11.1. Custodire e abitare le immagini: corpo e pellicola in Agnès Varda

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Pelle, pellicola, messa in scena del corpo, autorappresentazione. Performatività. Materialità di schermi, superfici. Tempo che consuma e si consuma, tempo da ricostruire. Bellezza della consunzione e dell’imperfezione. Abitare il tempo e abitare il cinema, indossare il tempo, indossare il cinema.

Il percorso di Agnès Varda, oggi novantenne, è un percorso nelle immagini: fortemente ispirata dalla pittura, dalla fotografia (lei stessa è fotografa), protagonista di un cinema noncurante di etichette e steccati, documentitore (Documenteur, 1981) e con una impronta – uso questo termine quasi in senso letterale – fortemente e consapevolmente autobiografica.

«La vecchia cineasta si è trasformata in giovane artista plastica», ha affermato commentando questa fase del suo lavoro. E in effetti non solo Varda ha concepito per le proprie opere percorsi installativi (come del resto hanno fatto altri cineasti della sua generazione, da Godard a Marker), ma si è dedicata a vere e proprie installazioni in cui le immagini in movimento non sono l’unico elemento, perché ne fanno parte oggetti, materiali diversi, fotografie. Inoltre, ha costruito film, in particolare il mirabile Les Plages d’Agnès, 2008, come percorsi installativi. Non solo: Varda ha trasformato se stessa in opera d’arte, con un’attitudine performativa basata in gran parte su costumi e travestimenti, sia nei film (ancora e soprattutto Les Plages d’Agnès) sia in esposizioni d’arte, come quando si è presentata alla 50° Biennale d’arte di Venezia nel 2003 (padiglione ʻUtopia Stationʼ) trasformata in patata gigante, in occasione della sua prima installazione video Patatutopia. Un trittico (forma che ricorre spesso nelle sue installazioni) in cui si mostrano le patate scartate perché non conformi alle leggi di mercato. Patate difformi, in modo anche poetiche – come quella a forma di cuore – o commoventi (rugose, germoglianti). Imperfette. Patate (e qui si arriva all’elemento tattile, così presente nel cinema di Varda) da accarezzare, ripulire dalle tracce di terra, disporre e preparare per la messa in scena della loro bellezza.

Possiamo abbandonarci alla ricchezza e all’inventività di queste immagini, alle storie che ci raccontano, ai personaggi che le abitano, da Cléo (Cléo de 5 à 7, 1962) a Mona (Sans toit ni loi, 1985) alla stessa Varda che ci parla della propria vita. E possiamo trovare in questo percorso una storia e un’idea di cinema, di un cinema che vive nel proprio tempo (dalla Nouvelle Vague alle commistioni fra documentario, finzione e autobiografia, fino al video, alla dimensione espositiva, al digitale). Ma possiamo anche andare alla ricerca di tracce e di echi, o più appropriatamente di assonanze, di segnali e di indicazioni, di quella trasformazione e di quella particolare dimensione attuale del cinema e delle arti che Giuliana Bruno analizza nel suo Superfici. Pur se la Bruno non si sofferma sul lavoro di Varda, limitandosi a citarla in un elenco di cineasti che si dedicano (anche) alle installazioni.

Individuo qui in Varda in particolare alcuni aspetti fra quelli analizzati da Giuliana Bruno nella sua esplorazione della materialità attraverso la nozione di superficie («La superficie incarna la relazione della materialità con l’estetica la tecnologia e la temporalità»), intesa anche come elemento di contatto, con uno spostamento dalla dimensione ottica a quella aptica.

Il primo aspetto è quello in cui maggiormente si incarna il carattere performativo di Varda, ʻgiovane artista plasticaʼ: il costume, la stoffa, una seconda pelle che può essere estesa fino alla scenografia. Così si trasforma in patata, ma cambia anche vestito in ogni scena o si traveste da donna decrepita in Les Plages d’Agnès; ancora un travestimento nella sequenza in cui, nello stesso film, racconta dei propri studi e si mette in scena nel ventre di una balena; o si ʻincastraʼ in sagome disegnate, di cartone; e molte altre forme di autorappresentazione, o di rappresentazione dei personaggi – gli amici, ad esempio – in cui oggetti, vesti, colore di capelli, corredano posture e punteggiano il discorso in modo da conferire un alone di favola (o, talvolta, un tono autoironico ) al racconto ʻrealeʼ.

Del resto questo va di pari passo con l’attenzione al corpo, sia nella importante attività di Varda fotografa che nel suo cinema; in Les Plages d’Agnès nelle commoventi sequenze dedicate al marito, Jacques Demy, con un’esplorazione ravvicinata e ʻtattileʼ di capelli e occhi; nella messa in scena della nudità, estesa a tutto il corpo nel tableau vivant da Les amants di Magritte; ma anche nel lucido candore con cui l’invecchiare è narrato nel film realizzato con JR, Visages Villages (2017). La pelle è poi un elemento preciso di riflessione nella sequenza di Les glaneurs et la glaneuse in cui Varda, ormai munita di piccola videocamera, si sofferma quasi involontariamente sulla propria mano e riflette sul gesto di filmare con questi piccolissimi apparecchi: «filmare con una mano l’altra mia mano», commenta.

E nel 2011, in un dialogo con l’artista Ursula Meier racconta:

Stavo filmando una cartolina che avevo portato dal Giappone, la mia mano è scivolata, l’ho filmata e ho avuto l’impressione che divenisse un paesaggio. Mi sono liberata di quel che ero e ho iniziato a trovare interessante questa cosa: le mie vecchie mani tutte rovinate potevano comunque recitare! Era bene, perché, senza farlo apposta, iniziavano a mettersi in gioco dei temi. È la stessa cosa per le patate che avevo conservato durante le riprese de Les Glaneurs...Sono invecchiate, si sono rattrappite, hanno germogliato. Le ho filmate, ne ho fatto l’installazione intitolata Patatutopia...

Un altro elemento della riflessione di Bruno, forse il più esteso, è quello che riguarda lo schermo, la superficie di visione: mobile ed eretica in Varda nella mostra alla Fondation Cartier, tenda a listoni da aprire ed attraversare, con le immagini del passaggio dell’isola di Noirmoutier durante l’alta e la bassa marea proiettate sopra, col pontile e con una vera sbarra che si alza per i visitatori. Riferimento all’arte contemporanea e alla Body Art in Les Plages d’Agnès, in cui lo stesso corpo di Varda diventa schermo su cui passano le immagini del mare: lei, di spalle, è vestita interamente di bianco, inclusa la testa. Ma le riflessioni su schermo, tela, tenda, vetro, finestra, parete, specchio, percorrono artisticamente l’opera di Varda, fra film e installazioni. Foto infilate al suolo (nell’installazione Les Justes, 2007), nella sabbia, personaggi e paesaggi inquadrati nelle cornici di specchi, e l’uso di intarsi elettronici per ʻapparizioniʼ in casa, come schermi o finestre virtuali (ancora Les Plages...). Ma anche riflessione su schermi anomali e ambulanti: come quando Varda per Les Plages d’Agnès ʻreinstallaʼ e ʻrilocaʼ oggi spezzoni non utilizzati di un suo documentario del 1954, La Pointe Courte, nelle strade del paese di Sète, dove il film era stato girato: un proiettore e un piccolo schermo che avanzano sospinti nell’oscurità, piazzati su un carretto e seguiti da un piccolo gruppo di abitanti.

Il che ci porta ad altri elementi di riflessione: il riciclo, ad esempio, che era stato del resto il tema del documentario Les Glaneurs et la glaneuse, 2000 (dove per ʻla glaneuseʼ si intende lei, la Varda, raccoglitrice di immagini restate al margine, imperfette, scartate dalle norme mercantili – come le patate dalle forme eterodosse: The Gleaners and I, il titolo inglese, rende bene l’idea). Les Plages d’Agnès (come anche la mostra L’ile et elle alla Fondation Cartier, 2006) è una sorta di monumento fatto di minuzie come di oggetti importanti, di piccole e di grandi storie, di racconti invisibili, persone scomparse, oggetti apparentemente irrilevanti. Un film che contiene fotografie, disegni, mostre, installazioni, e ancora film, e film esposti.

Giuliana Bruno parla dell’artista che diventa archivista, e Varda attinge senza sosta a un archivio in cui la storia personale si intreccia come in un tessuto («tessuti di tempo», per citare ancora Bruno) con la storia delle immagini e con quella di un’epoca; ma sempre con una traccia corporea, come se la voce e le mani di Varda accarezzassero e filtrassero quei segni ripescati dai cassetti e dalla memoria. Le mani del resto sono al centro di varie sequenze in cui questa relazione diretta con le immagini è chiaramente evidenziata: mani che cercano, che raccolgono, che indicano e mostrano, che sistemano o addirittura inquadrano, formando un cerchio in cui racchiudere le cose da riprendere (come nella sequenza on the road in Les Glaneurs et la glaneuse, su cui torna a soffermarsi anche in Les Plages d’Agnès).

Pelle-paesaggio, come nelle patate o nella foto di un dorso nudo, di spalle, che sembra una noce; pelle segnata, macchiata, invecchiata: Varda rievoca ancora in Les Plages... la propria formazione giovanile come fotografa, il paziente lavoro di taglierina e di ritocco di stampe che poi si sono macchiate e rovinate «e che sono belle così», commenta, nel mostrarci l’umidità che ha divorato le immagini. Torna su questo tema anche in Visages Villages, non solo per l’evidente precarietà delle fotografie che come pelle rivestono i muri, destinate a sparire prima o poi, ma soprattutto nella sequenza sulla spiaggia, con l’immagine dell’amico morto incollata su un enorme macigno e divorata dalla marea in una sola notte.

Pelle, pellicola, indumento, casa: nell’ultima installazione di Agnès Varda la casa-cinema, già costruita nella mostra alla Fondation Cartier (ʻLa cabane de l’echecʼ), giocata sulle trasparenze delle strisce di film che ne costituivano le pareti, si evolve e diventa una costruzione più complessa. Di nuovo una casa di pellicola, o meglio una serra in cui sono coltivati dei girasoli (il materiale è una copia 35mm del film di Varda Le bonheur, 1965): nella mostra ʻLa cabane du cinéma: La serre du Bonheurʼ (Galerie Nationale Obadia, Parigi, 14 aprile-9 giugno 2018) oltre alla serra compare un arco interamente costituito da scatole metalliche rotonde, evidentemente usurate; scatole che hanno viaggiato e vissuto molto. Sono le scatole delle ʻpizzeʼ di pellicola: un tipo di oggetto destinato a scomparire, fra l’altro. «Mi piace molto l’idea del riciclaggio [...]. Non si sa più se si tratta di cinema, di fantasticheria, di ricordo. Per me è tutto questo: ricordo di essere stata cineasta, ricordo fisico del film. Ho adorato maneggiare la pellicola, e ho serbato questo gusto, anche se sono molto a mio agio nel digitale», dice Varda in una recente intervista pubblicata sui ʻCahiers du Cinémaʼ. E aggiunge, a proposito dell’installazione tutta fatta di pellicole arrotolate e srotolate: «È come se si potesse entrare nel film». Il film è un’architettura, una casa. Il film, pelle-pellicola, è un corpo.

 

 

Bibliografia

G. Bruno, Superfici. A proposito di estetica, materialità e media, Milano, Johan & Levi, 2016.

Agnès Varda. Patates & compagnie, Musée d’Ixelles, Milano, Silvana editoriale, 2016 (pubblicato in occasione della mostra omonima, Musée d’Ixelles, Bruxelles, 25 febbraio-29 maggio 2016).

ʻJe, tu...elles filment. Ursula Meier & Agnès Vardaʼ, Bref, n. 100, novembre-dicembre 2011.

Les plages d’Agnès. Texte illustré du film d’Agnès Varda, Montreuil, Les éditions de l’oeil, 2010.

ʻLe Bonheur. Entretien avec Agnès Vardaʼ, Cahiers du Cinéma, n. speciale “Viva Varda!”, giugno 2018 (intervista realizzata da Louis Séguin a Parigi, 7 aprile 2018).