sostituito dal consumo delle droghe, i cui effetti sono testimoniati da certa «fame chimica», dalle parole in tre dimensioni che descrivono l’alterazione percettiva, da un hip-pop martellante che evoca il frastuono della discoteca (tra gli altri ascoltiamo Jay-Z, Florence and the Machine, Beyoncè, Will.i.am). Perfino l’atto sessuale va ostentato: Carraway ascolta Tom (il marito di Daisy) e l’amante Myrtle che fanno sentire il loro amplesso dietro la porta; ma pure la piccola festicciola improvvisata nell’appartamento newyorkese di Mr Buchanan sembra trasformarsi in un’orgia, quando al termine vediamo i partecipanti ubriachi e seminudi. Le scenografie di Catherine Martin sono vertiginose e smisurate, i paesaggi sconfinati. Si veda «la valle di ceneri», al contempo discarica, sede di miniere e drug-stores: Fitzgerald ce la racconta quale «landa desolata», dove di rado distinguiamo qualche minatore, gli «uomini grigio-cenere»; Luhrmann ne fa una città d’immondizia e polvere in cui gli operai vengono nitidamente inquadrati dalla m.d.p.

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