Dal Dottor Oss alla Stefi, passando per l’Orlando furioso: un viaggio nella fantasia. Intervista a Grazia Nidasio

di

     

 

D – Cominciamo dal 1964, quando sulle pagine del «Corriere dei Piccoli» appare un personaggio poi diventato celebre: il Dottor Oss. I testi e l’ideazione sono di Mino Milani, che decide di reinterpretare il testo di Jules Verne.

R – Sì, il racconto fu pubblicato per la prima volta su un giornale francese nel 1874, poi successivamente con altre novelle nell’edizione Hetzel. Milani trovò il libro su una bancarella ed ebbe l’idea di rifarlo in forma di immagini corredate dal testo.

Mentre nel primo episodio il protagonista aveva le caratteristiche delineate da Verne, quelle cioè di uno scienziato un po’ pazzo e un po’ malvagio, andando avanti il Dottor Oss è venuto assumendo caratteristiche proprie. Ne è uscito un personaggio ironico ed elegante, inventore di macchinari fantastici ai quali Milani, ovvero Piero Selva, dava nomi improbabili, come ‘Ossicoptero’ a un mezzo di trasporto ad elica rotante, o ‘Acquamobile Sommersivo’ a una specie di sottomarino, ecc. Rientrava in un filone di letteratura che riproponeva le invenzioni ottocentesche. Sono nati così sette episodi.

Mi divertiva fare queste ricostruzioni, usando riferimenti che andavano dagli antichi macchinari a pezzi di design attuale, come nel caso dello strampalato riutilizzo di una lampada di Castiglioni. Era una specie di sfida, di divertissement, una fantascienza inventata, così come i nomi para-scientifici in realtà inesistenti. Il racconto più geniale della serie, secondo me, è quello dell’Eremita Silvestro: il Dottor Oss entra in un’abbazia in rovina dove incontra un bizzarro monaco che non riesce a riparare uno strano apparecchio (che si rivela poi essere un’astronave), col quale vorrebbe tornare nel suo mondo. Allora Oss costruisce uno dei primi computer e risolve il problema.

Nella tecnica disegnativa al tratto le macchine erano restituite con il collage.

D – A livello di ispirazione rimaneva qualcosa di Verne, quindi, guardando anche alle illustrazioni di Rioud [illustratore storico delle edizioni Hetzel e dei racconti di Verne in particolare].

R – Sì, lo spirito verniano originario rimaneva: però tradotto in una chiave moderna, contemporanea, e secondo un’ottica parodistica.

D – Passando invece all’Orlando furioso [Orlando furioso raccontato da Italo Calvino. Illustrato da Grazia Nidasio, Milano, Mondadori, 2009], il lettore è sollecitato a trovare nelle immagini i continui riferimenti a opere celebri o a immagini entrate nella memoria collettiva: dalle Forme uniche della continuità nello spazio di Umberto Boccioni, alla Maya desnuda di Francisco Goya, fino alle architetture di Frank Gehry, ma anche l’impronta sulla luna fotografata da Aldrin e il monumento di Iwo Jima.

RL’Orlando furioso, per me è un progetto aperto, mi piacerebbe riprenderlo, non lo considero concluso con l’edizione del libro. A volte un libro, chiuso nel numero delle pagine, è come una stanza troppo stretta, perché bisogna aderire al progetto editoriale e fermarsi anche quando ci piacerebbe continuare.

Per esempio, mi sarebbe piaciuto fare tutti i titoli dei capitoli diversi, in modo che anche il carattere fosse identificativo dei singoli canti, ma si è dovuto usare un’unica serie di capilettera. Le grandi case editrici devono trovare un’uniformità tipografica nelle collane. Si devono anche rispettare i tempi: la Mondadori, nel pubblicare la selezione di Calvino nella Contemporanea Ragazzi, pensava già, per avvicinare più lettori all’Ariosto, di inserirla in seguito negli Oscar .

Avevo preparato i disegni per altre illustrazioni, una dedicata all’assedio di Parigi, con Rodomonte sulle mura che taglia la testa ai parigini, con migliaia di teste che rotolano dappertutto, e poi la scena del Giardino, il ‘Paradeisos’ di Alcina. Mi divertiva l’idea di una scenografia tutta nel verde, coi cavalieri immemori a inseguir fanciulle o intenti a banchettare in ricchi déjeuner sur l’herbe al suono di band vagamente rock. Però il libro era già di molte pagine, tanto che nell’edizione Oscar l’apparato illustrativo è stato ulteriormente ridotto.

Riguardo ai riferimenti: l’orma di Aldrin sulla luna è sicuramente molto nota ai ragazzi tanto da non richiedere spiegazioni; la scena del Castello d’Acciaio di Atlante, da cui l’ippogrifo esce, è una magnifica immagine ariostesca che rimanda anche all’idea calviniana, più vicina a noi, de Le Città invisibili; e cos’altro avrebbe potuto rappresentarla se non il Museo di Gehry? Era lì per me: il mio tempo mi ha offerto un ‘castello d’acciaio’, che poi non è di acciaio e non è un castello, ma non importa, lo spirito è quello. Questo parallelo tra passato e presente mi sembra essere stato il tema conduttore di Calvino quando ha fatto questa selezione. Con l’effetto di stringere un poema antico in un suo (e nostro) abbraccio letterario.

La scena del canto con Mandricardo e Doralice [raffigurata appunto come la Maya desnuda di Goya] mi ha divertita molto: il guerriero, dopo aver passato a fil di spada tutta la scorta della principessa, spalanca la tenda e si presenta tutto insanguinato per vedere la donna e verificare se era così bella come si narrava. Che può fare una povera ragazza? Urlare di spavento! Alla fine però si lascia sedurre e se ne va con lui, rinunciando a raggiungere il povero promesso sposo Rodomonte il quale si butta nella mischia e, infatti, ne morrà. È una scena da gossip, col finale da film dei due avviati ‘sulla via di un futuro radioso’, come in Tempi Moderni.

E poi, tra l’altro, c’è un omaggio al mio maestro, Francesco Messina, nel cavallo che Orlando ormai furioso trasporta a spalle: è quello celebre della Rai, per intenderci. Proprio al tempo in cui frequentavo l’Accademia, Messina era impegnato nei primi studi sui cavalli in vista dell’opera da eseguire.

Grazia Nidasio, illustrazione per Orlando Furioso di Ludovico Ariosto, raccontato da Italo Calvino. © 2009 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano, per le illustrazioni. Tutti i diritti riservati

D – Com’è stato dunque rileggere Ariosto attraverso gli occhi di Calvino?

R – Mi ricordo che ero in montagna coi figli, sono andata in libreria e ho trovato il volume Einaudi. E io che avevo tanto amato l’Ariosto lo riscoprivo ora, in quelle giornate piovose. Calvino lo raccontava, lo spiegava, preparava il lettore facendo capire quanto ci fosse del nostro presente nello spirito che animava ogni episodio. Infatti lui ha chiamato il poema «un grande affresco western». Geniale trasposizione, perché uno dei motivi per cui non ci si accosta facilmente ai classici sta proprio nella difficoltà di rapportarli con la vita di oggi. Convincersene è un grande grimaldello comunicativo: non sono classici per caso.

La selezione dello scrittore, soprattutto la presentazione, fa capire quanto il poema fosse stato da lui assorbito e metabolizzato. Tanto da nutrirne la sua stessa fantasia. Calvino ha reso accessibile il lessico cinquecentesco e ha isolato ogni dettaglio, o fotogramma, proprio come in un grande affresco, o in un film, interpretandolo, e invitando ciascuno a capire il lavoro del regista, dell’autore, in questo caso di Ludovico poeta.

Dunque, non era facile illustrare il testo, non potevo affrontare impunemente l’Ariosto: meglio sarebbe stato clonare direttamente Gustavo Dorè. Oppure ricorrere ad altri illustratori più bravi di me a rendere cavalieri, castelli e duelli e quant’altro. Penso, per esempio, a Giorgio De Gasperi (straordinario illustratore della «Domenica del Corriere», forse il più grande, secondo me), o a Di Gennaro, Toppi o Galloni; o perfino a quegli specialisti di immagini fantasy in grado di restituire cavalli, armature, tornei e castelli con una precisione filologica eccezionale. Ma non mi sembrava esser questo l’obiettivo di Calvino. Lui voleva rendere l’Orlando confidenziale, farlo scoprire dai ragazzi. Così ho cercato di portare lo stesso intento nelle immagini, facendo intanto molte semplici illustrazioni al tratto in margine al libro (non sto parlando di quelle a colori, necessarie e invece molto impegnative): appunti, aneddoti visivi, come fatti in classe da uno studente distratto. Senza perdere il filo della beffa sotterranea. La storia, vista così, è molto divertente: è come mettersi disarmati davanti ai miti. Ecco, Calvino ha aiutato un po’ tutti, io credo, a capire. Pensiamo soltanto alle Lezioni americane.

D – Pur essendo in una collana per ragazzi, l’Orlando furioso con le sue illustrazioni e il testo di Calvino non è solo un libro per ragazzi, per la qualità del testo e per la qualità delle immagini.

R – Certamente è un libro per tutti ma è importante che sia stato accolto in una collana per ragazzi. Ciò è stato possibile grazie alla tenacia, all’entusiasmo e anche al coraggio del gruppo redazionale della Mondadori Ragazzi che mi ha dato il necessario supporto. La buona riuscita editoriale è dovuta a tutti loro. Un’operazione per certi versi simile alla versione del Decameron narrata da Bianca Pitzorno [G. Boccaccio, Dame, mercanti e cavalieri: dieci novelle cortesi scelte e tradotte da Bianca Pitzorno, illustrazioni di Grazia Nidasio, Milano, Mondadori, 2007]. Rispetto a Calvino l’autrice, però, ha svolto una vera parafrasi del testo, come lei stessa dice nella prefazione, una vera ‘traduzione’ dall’italiano trecentesco di Boccaccio alla lingua d’oggi. Nell’impaginazione ho fatto in modo che ci fosse uno stacco tra una novella e l’altra con una serie di clown o giullari utili appunto a dividere il «sapore ognun diverso» delle novelle; nelle illustrazioni, riprendendo il quadro dei riferimenti alla contemporaneità, però in modo ‘soft’, ho dato ai personaggi le fattezze di Benigni, della Bellucci o di Zucchero.

 

D – Passando invece ai personaggi che lei ha creato o ai quali ha dato forma: da Violante (creatura di Guglielmo Zucconi) a Valentina Melaverde, fino alla Stefi, ha dimostrato di avere una straordinaria capacità di sintonizzarsi sull’attualità e cogliere gli umori e le tendenze del momento.

RVedo che passiamo allora dal territorio dell’illustrazione a quello completamente diverso del fumetto… E questa è un’altra intervista, che affronta temi di cui ho già avuto modo di parlare anche in altre circostanze.

Violante è stata inventata dal direttore Guglielmo Zucconi che veniva dalla Rai e aveva avuto a che fare con il fenomeno, già negli anni Sessanta, delle ragazzine che arrivavano accompagnate dalle madri, con il sogno e l’obiettivo di sfondare in televisione. Zucconi voleva fare una parodia di tutto questo. Io ho un po’ dovuto subire il personaggio e, in definitiva, non l’ho poi tanto amato. Zucconi era determinato nello svilupparlo, assieme all’idea di lanciare il fumetto che fino a quel tempo era stato poco utilizzato sulle pagine del «Corrierino». Per me è stata una palestra per dare vita in seguito a Valentina Melaverde, che, invece, impostai fin da subito su un’altra dimensione, meno grottesca e satirica e più legata ad una funzione di testimone dei tempi in corso, cioè il quasi-Sessantotto. L’avvio, per Valentina, non fu facile, considerando che il «Corriere dei Piccoli» era dominio di personaggi eroici. Questo ha comportato mettere in apertura delle storie alcuni consigli ‘al femminile’, quasi a giustificazione degli spazi sottratti all’avventura: da come preparare una torta a come fare un portauovo all’uncinetto e a seguire poi c’era la storia. Della prima parte non sono mai stata entusiasta e ho cercato subito di liberarmene per entrare nel vivo della narrazione. Durò sette anni: un vero tour de force, ma quando l’avventura di Valentina Melaverde s’interruppe c’erano in realtà molte cose che avrei voluto dire ancora. Ormai era seguita da un pubblico variegato, non esclusivamente femminile, e l’attualità entrava nelle storie, nelle situazioni, attraverso i ritratti di persone reali come Ermanno Olmi o Severino Gazzelloni. Avrei voluto parlare del sottosopra culturale che fuori si stava preparando.

 

 Grazia Nidasio, Valentina Melaverde

D – Quindi, dal suo punto di vista, cosa era diventata Valentina Melaverde?

R – Era diventata un po’ uno specchio del mondo giovanile dell’epoca, in un contesto piccolo-borghese. Anche padre e madre erano una sorta di stereotipo di genitori del tempo. Le pagine dovevano comunicare una naturalezza assoluta; mentre spesso allora nelle storie si preferiva una realtà esaltata in scenari insoliti, oppure esotici, quando non del tutto fantascientifici, in Valentina non doveva esserci nessun filtro e nessuno schermo. Non era una ragazzina privilegiata, non era niente di speciale: non una principessina, una maghetta, un’esploratrice, una futura prima ballerina o aspirante star. Se aveva il vestito alla moda era perché lo si poteva trovare anche nei grandi magazzini.

Erano gli anni in cui si era fortunati se ci regalavano una bicicletta e quando si andava al mare lo si faceva con l’utilitaria stracarica: padri, madri, figli, nonna e cane.

 

D – E invece la Stefi da quale coscienza emerge?

R La Stefi era destinata ai lettori più giovani e, mentre il «Corriere dei Ragazzi» si trasformava in «Corrier boy», fu pubblicata dal «Corriere dei Piccoli», diretto da Alfredo Barberis. Era sempre la stessa e c’era ancora la famiglia, compresa Valentina. Tutto appariva uguale ma ho dovuto adeguare graficamente il personaggio al nuovo contesto. Come ho dovuto fare, del resto, nell’attuale vignetta che appare sul «Corriere della Sera».

In quegli anni ho scritto anche 52 soggetti per una serie di animazione per la Rai. Tema della serie: ‘Stefi e i soldi’. Eravamo prossimi al cambio dalla lira all’euro e da più di un decennio navigavamo nella logica del profitto ad ogni costo e nello yuppismo: trovavo il livello consumistico preoccupante.

Ironizzare su tutto questo e dire ai ragazzi, attraverso il paradosso, che i soldi servono, sì, ma non sono il metro del mondo e soprattutto non determinano il valore delle cose ma solo il loro prezzo, mi sembrava urgente. Insomma, mi sono detta: approfittiamo del cambio della moneta, parliamo dei soldi e attraverso l’umorismo cerchiamo di rimettere un po’ a posto la gerarchia dei valori. Raccontare come i soldi non siano che pezzi di carta stampata su cui qualcuno ha fatto scrivere un numero e degli zeri, che il sole è gratis e le cose veramente importanti della vita come l’amore, l’amicizia, la fantasia, il coraggio o i sogni non costano niente; dire che non tutto si può comprare e nemmeno l’uomo più ricco del mondo può pagare per far smettere di piovere il giorno della sua partita a golf.

E, anche, dire di stare attenti perché se ti ‘consumano’ il paesaggio intorno o ti inquinano il mare e l’aria e qualcuno chiama questo ‘progresso’ e dice che lo fa per te, bene, è un inganno. Vuol dire che questo qualcuno (posso dire ‘ti frega’?!) ti deruba.

Ecco, con la voce di Stefi, con leggerezza (ma non tanto) mi sembrava utile dirlo.

Io ci credo ancora.

Grazia Nidasio, Stefi