Naîveté

di

     

«Famiglie vi odio». Questo grido di Gide, che in Sicilia sarebbe diventato un urlo, i siciliani lo reprimono e macinano, lo impastano, lo lievitano di amore e religione; e lo offrono come il miglior prodotto del loro antico masochismo. Rosanna Musotto sembra invece che si diverta. «Famiglie mi divertite». Un divertimento franco, aperto, senza complicazioni. E dalla famiglia il suo divertimento trascorre e si allarga al paese e al rione cittadino, cioè ai luoghi in cui tante famiglie ne fanno una; alle feste paesane e di quartiere, col santo patrono, le luminarie, la banda; all’opera dei pupi e ai concerti lirici; ai battesimi, i matrimoni, le visite di condoglianza e le scampagnate. E tutto è colto nelle declinazioni comiche; a tal punto che direi la sua «naîveté» consistere, prima che nel modo di dipingere, nella capacità di scoprire in leggerezza e allegria una realtà oggettivamente greve e sgradevole; votata ai luttuosi fasti dell’amor proprio. Di sorprenderla insomma.

L. Sciascia, Famiglie mi divertite! (1975)

Sciascia amava i pittori ‘ingenui’ perché nei loro dipinti intravedeva quasi un’amara serenità e scorgeva, dietro le forme solo apparentemente semplici che questi dipingevano, la rappresentazione di una realtà greve e pesante simile a quella che lui stesso si adoperava a mettere in scena nei suoi libri. Nonostante lo scrittore amasse i giochi complicati, gli intrighi e i labirinti (entro cui spesso faceva perdere i lettori senza fornire loro nessun filo di Arianna) lo divertivano le incursioni nei territori fantastici che vedeva rappresentati sulle tele e lo incuriosiva quel modo semplice di mostrare il reale depurandolo da ogni ruga e da ogni crepa. A scorrere le tante pagine che Sciascia dedica all’arte, si ritrovano molti apprezzamenti verso la pittura dei naïf. Probabilmente perché ogni qual volta che lo scrittore guardava uno di quei dipinti era sedotto dalla leggerezza di quelle figure, che volevano prendere vita e per le quali il rettangolo di una cornice appariva troppo stretto. Girovagando per le gallerie d’arte palermitane, Sciascia sembra andare alla ricerca di pittori naïf di cui la sua Sicilia era terra ricca. Durante una di queste passeggiate, incontra, quasi per caso, il pittore Crescenzio Cane, autore della parola «sicilitudine» che in seguito sarà tanto cara allo scrittore, e si innamora dei galli, dei cavalli e di quelle piccole figure che Cane dipingeva con colori talmente abbaglianti da disturbare l’iride. Tuttavia, all’occhio vigile di uno scrittore che è anche «poliziotto di Dio» non basta fermarsi dinanzi alle prime impressioni; indaga e scopre che dietro quell’impasto di vernici, al di là del ritratto giocoso e quasi paradisiaco di cui quei quadri sembrano essere portavoce, si nasconde un riso amaro che soffoca il pianto. I dipinti diventano così lo specchio di una maschera, quasi una rappresentazione in figure dell’umorismo di Pirandello. Considerazioni simili verranno proposte dinanzi ad altre tele che all’apparenza potrebbero sembrare canovacci per fiabe felici come quelle di Rosanna Musotto Piazza o di Maurilio Catalano, il quale amava ricreare il blu del mare siciliano che nella sua immaginazione era abitato da coralli rossi o polipi giganti.

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