L’arte dello spazio di Antonella Anedda

di

     
Abstract: ITA | ENG

Il saggio ripercorre i caratteri essenziali della poesia di Antonella Anedda a partire dal libro di esordio del 1992, Residenze invernali, focalizzando in particolare la revisione della soggettività lirica che va accentuandosi, fino a culminare nelle ultime due raccolte poetiche, Dal balcone del corpo (2007) e Salva con nome (2012). Ci si concentra poi su quest’ultima raccolta, letta in parallelo ai saggi aneddiani del 2009 e del 2013, La vita dei dettagli e Isolatria. In Salva con nome si rileva la programmatica costruzione di uno spazio poetico di tipo associativo, esemplato nelle figure del sogno e della casa, in cui, liberati dai vincoli dell’identità individuale e richiamando memorie personali e archetipiche, sia possibile l’evocazione e l’interrogazione della morte. Quella che Anedda definisce nel testo «arte dello spazio», è così individuata come motivo portante della poetica dell’autrice, in quanto costruzione di una sincronicità che abbatte le barriere tra vivi e morti, tra io e altro.

The essay reviews the characteristic traits of Antonella Anedda’s poetry, starting from her first book Residenze invernali (1992). In particular, it examines the ongoing revision of the poetic subjectivity that culminates in the last two poetic collections, Dal balcone del corpo (2007) and Salva con nome (2012). The essay focuses on this last collection, which is analyzed in conjunction with  Anedda’s essays from 2009 and 2013, La vita dei dettagli and Isolatria. The analysis of Salva con nome highlights the  programmatic construction of an associative poetic space which  expresses itself in the figure of the dream and the house. This space is free from the restrictions of individual identity and recalls personal and archetypical memories, and therefore allows the evocation and  interrogation of death.  In this way, Anedda’s «arte dello spazio» is identified as the basic element of the author's poetics: the construction of a synchronicity which cuts down the barriers between the quick and the dead, between self and the others. 

 

 

Nella stanchezza senza soccorso in cui il povero volto si dovette raccogliere tumefatto, come in un estremo ricupero della sua dignità, parve a tutti di leggere la parola terribile della morte e la sovrana coscienza della impossibilità di dire: Io.

Carlo Emilio Gadda

 

 

1. Oltre la soggettività lirica

Fin dall’esordio del 1992 con Residenze invernali, il percorso poetico di Antonella Anedda è segnato dalla messa in discussione della soggettività lirica che caratterizza il modernismo novecentesco.[1] In tal senso, nel corso di poco più di un ventennio, essa ha interpretato in modo del tutto personale e portato a compimento quel lungo processo di revisione del codice poetico monologico e autoreferenziale che, a partire almeno dalle istanze di un io aperto al fenomenico poste da Anceschi e recepite dalla Neoavanguardia negli anni Sessanta,[2] nel corso del secondo Novecento reintegra la realtà nello spazio poetico. Sebbene all’interno di un percorso espressivo estremamente coerente, in cui ritornano nodi dell’immaginario, topoi, temi, questo scarto dal soggettivismo lirico nella poetica di Anedda può essere individuato in due diverse fasi creative. Nelle prime raccolte la «fuoriuscita dal solipsismo novecentesco»[3] si realizza quasi a dispetto di una cifra espressiva scarnificata e analogicamente concentrata, che ha indotto molta critica a collocare testi come Residenze invernali o Notti di pace occidentale entro un filone neo-orfico e sapienziale.[4] A partire dalla raccolta Dal balcone del corpo, invece, la dizione poetica teatralizzata e colloquiale e la nuova intenzionalità compositiva che trascende il verso lirico tradizionale, sembrano produrre nella poesia di Anedda una decisa e più evidente intensificazione di tale processo di scardinamento del soggetto. La critica degli ultimi anni non ha mancato di sottolineare la svolta dal «classicismo moderno» delle prime raccolte all’inquietudine enunciativa della seconda fase.[5] Tuttavia è importante notare che l’intera esperienza poetica di Antonella Anedda si svolge sotto il segno di un radicale dialogismo che la sottrae fin dalle origini a tentazioni orfiche o neosimboliste. Leggendo a ritroso, muovendo dal più recente Salva con nome del 2012, le raccolte poetiche aneddiane, è possibile rintracciare già in numerosi elementi l’origine di quello scardinamento del soggetto che nell’ultima silloge verrà pienamente a compiersi. È già nelle prime raccolte, da Residenze invernali fino a Il catalogo della gioia,[6] che trova infatti fondamento un io poetico significativamente declinato come soggetto di percezione, colto in un’attitudine relazionale, che si manifesta nell’osservazione degli oggetti e degli spazi, nell’esercizio della descrizione e dell’ascolto. Ad esempio la funzione degli oggetti, che troverà un ampio e precipuo sviluppo nelle ultime due raccolte, fin dall’inizio si palesa come essenziale a determinare una poetica di apertura all’altro-da-sé e di relazione con l’esterno. Basti pensare alla prima poesia di Residenze invernali:

 
Ora tutto si quieta, tutto raggiunge il buio
 
Non parlavo che al cappotto disteso
al cestino con ancora una mela
ai miti oggetti legati
a un abbandono fuori di noi
eppure con noi, dentro la notte
inascoltati. (RI, 15)
 

Fin dalla prima raccolta, l’universo poetico di Antonella Anedda si rivela come un «dire […] senza gerarchia»,[7] uno spazio di relazione, in cui l’io sceglie gli oggetti come interlocutori («ho provato a parlare. Non di quadri e libri, ma a quadri e libri come spazi che in sé stringevano il segreto di un ulteriore spazio, di un ulteriore tempo»),[8] in cui i corpi subiscono un procedimento astrattivo opposto a ogni antropocentrismo che li parifica agli oggetti e rende l’uomo «cosa fra cose»,[9] e in cui il soggetto non è che luogo prospettico di percezione («Vedo dal buio / come dal più radioso dei balconi» NPO, 9), che trova nel celaniano concetto di «esposizione» la sua più propria misura esistenziale.[10] E sebbene in questa prima fase la struttura e la tonalità lirica della versificazione siano preponderanti e prevalgano nella poesia aneddiana registri espressivi di derivazione simbolista (nominazione assoluta, inversione, monostici, frasi nominali), la forma del testo, refrattaria a ogni regolarità metrica o compositiva, è portatrice di un’inquietudine espressiva che fa parlare già il primo prefatore, Arnaldo Colasanti, di «forme polimetriche […]: inserti di prosa assieme a versi limpidissimi, improvvisa recisione di un verso fuori squadro, sgranato e mosso spazialmente, accanto all’uso continuo, spesso folgorante, del corsivo».[11]

Il motivo più proprio della seconda fase aneddiana, la decostruzione del soggetto enunciativo che lascia il posto a una pluralità di voci e di punti di vista, si fa evidente nell’incessante movimento testuale di Dal balcone del corpo, la raccolta del 2007 di cui scrive esaurientemente Guido Mazzoni:

 

 

È come se questa poesia ultralirica volesse trascendere la prima persona osservandola dall’esterno, mostrando la frammentazione dell’io, dando una consistenza allegorica e teatrale all’arcipelago di forze di cui siamo composti, e proponendo un’immagine del soggetto adeguata ai nostri tempi. Un simile atteggiamento ha in primo luogo una funzione decostruttiva. Anedda sembra voler attraversare la maschera dell’identità individuale e la superficie del quotidiano; sembra voler abbandonare la rete di certezze che le abitudini e il senso comune ci fanno considerare ovvie per ricercare lo scheletro nascosto sotto «quello che ci piace credere».[12]

 

Dal balcone del corpo si organizza come composizione di segmenti sottratti all’egemonia della prima persona, moltiplicando i soggetti enunciativi, dal Coro fino alle più varie personificazioni (Parla lo spavento, Parla l’abbandono, Parla lo spazio), e realizzando un incrocio di voci e prospettive:

 
L’aria è piena di grida. Sono attaccate ai muri,
basta sfregare leggermente.
Dai mattoni salgono respiri, brandelli di parole.
Ferri di cavalli morti circondano immagini di battaglie
le trattengono prima che vadano in un futuro senza cornici. (DBC, 37)
 

Sulla scorta di una significativa epigrafe kafkiana scelta da Anedda, «tra te e il mondo scegli il mondo», (DBC, 35) inizia perciò, con la raccolta mondadoriana del 2007, una riflessione e un conflitto con la nozione stessa di identità e una funzione nuova della parola poetica. Se fin dall’inizio la poesia era stata concepita da Anedda come mezzo di accudimento della realtà,[13] ora essa diventa luogo in cui la realtà stessa ha voce e in cui l’io si screzia in una pluralità di persone grammaticali e attanziali:

Lascia che dicano: noi.
«Noi viviamo per schegge
che spostandosi frantumano l’io e il voi
e il più delle volte lasciano intatto solo il paesaggio».
Lascia che la terza persona parli e che loro rispondano:
[…]
Ora fai che il plurale si ritragga
indietreggi, dica di nuovo: io. (DBC, 19)

Come ha osservato Fabio Zinelli, è soprattutto il sistematico ricorso al mito, declinato in maniera antiorfica e comunicativa, a consentire ad Anedda «una libera uscita dalla gabbia dell’io lirico, dando voce ai sentimenti di tutti», permettendole di «sporgersi oltre il canzoniere, per uscire dal libro dell’io e per essere gli altri».[14] L’io poetico, non più semplicemente aperto al mondo, come accadeva nelle prime raccolte, ma frantumato in diverse voci e figure, è segnato da un’assoluta «perdita della soggettività narcisista»,[15] poiché, come scrive Anedda in un’intervista, «non si ascolta ma contempla e ascolta da».[16] Il corpo che ne condensa l’identità debole non è usato come topos di autoriconoscimento, ma, tradotto nella pura funzione percettiva, è piuttosto un tramite verso l’esterno: come scrive l’autrice, «il corpo serve come un qualsiasi balcone a entrare in casa e a guardare fuori».[17] Parallelamente all’emergere di questi procedimenti di scissione e metamorfismo dell’io, Dal balcone del corpo mette a punto un sistema espressivo che resterà essenzialmente valido anche nella raccolta successiva, che affida la scansione poetica a versi-frasi lunghi, dall’andamento prosastico, procedenti per quadri giustapposti, senza alcuna significativa frattura tra sintassi e metro.[18] L’aspetto metrico-formale del testo si declina cioè in piena coerenza col processo di desoggettivizzazione, in antitesi ad ogni connotazione lirica, ricusando ogni possibile valenza fonica e ogni enfasi ed escursione espressiva, approdando a un verso informale fondato sul ritmo piano e assertivo della frase.[19]

 

Antonella Anedda, da Visi. Collages. Isola della Maddalena, in Salva con nome, Milano, Mondadori, 2012

 

2. «Salva con nome»: spazio, morte, identità

Tuttavia è con l’ultima raccolta, Salva con nome, che la riflessione poetica sull’identità e la sistematica disseminazione delle marche enunciative raggiungono un’inedita profondità e una specifica valenza. Continua qui infatti il processo di disidentificazione messo in atto nella raccolta precedente, ma esso assume una tonalità più tragica in quanto apertamente definito da una meditazione sulla morte e sulla perdita che attraversa l’intero libro e ne sostanzia i significati.

Si osservi intanto come già il titolo giochi antifrasticamente col topos della ‘salvezza’, poiché il predicato «salva» ha un ruolo grammaticale e un significato indecidibile, è insieme l’esortativo allocutivo di una «preghiera laica»[20] (‘tu salva’, ‘che io possa essere salva’) e la parte nominale di un’affermazione (‘io sono salva’). Il più intenso cortocircuito semantico si realizza però tra il riferimento al codice tecnologico della lingua contemporanea e la ripresa del topos simbolista che assegna alla nominazione una valenza salvifica assoluta. Ma la ‘salvezza’ in questa raccolta ricusa ogni tentazione di eternità e si declina in termini di indubbia provvisorietà, consistendo solo in quel nesso del tutto transitorio tra un nome e un corpo che definisce l’identità. Nella prosa poetica che insieme a un collage fotografico apre il volume, si legge:

 

 

Cos’è un nome? Nulla. Un suono che chiama un corpo, un campanello che ti aggioga. Ricevere un nome è la prima prova che siamo in balia degli altri. […] Se il destino è nel nome, il mio sta impallidendo fino a spegnersi e forse si disfa: una sconosciuta in un posto sconosciuto.
Il nome scivolerà via con il corpo, ci saranno dei segni su una pietra per un tempo che giustamente fa sorridere i fisici, poi l’unica corrispondenza sarà l’aria. (SCN, 7)[21]

Il tema centrale di Salva con nome è il confronto serrato tra tale impermanenza dell’identità e la morte, rappresentata spesso nella raccolta come vento che «scardina» il nesso identitario tra corpo e nome,[22] o come taglio, cesura, frattura.

Salva con nome sembra produrre una doppia immagine dell’identità, opprimente e salvifica, disforica ed euforica. Ricorrono infatti episodi e immagini di ribellione alla gabbia dell’identità («Mette in fila i ricordi / loro gridano che non sono mai esistiti. Mette in fila i nomi / loro battono insieme come cucchiai di legno» SCN, 14), di renitenza al limite terreno dell’io, fino all’anelito fusionale e al desiderio di un altrove che spesso si esprime nello scenario onirico. Leggiamo un esempio significativo di questa desiderata dissoluzione identitaria:

 
Il sonno mi teneva nella morsa, io mi divincolavo gridando:
fammi arrivare dove non sono stata, lasciami le orecchie
nette dal suono di ogni voce.
Fai un solo miracolo: che smettano le vite di addensarsi
su questa striscia che chiamo la mia vita.
Lasciami libera da me – dunque da loro – di cui conosco i nomi
e le separazioni. Fai che non li senta più fondere fuoco
in questo bronzo che mi scuote. (SCN, 18)
 

La scrittura poetica tenta dunque l’esercizio di liberarsi dal sé, dal doloroso limite dell’identità: come scrive Maria Grazia Calandrone, «Anedda prosegue il proprio cammino nell’arte della perdita fino alla perdita primaria, quella di sé, fino alla rosselliana estinzione di sé».[23] Ma questo desiderio di evasione da sé, dai limiti del corpo e del nome, è tutt’altro che un vezzo postmodernista: esso cela piuttosto un inesausto confronto con il lutto, una familiarità con la mancanza. La morte è infatti nella raccolta aneddiana l’altra faccia dell’identità, il suo vittorioso contendente, e dissipare le marche identitarie ha perciò il senso di un patteggiamento con la morte. Anedda riduce il soggetto a corpo e il corpo a ricettacolo di percezione proprio perché il mero nucleo percettivo della soggettività costituisce lo stadio fluido, minimale e impoverito dell’identità e prelude alla dissoluzione dell’io ad opera di una morte incalzante. Nella sequenza poetica intitolata Salva con nome, si mette in scena con inusitata intensità ed esattezza il transito dalla vita alla morte, lo spazio che, fin da Residenze invernali, ha sempre rappresentato per la poesia di Anedda la più grande sfida di dicibilità:

 
Cadendo batte la nuca.
Solo un po’ di sangue
nell’angolo tra i capelli bagnati
poi tutti i pensieri a picco.
[…]
Nelle sue orecchie il mondo arriva a ondate.
In una il dolore è più ottuso. Nell’altra c’è più aria.
Anche nel sonno sente l’ovatta e le fiamme.
La fronte tocca le ginocchia piegate.
Torna a essere un feto che ignora l’infinito.
[…]
I passi nel selciato ora raggiungono la gola.
Stridono come carri sul petto. Odorano di acciaio.
[…]
Anche cadendo continua a dormire.
La bocca sul pavimento non sente il freddo.
La raccolgono, la voltano.
La nuca non trema, sta come muschio nelle mani.
[…]
Prima di sgorgare il sangue si raccoglie in un catino d’osso. (SCN, 31-34)
 

In Salva con nome Anedda elabora il topos della dissoluzione dell’identità in un fitto dialogo intertestuale con la raccolta di saggi pubblicata nel 2009, La vita dei dettagli, specificamente dedicata agli exempla visuali del suo immaginario poetico. L’ultima pagina di questo volume si intitola significativamente Perdita, e la sua lettura ci aiuta a mettere a fuoco il conflitto con l’identità e il desiderio di «perdita» che percorre anche Salva con nome:

 

 

Perdere: smettere di possedere, dare oltrepassando, dal lat. Dāre per, donare attraverso, scavalcare se stessi smarrendo, smarrendosi. Perdere oggetti e beni, perdere quanto è caro. […] Scorrere, non trattenere. Perdersi, de possedere, decrearsi. […] Perdere i confini di sé. In ingl.: to blow = soffiare di vento e aria […]. Perdere? È una porta sul vuoto. (VD, 177)

Perdersi, dunque, e imparare la perdita di sé e degli altri: la scrittura poetica di Salva con nome è, per usare dei termini aneddiani, «ammaestramento» alla perdita e «tregua».[24] La sezione de La vita dei dettagli intitolata Collezionare perdite, composta da parole, foto, collages e didascalie, elabora le istruzioni di ricomposizione della perdita che troverà poi in Salva con nome una sua applicazione poetica. Scrive Anedda:

 
Prendi una fotografia, taglia le parti più amate: l’ala del naso,
la curva del collo.
Posale su di un cartone.
Metti lo spazio tra le parti, mettici l’aria.
Gli occhi.
Fai lo stesso lavoro. Allontanali, colora lo spazio (colora il dolore),
fai concreta la separazione.
Scegli una gradazione: terra bruciata.
Cuci un pezzo di stoffa, cuci un brano di lettera, cuci un’iniziale: in quel mezzo-punto non entra il vento. (VD, 166-167)
 
Antonella Anedda, da Collezionare perdite, in La vita dei dettagli, Roma, Donzelli, 2009

 

Si tratta esattamente di quel tipo di composizione testuale che verrà realizzato in Salva con nome: un allestimento verbale e iconico di tipo associativo capace di contenere il dolore della perdita, di confinare la dissoluzione dell’identità, attraverso una ‘salvifica’ collocazione del «dettaglio» prescelto. Parafrasando l’«arte della perdita» di una delle poetesse più amate e citate, Elisabeth Bishop,[25] tale procedimento viene definito da Anedda «arte dello spazio» (SCN 45), in quanto costruzione di un luogo straniato, artefatto, riconnettivo. Lo spazio onirico e quello poetico, entrambi fondati sul sincronismo associativo, costruiscono gli scenari di ricomposizione memoriale e percettiva della perdita, come accade ad esempio nella poesia che apre la sezione Bambini, in cui la casa si fa spazio-collage di contenimento del dolore:

 
Sognai la nostra voce e un’altra voce più forte che colpiva.
Sapevo che era morta ma si sforzava di esistere e lottare.
Chiamai i rumori, quelli più familiari, l’urtare di due sedie,
il tintinnio dei piatti sul vassoio e gli animali
(solo questi, da fiaba):
volpi, linci e lupi perché ci proteggessero.
Venisse un gatto almeno, senza grida,
miracolosamente non umano.
 
La casa era perfetta, gialla, pulita dentro il sole
con lampadari a gocce e in ogni goccia si specchiava
il nostro lavoro di bambini:
scuotere dalla tovaglia la paura insieme alle briciole del pane
fare un orlo al dolore, posarlo
sul mucchio dei panni da stirare.
Solo così, credo, imparammo ad amare
gli oggetti senza colpa,
un parafango e il fango stesso
se preso da una mite angolatura verso il sole,
il mondo senza sangue dei balconi con le piante annaffiate.
Contro il tempo trovammo l’arte dello spazio
la precisione che non permette alla mente di affondare. (SCN 45)
 

In Salva con nome si accentua l’attitudine più propria alla poesia aneddiana, la costruzione di spazi e luoghi metaforici, che alludono a contenimento e posizionamento: la casa, la stanza, l’ospedale, l’isola, la finestra, il balcone, il quadro, la mappa, la cornice.[26] Si tratta della costruzione di uno spazio contestuale, in cui possa esplicarsi quella che Casadei ha definito una «modalità compositiva per immagini»,[27] e in cui tali immagini possano trovare collocazione e «tregua» (NPO, 12). Siamo in presenza di quella che in termini cognitivisti si definirebbe come una vera e propria «riconfigurazione dell’immagine del mondo», uno spazio blanding come insieme capace di un contenimento affettivo degli oggetti e del sé.[28] La poesia consiste appunto in questa «arte dello spazio» che conferisce momentanea salvezza o tregua, come «precisione che non premette alla mente di affondare» (SCN, 45).

In Salva con nome tutto si definisce come spazio, e allo spazio è intitolata un’ampia serie di testi (Spazio della paura estiva, Spazio della paura diurna, Spazio dell’invecchiare, Spazio dell’acqua domestica). Lo spazio è la categoria cognitiva del rifugio, della tregua, della ricomposizione, ma anche della paura, il topos che alla minacciosa dissoluzione dell’identità può opporre solo protezione momentanea e ambigua. La nozione di spazio e le figurazioni in cui essa si realizza, ad esempio la casa o lo stesso sogno, non sono tipologicamente opposte alla perdita e alla frantumazione: lo spazio nel testo aneddiano, così come l’isola che ne è il modello primario, è sempre esposto, insicuro, insidiato e inquieto. Esso si definisce proprio in forza di una perdita, ed è perciò di tale perdita esso stesso memoria e testimonianza. Già fin da Residenze invernali Anedda scrive che «la casa è ciò da cui si è tolti» (RI, 72), e dunque spazio turbato, ferito. Lo spazio nella poesia di Anedda non è mai rappresentato come rifugio edenico o altrove salvifico, ma come scacchiere inquieto della paura e del coraggio, in cui ricollocare gli oggetti, le attese, i sogni, i ricordi, i dettagli, secondo quelle indicazioni elaborate in Collezionare perdite, in modo da «sopportare la separazione» (VD, 175) e tracciare «un nuovo recinto dove aspettare» (VD, 172). È perciò soprattutto luogo di comunicazione tra vivi e morti, in cui il pensiero della morte possa essere reso tollerabile. Un esempio di tale concezione dello spazio può essere letto nella poesia Spettri, il cui testo è preceduto dalla figura enigmatica di una cornice vuota:

 
Sostentati dal nulla
esistenti solo dove si sogna
fluttuanti senza sapere
non più concreti del vapore
che sale dalla teiera
eppure ancora capaci di sentire
la forma di ogni separazione
la precisione con cui la morte
ci tagliava via uno dall’altro:
lo spazio che faceva esponendoci
vuoti di luce, poi sfaldati. (SCN, 13)
 

Lo spazio misterioso delimitato dalla cornice in cui vivi e morti sono insieme collocati – la poesia, la casa, il sogno – è prodotto dalla ricorrente figurazione separativa del taglio.[29] In esso si ricostruisce artificialmente quell’interezza non più esperibile, quell’insieme disgregato dalla morte che «ci tagliava via uno dall’altro». L’insistito motivo del ‘taglio’ fa peraltro pensare all’irreversibile frattura della simbiosi tra madre e figlio ed evoca per contrasto quella condizione di interezza e di radicamento prenatale che lo spazio poetico tenta di riprodurre.[30]

Il testo poetico nasce dunque come tentativo di ricomposizione di uno spazio che contenga e associ identità disperse e frammentarie dell’io e dell’altro, dei vivi e dei morti. Solo nello spazio-collage di un’installazione poetica è possibile recuperare il ruolo di un soggetto che esperisce il taglio e la riconnessione. La sezione di Salva con nome intitolata Cucire elabora una metafora metapoetica già tratteggiata in La vita dei dettagli,[31] in cui il gesto del cucire conserva una propria ambiguità, in quanto rimedio insidioso e provvisorio, tanto che le immagini di aghi e forbicine che accompagnano i testi ne adombrano un potenziale uso offensivo. «Cuci una foglia vicino alle parole, cuci le parole tra loro» (SCN, 65): cucire e scrivere condividono un desiderio di riconciliazione e di ricomposizione, ma anche la possibilità di accostamenti incongrui che restituiscano al soggetto il ruolo di artefice. Si legga da una prosa poetica della sezione:

 

 

Immagino chi ha inventato l’ago. Era vicino al fuoco e di colpo ha visto che l’osso più affilato (come la spina) teneva insieme la pelle. Spina e pelle. Osso. Quello che la morte smembrava poteva essere unito di nuovo. Da piccola cucivo foglie di castagno tra loro fino a farne corone. Sognavo di fare vestiti completamente verdi appena rigati di nero dalle spine dei ricci. Sopportavo che mi entrassero nelle mani. Le corone erano perfette, ma fragili. Bastava una folata di vento e si decomponevano volando a caso nel castagneto (SCN, 64).

Lo spazio scritto o cucito ospita la memoria della perdita, ed è perciò spazio di una nuova soggettività, la cui identità si definisce solo in una relazione di desiderio o di mancanza. Chi cuce, chi scrive, chi guarda, non solo costruisce oggetti compositi come vestiti fatti di foglie e spine, ma soprattutto allestisce uno spazio eterogeneo e plurale, che risponde a quel programma di sovvertimento di proporzioni, prospettive e distanze pronunciato in La vita dei dettagli: «Il dettaglio – scrive Anedda – è l’isola del quadro. Per vedere meglio dobbiamo trasgredire lo spazio, abolire ogni distanza ragionevole» (VD, 2). È a partire dal dettaglio che si fa possibile «l’arte dello spazio», ovvero una diversa e straniante ricollocazione degli oggetti affettivi. È a partire dal dettaglio che si fa possibile un testo poetico che esibisce la propria valenza composita non come mero esercizio espressivo, ma come riappropriazione di senso. Crediamo infatti di poter estendere il concetto di dettaglio oltre la sfera estetica, e di poterlo intendere cognitivamente come punctum, punto focale affettivo, che si impone in quanto stabilisce una relazione di intimità col soggetto («Resiste solo il dettaglio che ti ha fatto cenno» VD, 2). Il soggetto a sua volta definisce la propria funzione proprio nella relazione creativa che il suo sguardo istituisce col dettaglio: «Lo sguardo non riunisce ma scompone, libera i dettagli dal quadro, lascia che diventino un altro quadro» (VD, IX). Sottratto allo spazio assegnatogli, il dettaglio si offre come oggetto di un nuovo spazio, come parte di una nuova composizione e misura espressiva. È quanto in Collezionare perdite si prescriveva per sopportare il dolore e l’assenza: scomporre, ricomporre, straniare, diluire nello spazio l’oggetto perduto («metti lo spazio tra le parti, mettici l’aria» VD, 166), ampliare le dimensioni, variare la prospettiva: «Dài verità alla perdita. Guardala dall’alto. Lo spazio dice: una volta dispersa è irriconoscibile» (VD, 173).

 

Antonio Canova, Monumento funebre a Maria Cristina d’Austria, 1805, Augustinerkirche, Wien

 

Il testo poetico istituisce così uno spazio evocativo, atemporale, analogico, che associa e riconnette vivi e morti. Se in Dal balcone del corpo era soprattutto l’istituzione del Coro «l’espediente per stringere in una sola comunità i vivi e i morti»,[32] in Salva con nome la relazione è connessa a due topoi che ne mediano la distanza, il sogno e l’acqua. Si tratta di due figurazioni di un subconscio che, vanificando i limiti dell’identità, si fa spazio di incontro e di scambio. Il racconto onirico è una delle formule più feconde della raccolta,[33] mentre alle Acque è intitolata un’intera sezione. Un intenso passaggio di Isolatrie esplicita la dissoluzione identitaria indotta dall’acqua nello spazio poetico aneddiano:

 

 

Allora l’unica cura per quel disagio è l’acqua, tanto meglio se fredda. Rabbrividendo ci scrolliamo dai demoni, andando al largo ci dimentichiamo della terra. Nel mare, agli occhi calmi dei pesci forse appariamo quello che siamo: informi, decomposti dalla luce filtrata dove non penetra il sole. Là, nella solitudine, non ci sono barriere tra la nostra pelle e l’acqua.[34]

Lo sguardo dei pesci di cui si parla in questo brano restituisce un soggetto umano e vivente del tutto straniato, liberato dalla gabbia dell’identità, come spesso accade in una poesia che tende a invertire la relazione tra chi guarda e chi è guardato. Ai morti, come i pesci testimoni muti dei vivi, è assegnato spesso nello spazio del testo aneddiano l’onere dello sguardo e del punto di vista sul mondo. Pensiamo in particolare a due tra le più significative poesie della raccolta, associate proprio da questo ribaltamento tra soggetto e oggetto dello sguardo, Cucina 2005 e Video. Nella prima, segnata dalla semantica di un bianco lunare e fantasmatico, si rappresenta una scena notturna in cui l’io è visto dall’esterno e rinnegato dallo sguardo materno:

 
Se l’avesse vista
se avesse visto la sua forma mortale
spalancare stanotte il frigorifero
e quasi entrare con il corpo
in quella navata di chiarore,
muta bevendo latte
come le anime il sangue
spettrale soprattutto a se stessa
assetata di bianco, abbacinata
dall’acciaio e dal ferro
bruciandosi le dita con il ghiaccio
 
avrebbe detto non è lei. Non è
quella che morendo ho lasciato
perché mi continuasse. (SCN, 16)
 

Lo spazio domestico segnalato dal cronotopo del titolo è d’altronde il luogo maggiormente frequentato dalla relazione tra vivi e morti,[35] è lo spazio che sfida il tempo nell’istituire un sincronismo assoluto («contro il tempo trovammo l’arte dello spazio» SCN, 45), tanto che le numerose date presenti nei titoli, sottratte a ogni valenza diaristica, rappresentano al contrario dei frammenti di tempo che «l’arte dello spazio» ingloba e immobilizza. La rappresentazione della perdita nella poesia aneddiana non è mai collocata nel tempo, ma ricomposta come spazio. Come si legge ne La vita dei dettagli a proposito di Rothko, la morte non si individua come un altro tempo ma come un altro spazio: «Rothko […] sa che l’enigma della morte non è il tempo ma lo spazio, non il quando ma il qui e il laggiù, ciò che si stende e stride fra la nostra sosta qui e il richiamo di quel laggiù. La tela è lo spazio che dalla sua chiusura intuisce un altro spazio» (VD, 115).

La consonanza tra la poesia e la riflessione di Anedda e l’operato di alcuni artisti come Rothko e Bill Viola è a questo punto evidente. Anche la poesia aneddiana è, come lei stessa scrive a proposito di Rothko, «lo spazio che dalla sua chiusura intuisce un altro spazio» (VD, 115). All’installazione Ocean without a shore presentata da Bill Viola alla Biennale veneziana del 2007, Anedda dedica due testi, un capitolo de La vita dei dettagli e la poesia Video in Salva con nome, confermando peraltro l’intensa relazione intertestuale tra i due volumi del 2009 e del 2012. Scrive Anedda ne La vita dei dettagli:

 

 

In un mondo che ripudia la morte Viola è uno dei pochi artisti in grado di interrogarla. […] Meditando sulla mancanza, Viola prova a dire la prossimità tra il qui e l’altrove, tra la vita e la morte. […] Usando il video crea fantasmi, nel senso esatto del termine: gente senza carne, folla senza sangue, schiere di corpi fatti e disfatti dalla luce e dall’acqua (VD, 126-129).

Nella poesia che in Salva con nome è dedicata all’opera di Bill Viola, Video, si riproduce quella compresenza, ma insieme quell’irrevocabile separazione, degli spazi dei vivi e dei morti, e, come in Cucina 2005, lo sguardo compassionevole e straniato dei morti sui vivi:

 
Chi se ne è andato non desidera tornare.
Pensiamo che si strugga per il mondo
prestandogli la nostra nostalgia.
L’oleandro che trema, l’abete
che si sfrangia più latteo nella luna
e tutta la bellezza incomprensibile
che ci ostiniamo a raccontare.
 
Se i morti vedono ci guardano scrutare l’illusione di un muro
bussare per entrare o chiamare
come i pazzi che cullano le pietre
bisbigliando loro: amore. (SCN, 114)
 

L’«arte dello spazio», una sapiente composizione del testo che agisce per via associativa, recuperando interferenze, analogie, immagini, consiste allora nel richiamare memorie personali e archetipiche e nel tradurre la parola poetica in spazio dell’incontro con le ferite e i fantasmi che affollano la pagina.

 


1 Per una lettura complessiva del codice lirico soggettivista negli ultimi due secoli, si veda G. Mazzoni, Sulla poesia moderna, Bologna, Il Mulino, 2005. Relativamente a un periodo più ristretto e a un ambito più prettamente nazionale, un’utile ricostruzione della questione in è in S. Giovanardi, Introduzione a M. Cucchi, S. Giovanardi (a cura di), Poeti italiani del secondo Novecento. 1945-1995, Milano, Mondadori, 1996, IX-LVIII.

2 A sintesi di una più vasta elaborazione teorica, si veda la Prefazione di A. Giuliani a Id. (a cura di), I Novissimi. Poesie per gli anni sessanta, Torino, Einaudi, 1961. Per una contestualizzazione della poesia di Anedda nel quadro poetico contemporaneo, mi permetto di rimandare a C. Verbaro, ‘Natura morta con cornice. La poesia di Antonella Anedda’, Italian Poetry Review, V, 2010, pp. 315-330.

3 G. Ladolfi, ‘L’insufficienza dell’orfismo’, Atelier, XVII, 66, giugno 2012, Esodi ed esordi. Antonella Anedda, p. 62.

4 Cfr. E. Testa, ‘Antonella Anedda’, in Id. (a cura di), Dopo la lirica. Poeti italiani 1960-2000, Torino, Einaudi, 2005, pp. 401-404; A. Afribo, ‘Antonella Anedda’, in Id., Poesia contemporanea dal 1980 a oggi, Roma, Carocci, 2007, pp. 183-203.

5 L’espressione «classicismo moderno» è riferita ad Anedda da G. Mazzoni, ‘Poesie liriche: Anedda, Bre, Prete, Carpi, Mussapi’, in M. Cucchi, A. Riccardi (a cura di), Almanacco dello Specchio, Milano, Mondadori, 2007, p. 240. Tale definizione, ugualmente relativa alla raccolta aneddiana Notti di pace occidentale, è poi riutilizzata anche da A. Afribo, ‘Poesia’, in Id., E. Zinato, Modernità italiana. Cultura, lingua e letteratura dagli anni settanta a oggi, Roma, Carocci, 2011, p. 251. Su Notti di pace occidentale come esempio di poesia civile contemporanea, si veda inoltre F. Fusco, ‘Antonella Anedda: tra visionarietà e impegno’, Oblio, III, 11, Per Antonella Anedda, pp. 140-146. La lettura critica che valuta con maggiore interesse e incisività la svolta poetica iniziata con Dal balcone del corpo è invece quella di A. Casadei, ‘Poesia, pittura, giudizio di valore (a partire dalle opere di Antonella Anedda)’, in Id., Poetiche della creatività. Letteratura e scienze della mente, Milano, Bruno Mondadori, 2011, pp. 119-134.

6 Indichiamo di seguito i riferimenti bibliografici delle raccolte poetiche di Antonella Anedda e le relative sigle che utilizzeremo d’ora in poi nel testo, seguite dal numero della pagina: Residenze invernali, Milano, Crocetti, 1992 (RI); Notti di pace occidentale, Roma, Donzelli, 1999 (NPO); Il catalogo della gioia, Roma, Donzelli, 2003 (CG); Dal balcone del corpo, Milano, Mondadori, 2007 (DBC); Salva con nome, Milano, Mondadori, 2012 (SCN). Utilizzeremo inoltre la sigla VD per la raccolta di saggi La vita dei dettagli. Scomporre quadri, immaginare mondi, Roma, Donzelli, 2009.

7 Ead., La luce delle cose. Immagini e parole nella notte, Milano, Feltrinelli, 2000, p. 11.

8 Ivi, p. 12.

9 Ivi, p. 96. Sulla strategia di frantumazione e oggettualizzazione del corpo, rimando all’analisi testuale in C. Verbaro, ‘Natura morta con cornice’, pp. 321-323.

10 «La poésie ne s’impose plus, elle s’expose» (P. Celan, La verità della poesia. «Il meridiano» e gli scritti in prosa, a cura di G. Bevilacqua, Torino, Einaudi, 1993, p. 1).

11 A. Colasanti, Premessa a A. Anedda, Residenze invernali, p. 7.

12 G. Mazzoni, ‘Poesie liriche’, pp. 40-41.

13 A questo proposito mi permetto di rimandare alla lettura della poesia Se ho scritto è per pensiero, in C. Verbaro, ‘Natura morta con cornice’, pp. 327-328.

14 F. Zinelli, Recensione a Dal balcone del corpo, Semicerchio, 38, 2009.

15 E. Morra, ‘Scomporre quadri, immaginare mondi. Dinamiche figurative e percezione nella poesia di Antonella Anedda’, Italianistica, XL, 3, settembre-dicembre 2011, Letteratura e scienze cognitive: teorie e analisi, a cura di A. Casadei, p. 170.

16 ‘L’ammaestramento delle lingue: intervista ad Antonella Anedda’, a cura di S. Morotti, Soglie, X, 1, aprile 2008, p. 68.

17 Ibidem.

18 Sulla sottrazione delle valenze più prettamente poetiche del testo si concentra la critica di Giorgio Manacorda, che stigmatizza l’aneddiana indistinzione tra poesia e scrittura, un’asserita «concezione fredda della creatività» e l’assenza di «epifania emotiva» di tipo analogico; cfr. G. Manacorda, ‘Può finire bene. La vicenda della poesia italiana nella seconda metà del Novecento’, in P. Febbraro, M. Marchesini (a cura di), Poesia 2010-2011. Quindicesimo annuario, Roma, Perrone editore, 2011, pp. 87-90 (citt. pp. 89 e 88).

19 Come scrive Cecilia Bello Minciacchi, «la materia linguistica non eccede, non vuol essere rigogliosa, e non cerca marche d’espressionismo pur fronteggiando temi colmi di pathos» (C. Bello Minciacchi, ‘L’identità, la morte, l’ago della memoria. Salva con nome di Antonella Anedda’, p. 131).

20 G. Adamo, ‘La poesia di Antonella Anedda tra parola e silenzio’, p. 23; cfr. anche A. Scarpellini, ‘Qui comincia’, Radio3, 11 maggio 2012, ora in Atelier, p. 49.

21 Si noti che la questione dell’identità è al centro di un libro di M. Benedetti, Materiali di un’identità, Massa, Transeuropa, 2010, con prefazione di Antonella Anedda, in cui si legge: «Mario Benedetti scompone la materia della propria esperienza interiore, la smembra e la disperde sospettando (come è giusto) l’inesistenza di una identità» (A. Anedda, 'Mappe, perturbazioni. Le stringhe temporali di Mario Benedetti', ivi, p. 5).

22 Il topos dello ‘scardinamento’, ricorrente nel testo, è esplicitato nella prosa di apertura proprio come cancellazione del nome: «In questo libro i nomi possono essere dati arbitrariamente da chi legge, possono essere associati a vecchie foto di visi che colleziono negli anni e di cui non so il nome. / Hölderlin aveva capito che nella firma Scardanelli c’erano scaglie di pace. / Hölderlin corrispondeva a un nome spesso deriso. Scardanelli scardinava il passato» (SCN, 7-8). Il concetto è presente anche nel libro uscito subito dopo Salva con nome, il memoriale di viaggio Isolatria. Viaggio nell’arcipelago della Maddalena, Roma-Bari, Laterza, 2013, in cui l’isola è rappresentata come luogo di un instabile approdo, sempre esposta alle possibili furie ‘scardinatrici’ dei venti: «basta una raffica a scardinarci e non siamo al centro di nulla» (ivi, p. 4). Ma già molti anni prima, in una nota a Il catalogo della gioia, La Maddalena è detta «un luogo più di transito che di sosta, come se quel vento così forte, così insistente, trascinasse via ogni cosa» (CG, 114).

23 M.G. Calandrone, ‘Anedda, solitudine e consolazione in una umidità vegetale’, in Il Manifesto, 11 aprile 2012. L’allusione rosselliana si riferisce a un testo del poemetto Concerto per paura, coro e voci, che cita appunto una poesia di Amelia Rosselli, che di Anedda fu grande amica e sostenitrice: «Ricorda il verbo: estinguere. / Poi ricorda tutto il verso / “estinguere la passione del sé”. / E ancora: “estinguere il verso che rima / da sé: estinguere perfino me”» (SCN, 107).

24 Il primo termine è utilizzato da Anedda rispondendo a una domanda sulla traduzione da altre lingue, da lei intesa come vicendevole «ammaestramento»: cfr. ‘L’ammaestramento delle lingue’, p. 68; «tregua» è invece tutto ciò che è separato, parentetico, momentaneamente o illusoriamente ‘salvo’: «Ciò che si stende tra il peso del prima / e il precipitare del poi: / questo io chiamo tregua / misura che rende misura lo spavento / metro che non protegge» (NPO, 12).

25 Cfr. E. Bishop, L’arte del perdere, a cura di M. Guidacci, Milano, Rusconi, 1982.

26 L’ospedale come «condizione mitico-simbolica» (A. Casadei, ‘Poesia, pittura, giudizio di valore’, p. 120) è centrale in Residenze invernali, ma compare anche in Salva con nome, nella sezione Pneumologia, in cui la reclusione presenta una doppia valenza semantica legata all’ospedale e all’identità. L’isola è il topos determinante in Notti di pace occidentale, in quanto metafora dell’Occidente che guarda il Continente – il Medioriente – in guerra. Anche in quel caso, come sarà poi in Salva con nome, si tematizzano le morti anonime di sconosciuti («Non volevo nomi per morti sconosciuti / eppure volevo che esistessero / volevo che una lingua anonima / – la mia – / parlasse di molte morti anonime», NPO, 12). Ugualmente presenti nella raccolta del 1999 sono finestra e balcone, fin dall’incipit: «Vedo dal buio / come dal più radioso dei balconi», NPO, 9). Quadri e finestra presentano numerose occorrenze in Il catalogo della gioia («aprire la finestra / davanti a questo abete, guardarlo bene», CG, 31). Nel racconto dei quadri si sottolinea spesso l’elemento del silenzio, inteso come «tregua» («E adorare i quadri che gli esseri umani hanno dipinto / i mondi senza vento che respirano quieti nei musei», CG, 28). Dal balcone del corpo ripropone invece spesso la situazione dello sguardo del soggetto da lontano – dal corpo, dall’isola – come distanza che acquieta e ripara, o che almeno dà l’illusione della ‘salvezza’: «Da lassù tutto è lontano. Chi grida e cosa dice. Forse non grida, forse non parla. / Non si riesce a vedere. Spariscono i primi piani» (DBC, 60). Le mappe hanno per Anedda la stessa valenza di rimozione della guerra e del rumore dei quadri. In Isolatria ad esempio si legge: «Sì, i colori dei cartografi sono più delicati di quelli degli storici, la topografia è imparziale. Ci sono confini senza sangue, prati senza cadaveri» (A. Anedda, Isolatria, p. 28). Sull’uso metaforico e metapoetico della ‘cornice’, rimando a C. Verbaro, ‘Natura morta con cornice’.

27 A. Casadei, ‘Poesia, pittura, giudizio di valore’, p. 117.

28 Cfr. G. Fauconnier, M. Turner, The way we think: conceptual blendings and the mind’s hidden complexities, New York, Basic Books, 2002.

29 «Stranamente, l’idea del taglio, della cesura fredda, del troncamento reciso, quindi della separazione netta e crudele, ripercorre costante tutta la raccolta: spada, acciaio, ferro, falce, ferita, forchetta, lamiera, carta vetrata, spina, osso affilato, cesoie, sbarre, coltelli, sono gli oggetti più presenti e assedianti, nella loro asettica nudità, l’immaginario di questa poesia» (A. Airaghi, ‘Cesura come analitica severità’, p. 57).

30 Si veda in particolare Orto, costruito come lamento e invocazione rivolti a un archetipo che ha i tratti del materno e del paterno insieme: «Dammi coraggio platano, posami due foglie sugli occhi / fai che scavando con le tue radici trovi l’umido che mi culla. / Guardandoti m’illudo che abbia un senso questo cercare / morti in vita, questo che faccio eternamente chiedendo / perfino a te: dov’è il viso che il mondo ha scacciato?, / come mai questa pioggia non ha i suoi tratti e l’acqua / scroscia dentro la voce che ripete: “L’hanno portato via e tu / smetti l’arroganza di capire”. / Dammi silenzio. Rendi le foglie pietre. / Prega la notte che mi faccia legno» (SCN, 50).

31 Si veda Collezionare perdite, e in particolare la prosa Natura morta con stoffa (VD, 175-176).

32 F. Zinelli, Recensione a Dal balcone del corpo.

33 «Di colpo nel sogno lo spazio era una pietra. / Pensavo, qui nessuno è nato, nessuno è morto. / Il vento era senza folate / il lupo non aveva muso. / I nomi non coincidevano più con le cose / e neppure i corpi. / Erano passi e ombre sulla ghiaia del cortile. / A tutti, a te, a me, al mondo, / avevano tolto la spina del tormento» (SCN, 90).

34 A. Anedda, Isolatrie, p. 26.

35 Un altro esempio di questo aggirarsi e agire dei morti nella casa è 1943: «Torna: è polvere ma entra nella casa / mette l’ombra sul muro e sul cuscino, / muove le piastre s’inclina di gas viola. / Sente la sottrazione come in vita il gelo / calcola le pause ma sa che è inutile sommare / numeri e vuoto, volo degli atomi alla lana / al pelo dei gatti sui tappeti. / Nuda guarda come precipita / la sua memoria nella stufa» (SCN, 17). Sul tema della casa come luogo perturbante nella poesia contemporanea, si veda P. Zublena, ‘Il domestico che atterrisce. La tematizzazione del quotidiano nella poesia di oggi’, in G. Alfano et alii (a cura di), Parola plurale. Sessantaquattro poeti italiani fra due secoli, Roma, Luca Sossella editore, 2005, pp. 53-66.