Videointervista a Tomaso Binga

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Il 17 aprile 2021 la redazione di Arabeschi ha incontrato presso la sua casa-studio l’artista Tomaso Binga, al quale è dedicata la rubrica Incontro con del numero 18. La conversazione è stata curata da Cristina Casero e Raffaella Perna con il supporto tecnico di Edoardo Spallazzi per le riprese e di Vittoria Majorana per il montaggio.

L’incontro ha toccato i punti cruciali della formazione visuale e poetica dell’artista, la sua attitudine performativa, la consapevolezza in ordine al pensiero e alla pratica femminista, il rapporto con i modelli, il peculiare istinto verso la scrittura, la capacità di coniugare originalità espressiva e utilizzo di materiali ‘poveri’.

La redazione di Arabeschi esprime un sentito ringraziamento a Rosa Galantino e alla Fondazione Filiberto e Bianca Menna.

 

 

1. Le prime mostre

Tomaso Binga: Questo mio nome maschile non fu accettato subito dagli altri o dalla famiglia, tranne che da Filiberto[1] che era un giocherellone. Lui lo prese come un gioco ma per me si trattava di una cosa seria perché in quel momento noi donne non avevamo, soprattutto nel campo dell’arte, nessuna voce in capitolo, non eravamo prese in considerazione. Per esempio, in quel momento realizzai una mostra in una galleria e un signore, al quale piacquero le mie opere, non appena sentì che appartenevano ad una donna disse «Io non compro quadri di donne perché fanno mostre solo per mettersi in mostra e non per attitudini vere». Quindi fu un gesto provocatorio come tanti altri gesti provocatori nella mia lunga vita. Oggi ne ho anche un altro che vorrei fare e spero che si possa realizzare.

 

Raffaella Perna: Ci puoi dare qualche anticipazione?

 

T.B.: Non so se posso darla...

 

R.P.: Va bene. Nel tuo archivio conservi una fotografia in cui Giulio Carlo Argan è ritratto mentre mangia dello zucchero filato, in occasione dell’inaugurazione della mostra personale alla Galleria L’Obelisco di Roma, dove era esposta una selezione di opere appartenente alla serie dei Polistirolo. Com’era concepita questa mostra a L’Obelisco?

 

T.B.: A L’Obelisco presentai per la prima volta a Roma i Polistirolo, che furono presi poco in considerazione perché realizzati con un materiale di scarto, quasi tutti furono ricoperti con il plexiglass e quindi avevano una presenza più forte. Questo materiale rassomigliava moltissimo, per il suo biancore, allo zucchero filato, e in occasione dell’inaugurazione chiamai un carrettino che faceva lo zucchero filato e che consegnava a tutti quelli che entravano un bastoncino. Somigliava molto al bianco del polistirolo e quindi ‒ ho qualche foto ma non si vede nei particolari ‒ tutti i partecipanti alla mostra avevano in mano lo zucchero filato. Mi colpì questa analogia fra il gesto e il cibo che era simile al polistirolo, o il polistirolo simile allo zucchero.

 

R.P.: Come sceglievi le immagini che inserivi all’interno di queste scatole di polistirolo?

 

T.B.: Erano sempre immagini che sceglievo su riviste pubblicitarie, dove il più delle volte comparivano donne prese in considerazione non come artiste ma solo come corpi.

 

R.P.: Già nei Polistirolo compare la tua scrittura desemantizzata. Si tratta di una grafia illeggibile, che si trasforma in disegno, e che successivamente assumerà una dimensione ambientale nell’installazione Carta da parato a Casa Malangone nel 1976. Con la scrittura desemantizzata prende avvio il tuo lavoro sul legame fra parola e immagine, cuore di tutta la tua ricerca. In che rapporto si pone la scrittura desemantizzata rispetto alle sperimentazioni verbo-visive condotte nel decennio precedente dal Gruppo 70? C’è un legame o si tratta di sperimentazioni molto diverse?

 

T.B.: No, credo che non ci sia un legame perché la poesia verbo visiva è una poesia dove le immagini prevalgono rispetto alla scrittura. Inizialmente cominciai a sottolineare i Polistirolo con una scrittura, i primissimi sono tutti realizzati con immagini mentre negli ultimi è presente solo una scrittura desemantizzata. Mi soffermai sulla scrittura perché mi piaceva dilatare un verbo o un sostantivo con dei segni che ritornavano su loro stessi, i primi sono fatti così. All’epoca realizzavo questi segni con il pennarello, il quale aveva delle caratteristiche che mi sono portata dietro, ad esempio per la firma. Il pennarello concedeva la possibilità di non staccare mai la penna dal foglio, era quasi come una matita più pregnante. In precedenza ‒ io sono nata con la penna e l’inchiostro ‒ si doveva intingere ogni tanto la penna per poter proseguire con la scrittura, invece in quel caso era la mano che con questo pennarello poteva all’infinito, senza staccarsi dal foglio, proseguire il suo cammino. Come se fosse stato un rapporto diretto fra la mente, la mano e l’oggetto che scrive.

 

R.P.: Tu mi dicevi che avevi in mente delle parole, anche se poi risultavano illeggibili. Quali parole sceglievi?

 

T.B.: Ho cercato anche di disegnarle e conservo ancora qualche paginetta. È una specie di scrittura automatica perché quando realizzai questi oggetti inserivo una parola o due, ma quando iniziai a scrivere lunghe pagine con la scrittura desemantizzata, mentre scrivevo pensavo, quindi ero in una sorta di trance che volevo fissare. Nelle primissime opere ho cercato di riscrivere quello che avevo scritto. Successivamente è diventato solo un segno, come lo è tuttora perché questo segno me lo sono sempre portato con me e l’ho utilizzato in qualsiasi momento della mia trasformazione artistica.

 

2. Il Lavatoio contumaciale

R.P.: Nel 1974 hai fondato, insieme a tuo marito Filiberto Menna, il centro artistico Lavatoio Contumaciale, di cui sei tuttora presidentessa. In quasi cinquant’anni di attività il Lavatoio ha ospitato mostre di poesia, concerti di musica sperimentale, conferenze, dibattiti, diventando un luogo nevralgico nella storia culturale romana. Cosa vi ha spinto ad aprire questo spazio?

 

T.B.: Noi organizzavamo sempre delle feste dove i nostri amici portavano una poesia o un quadro da far vedere. A un certo punto la nostra casa diventò affollata e tutti volevano partecipare, mi chiamavano per chiedermi il permesso di portare un amico, quindi spesso da trenta che eravamo diventavamo settanta persone. Non era più possibile restare in casa e quindi pensammo di cercare un posto dove poter allargare questa nostra esperienza che fu molto costruttiva in quel periodo. Ci sono ancora delle amiche che mi ringraziano di avere aperto loro le porte di un mondo che non conoscevano perché erano persone che non frequentavano il mondo dell’arte.

 

R.P.: Da cosa nasce il nome?

 

T.B.: Ho lasciato il nome che ho trovato sulla porta. Era un ex lavatoio contumaciale dove venivano lavati e bolliti i panni delle malattie infettive e quindi ho lasciato quel nome perché mi è sembrato emblematico: come lì si lavavano i panni infetti noi volevamo bollire e lavare le idee infette e passatiste.

 

R.P.: Che genere di mostre, letture e concerti facevate?

 

T.B. Da noi è passata inizialmente tutta l’elite teatrale come il teatro d’avanguardia e di sperimentazione. Successivamente siamo andati a periodi, nell’ultima fase ho dato molto spazio alla poesia.

 

3. Le mostre di sole donne

R.P.: Negli anni Settanta incontri la gallerista e curatrice Romana Loda e come numerose altre artiste italiane hai trovato in lei un’amica, una compagna di strada. Sempre in quegli anni hai preso parte a mostre di sole donne: Coazione a mostrare, Magma, Il volto sinistro dell’arte, Ennesima nuova. Come venivano recepite queste mostre? Come le vivevi tu e come le vivevano le altre persone?

 

T.B.: In quel momento è stato necessario fare mostre di donne perché non venivamo prese in considerazione. Chiaramente il sesso avverso si lamentò, allora iniziarono a denigrare queste esposizioni dicendo che erano dei ghetti e che noi ci facevamo chiudere in essi.

Io ero contenta di stare in quel ghetto perché non era chiuso, voleva essere guardato.

 

R.P.: Che carattere aveva Loda?

 

T.B.: Romana Loda era una donna affabilissima, fu fra le primissime a fare mostre di donne e a suo danno perché le donne non avevano mercato. Organizzò tante mostre importantissime ed ebbe anche dibattiti furibondi con gli uomini, con i critici, però era una donna simpaticissima e con lei abbiamo girato mezzo mondo ed esplorato tutti i luoghi adatti a noi. Lei ci consigliava e ci proponeva, a suo danno, tant’è vero che ad un certo punto smise di organizzare queste esposizioni perché altrimenti avrebbe dovuto chiudere la galleria a causa delle mancate vendite.

 

4. Le performance

R.P.: Nel 1972 hai realizzato la video performance Vista Zero nella rassegna Internazionale d’arte Acireale Turistico Termale nella sezione Circuito chiuso-aperto, coordinata da Italo Mussa e Francesco Carlo Crispolti. In quel momento prende avvio anche la tua attività performativa. Nel 2019 in occasione di Artissima a Torino hai realizzato la performance Head in collaborazione con Franco Curletto. Quali sono le differenze fra le performance degli anni Settanta e quelle che hai concepito dopo? Ci sono delle differenze?

 

T.B.: Sono sempre politiche. Anche la prima performance, Vista Zero, era quasi un voler dire che, nonostante tutti i nuovi mezzi di comunicazione, più mezzi di comunicazione c’erano e meno comprendevamo gli altri. La nostra vista si attutiva e si abbassava, nonostante tutte le novità dell’epoca.

 

R.P.: E in quelle più recenti?

 

T.B.: In quelle più recenti molto è nell’impaginato. È la parola che si trasforma in un’altra cosa, con delle parole simili che poi hanno altri significati che ti portano a terzi significati, ma sempre politicizzati. La mia non è una poesia a sé stante, la mia è una poesia politica.

 

R.P.: Mi ricordo Poesia muta dove c’è una tua immagine con il megafono in mano e la scritta «poesia muta». Ma come si svolgeva l’azione in quel caso?

 

T.B.: Poesia muta perché muta era la situazione della donna che non poteva parlare. Infatti in questa poesia muta c’è un verso che si ripete «zitta tu, non parlare», ed era quello che ci sentivamo dire noi donne dagli uomini.

 

R.P.: E tu recitavi la Poesia muta con il megafono?

 

T.B.: Sì, con il megafono.

 

5. Materializzazione del linguaggio: la Biennale del 1978

R.P.: Nel 1978 hai esposto alcune opere della serie Dattilocodice alla mostra Materializzazione del linguaggio, curata da Mirella Bentivoglio. Per la prima volta le opere di circa ottanta artiste, attive soprattutto nel campo della poesia visiva, vengono presentate alla Biennale di Venezia. Qual è il ricordo di quella mostra e in generale il significato del Dattilocodice?

 

T.B.: Il Dattilocodice è uno dei tanti alfabeti che ho ideato durante la mia vita ed è nato da un errore. Tutti hanno sbagliato scrivendo a macchina, ma quello fu un errore pregnante perché, guardando bene, vidi che quel simbolo sembrava un’ancora. Dopo questo errore ho composto e abbinato ogni singola lettera della macchina da scrivere con tutto il resto, maiuscolo e minuscolo, realizzando nove tavole. Ogni tavola conteneva a sua volta trenta simboli, per un totale di novanta. Di questi ho scelto i più significativi, ossia quelli che si fondevano e producevano una nuova immagine. Altri rimanevano un po’ staccati e le due lettere che mettevo vicine non davano origine a nuove forme, ho scelto quindi le migliori e su quelle ho lavorato realizzando dei pannelli, sempre con la macchina da scrivere.

 

R.P.: E la mostra di Mirella Bentivoglio com’è stata recepita? Tu eri stata all’inaugurazione?

 

T.B.: Sì, lì ci fu anche un episodio abbastanza scabroso. Alcuni gruppi femministi si accorsero che in quella mostra non erano presenti donne, quindi fecero sapere che avrebbero dato vita a una sommossa scandalosa. Gli organizzatori si spaventarono e chiamarono Mirella Bentivoglio ‒ perché sapevano che possedeva una collezione enorme di lavori femminili ‒ affinché organizzasse una mostra. Questa mostra però non fu realizzata nel momento della prima inaugurazione, ma dopo. Infatti a giugno si inaugurò la mostra senza una donna e la nostra fu inaugurata a settembre. In quel periodo questa esposizione non riuscì a smuovere nulla. Rimase tutto com’era e dovettero passare ancora dieci, quindici anni prima che qualcuno si ricordasse della nostra esistenza.

 

6. Mail Art

R.P.: Un altro aspetto importante della tua ricerca, ancora poco indagato dalla critica, riguarda il lavoro postale. Riflessioni appuntate del 1991 è in tal senso il progetto, forse, più complesso; ci puoi raccontare qualcosa di questo lavoro?

 

T.B.: Questo è un lavoro che è durato un anno perché ogni mese producevo una cartolina istoriata con la macchina da scrivere su un argomento scelto in quel mese. Ogni mese proponevo uno di questi avvenimenti e li compilavo con la macchina da scrivere come fossero immagini, poi andavo dallo stampatore a farle stampare e le spedivo a duecento persone italiane e straniere, quindi fu un’operazione costosa perché dovevo comprare duecento francobolli ogni mese e pagare il lavoro dello stampatore. Le ho indirizzate prevalentemente ad amici, critici, artisti e galleristi. Alla fine di tutta questa manifestazione inviai a tutte le persone una richiesta di presentazione delle opere che avevano ricevuto, per poter ottenere in contemporanea duecentottanta mostre in duecentottanta posti. Questo non si realizzò chiaramente, ma molti mi scrissero (ho tutta la corrispondenza con le persone che mi hanno scritto) che avevano aperto la loro casa agli amici e ai parenti in un giorno preciso ad un’ora precisa per poter far sì che in quell’istante duecentottanta persone potessero collegarsi anche mentalmente e formare una catena energetica che potesse, forse, salvare il mondo.

 

R.P.: Quest’idea di una collaborazione era presente anche nella performance Oggi spose, durante la quale hai inviato e ricevuto telegrammi.

 

T.B.: Anche io ho ricevuto una corrispondenza ridanciana, ma qualcuno mi rispose seriamente «guarda, questo gesto che hai fatto è molto serio».

 

R.P.: Perché all’epoca ti sposavi con te stessa.

 

T.B.: Sì, con me stessa.

 

7. Scritture viventi

R.P.: Una delle tue opere più celebri è l’Alfabetiere murale del 1976, che nel 2019 hai rielaborato nell’Alfabetiere monumentale. Com’è nata l’idea dell’Alfabetiere murale e come si è trasformata in questa idea più recente?

 

T.B.: Il progetto si è trasformato ad opera di alcuni committenti, chiamiamoli così. Dopo l’invito di Dior ho realizzato un acrostico sulla condizione femminile ‒ che Maria Grazia Chiuri ha messo insieme e tradotto in francese ‒ sulla condizione femminile con il mio alfabeto del corpo. Quindi la produzione di questo grande alfabeto, che io ho rinominato Alfabeto monumentale, è dovuto non tanto a me quanto a Dior.

 

R.P.: Invece per quello iniziale tu collaboravi anche con Verita Monselles, le fotografie le ha scattate lei.

 

T.B.: Devo dire che fu un incontro veramente felice perché conobbi Monselles in una delle mostre di Romana Loda e lì per la prima volta fece un bel servizio fotografico sulla performance che misi in atto lì, Parole da conservare, parole da distruggere. Poi diventammo amiche e scoprii che si stava dedicando a un lavoro che anch’io volevo portare avanti. Stava lavorando su un corpo che partiva da una linea, una croce, e che materializzandosi diventava un corpo di donna. Questo lavoro mi impressionò e mi sollecitò, avevo questo progetto che non sapevo come realizzare e avevo già messo da parte degli schemi, però non sapevo come produrlo. Verita era una fotografa bravissima e mi aiutò a fare le foto, tanti gesti vennero pensati insieme; lei viveva a Firenze, io a Roma, quindi il sabato e la domenica la raggiungevo, perché insegnavo. Devo dire che non fu facile, anche mostrarsi nuda non lo è stato, poi mi sono abituata.

 

R.P.: Nelle prime performance ‒ Vista zero, Nomenclatura, Ordine alfabetico ‒ non leggevi e non recitavi poesie.

 

T.B.: No, nelle prime no.

 

R.P.: Ecco, com’è avvenuto questo passaggio? Perché l’attenzione per la parola c’era già.

 

T.B.: Però allora nessuno leggeva poesie, ci si vergognava. Io mi vergognavo di dire «sono una poetessa», sul serio, e come me tutti gli altri. La poesia è scattata con l’incontro della poesia sonora, io rimasi folgorata da alcune recitazioni sperimentali, venni trascinata da questo vento sonoro. Un po’ c’era in me questa tematica, questa allitterazione, e quindi ho cominciato sistematicamente ad occuparmi di questo.

 

R.P.: In che anni?

 

T.B.: Negli anni Novanta.

 

8. Casa Malangone

R.P.: E l’idea di costruire un ambiente come Casa Malangone?

 

T.B.: Quello fu importante perché lì iniziai con la scrittura dilatata, cioè i pensieri delle donne che, stando chiuse in casa, pensano e vedono i loro pensieri arrampicarsi sulle pareti per poi restarci. Da questa intuizione pensai di tappezzare una casa perché avevo cominciato già a lavorare con la carta da parati, organizzai la prima mostra con un rotolo e da qui scattò l’intenzione di dare vita a un ambiente, che non fu facile da trovare. Chi voleva farsi tappezzare una casa tutta scritta? Poi trovai un ragazzo, un amico di amici che frequentavano la nostra casa, mi pare un amico di Antonio Passa, che accettò di farsi tappezzare casa. Realizzai questa performance dove attaccavo la carta manualmente, ero diventata un’esperta attacca carta da parati.

 

R.P.: E poi hai realizzato un libro fotografico.

 

T.B.: Sì, ho realizzato un libro fotografico sulla carta da parati.

 

R.P.: In quell’occasione il fotografo era Antonio Nievo.

 

T.B.: Antonio Nievo scattò un bellissimo servizio fotografico.

 

R.P.: Inizialmente, forse, davi meno importanza alla documentazione delle tue performance.

 

T.B.: Sì è vero, anche perché non avevamo i mezzi per farci fare un servizio fotografico, lui lo realizzò gratis perché apprezzò l’operazione. In quel periodo realizzai diverse performance a Napoli e lui, essendo napoletano, ebbe modo di vedere le mie performance e mi chiese di poter realizzare un servizio fotografico.

 

R.P.: E da lì è nato il libro.

 

T.B.: Sì, da lì è nato il libro e questo servizio fotografico bellissimo, e meno male, altrimenti non avrei avuto nulla. Di tante cose non ho fotografie perché allora era difficile.

 

9. Il rapporto con la pittura

R.P.: Negli anni Ottanta inizi anche un lavoro sulla pittura con la serie Biographic. Come si colloca questo passaggio alla pittura? È qualcosa che ti interessa o lo hai abbandonato?

 

T.B.: Veramente l’ho abbandonato. La scrittura desemantizzata compare nel Biographic un po’ meno, ma successivamente ho realizzato un paio di operazioni che ho chiamato Picta scripta, scripta picta, dove usavo la scrittura e l’immagine e, a seconda della prevalenza dell’una o l’altra, il nome cambiava. Adopero spesso questi cambiamenti con le opere in movimento che si trasformano. Per esempio adesso ho trovato una cosa che ho fatto tanti anni fa e che credevo perduta, non la ricordavo, ossia tanti tasselli biografici, fatti con il Biographic, colorati, con i quali ho creato delle immagini e poi li ho messi insieme. Sono diciassette piccoli tasselli che formano un quadro che può cambiare a seconda della posizione dei tasselli, questo era l’intento, quindi l’opera cambia e diventa un altro quadro. Poi le posizioni sono tantissime, con diciassette piccoli tasselli si possono comporre molti quadri.

 

R.P.: A che cosa stai lavorando adesso?

 

T.B.: Adesso è un po’ di tempo che sto lavorando su questo progetto che si chiama Grazie font, dato che ho sempre lavorato sugli alfabeti. In un’occasione partecipai a una collettiva dove conobbi una giapponese che aveva realizzato un’opera dove ringraziava un oggetto, mi raccontò che loro ringraziano gli oggetti di cui si servono. Questo mi ha illuminato e mi ha fatto venire voglia di ringraziare i font che sono stati la mia fonte di ispirazione e con i quali ho lavorato, quindi ho cominciato a dedicargli un ringraziamento. Poi con questi font ne ho realizzati alcuni dedicati a tutte le nazioni europee con un ringraziamento nella lingua italiana e nella loro lingua, solo la parola grazie però.

 

R.P.: Grazie a te adesso per l’intervista.

 


1 L’artista si riferisce al marito, Filiberto Menna (1926-1989), critico d’arte e docente di Storia dell’arte contemporanea nelle Università di Salerno e di Roma “La Sapienza”, cfr. <http://www.fondazionemenna.it/filiberto-menna> [accessed 05.12.2021].