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Il saggio ripercorre i caratteri essenziali della poesia di Antonella Anedda a partire dal libro di esordio del 1992, Residenze invernali, focalizzando in particolare la revisione della soggettività lirica che va accentuandosi, fino a culminare nelle ultime due raccolte poetiche, Dal balcone del corpo (2007) e Salva con nome (2012). Ci si concentra poi su quest’ultima raccolta, letta in parallelo ai saggi aneddiani del 2009 e del 2013, La vita dei dettagli e Isolatria. In Salva con nome si rileva la programmatica costruzione di uno spazio poetico di tipo associativo, esemplato nelle figure del sogno e della casa, in cui, liberati dai vincoli dell’identità individuale e richiamando memorie personali e archetipiche, sia possibile l’evocazione e l’interrogazione della morte. Quella che Anedda definisce nel testo «arte dello spazio», è così individuata come motivo portante della poetica dell’autrice, in quanto costruzione di una sincronicità che abbatte le barriere tra vivi e morti, tra io e altro.

The essay reviews the characteristic traits of Antonella Anedda’s poetry, starting from her first book Residenze invernali (1992). In particular, it examines the ongoing revision of the poetic subjectivity that culminates in the last two poetic collections, Dal balcone del corpo (2007) and Salva con nome (2012). The essay focuses on this last collection, which is analyzed in conjunction with  Anedda’s essays from 2009 and 2013, La vita dei dettagli and Isolatria. The analysis of Salva con nome highlights the  programmatic construction of an associative poetic space which  expresses itself in the figure of the dream and the house. This space is free from the restrictions of individual identity and recalls personal and archetypical memories, and therefore allows the evocation and  interrogation of death.  In this way, Anedda’s «arte dello spazio» is identified as the basic element of the author's poetics: the construction of a synchronicity which cuts down the barriers between the quick and the dead, between self and the others. 

 

 

Nella stanchezza senza soccorso in cui il povero volto si dovette raccogliere tumefatto, come in un estremo ricupero della sua dignità, parve a tutti di leggere la parola terribile della morte e la sovrana coscienza della impossibilità di dire: Io.

Carlo Emilio Gadda

 

 

1. Oltre la soggettività lirica

Fin dall’esordio del 1992 con Residenze invernali, il percorso poetico di Antonella Anedda è segnato dalla messa in discussione della soggettività lirica che caratterizza il modernismo novecentesco.[1] In tal senso, nel corso di poco più di un ventennio, essa ha interpretato in modo del tutto personale e portato a compimento quel lungo processo di revisione del codice poetico monologico e autoreferenziale che, a partire almeno dalle istanze di un io aperto al fenomenico poste da Anceschi e recepite dalla Neoavanguardia negli anni Sessanta,[2] nel corso del secondo Novecento reintegra la realtà nello spazio poetico. Sebbene all’interno di un percorso espressivo estremamente coerente, in cui ritornano nodi dell’immaginario, topoi, temi, questo scarto dal soggettivismo lirico nella poetica di Anedda può essere individuato in due diverse fasi creative. Nelle prime raccolte la «fuoriuscita dal solipsismo novecentesco»[3] si realizza quasi a dispetto di una cifra espressiva scarnificata e analogicamente concentrata, che ha indotto molta critica a collocare testi come Residenze invernali o Notti di pace occidentale entro un filone neo-orfico e sapienziale.[4] A partire dalla raccolta Dal balcone del corpo, invece, la dizione poetica teatralizzata e colloquiale e la nuova intenzionalità compositiva che trascende il verso lirico tradizionale, sembrano produrre nella poesia di Anedda una decisa e più evidente intensificazione di tale processo di scardinamento del soggetto. La critica degli ultimi anni non ha mancato di sottolineare la svolta dal «classicismo moderno» delle prime raccolte all’inquietudine enunciativa della seconda fase.[5] Tuttavia è importante notare che l’intera esperienza poetica di Antonella Anedda si svolge sotto il segno di un radicale dialogismo che la sottrae fin dalle origini a tentazioni orfiche o neosimboliste. Leggendo a ritroso, muovendo dal più recente Salva con nome del 2012, le raccolte poetiche aneddiane, è possibile rintracciare già in numerosi elementi l’origine di quello scardinamento del soggetto che nell’ultima silloge verrà pienamente a compiersi. È già nelle prime raccolte, da Residenze invernali fino a Il catalogo della gioia,[6] che trova infatti fondamento un io poetico significativamente declinato come soggetto di percezione, colto in un’attitudine relazionale, che si manifesta nell’osservazione degli oggetti e degli spazi, nell’esercizio della descrizione e dell’ascolto. Ad esempio la funzione degli oggetti, che troverà un ampio e precipuo sviluppo nelle ultime due raccolte, fin dall’inizio si palesa come essenziale a determinare una poetica di apertura all’altro-da-sé e di relazione con l’esterno. Basti pensare alla prima poesia di Residenze invernali:

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